La lettera del 26 novembre 1945 indirizzata da Primo Levi ai parenti che nel 1939, all’indomani delle leggi razziali, si erano rifugiati in Brasile era rimasta a oggi custodita negli archivi famigliari, e dobbiamo essere grati ai suoi figli, Lisa e Renzo, di avercene fatto dono, nel centenario della nascita dello scrittore (31 luglio 1919), e nel 75° della partenza per Auschwitz. È in pari tempo un documento di eccezionale importanza per la ricostruzione del percorso del Levi scrittore, di cui rappresenta il Big Bang, e un flash vivacissimo che fotografa i malesseri dell’Italia e dell’Europa («vecchia, maledetta e pazza») nei primi mesi di un dopoguerra in cui una vera pace è ancora lontana.

Se si esclude il memoriale sull’organizzazione medica nel campo di Monowitz, che i russi avevano chiesto all’amico medico Leonardo De Benedetti e a lui, suo aiutante, all’indomani della liberazione di Auschwitz (27 gennaio 1945), è la prima volta che Primo, da quando è tornato a casa il 19 ottobre «vestito da soldato russo», scrive diffusamente della tragedia cui è scampato. Lo stile è già ben riconoscibile, a partire dall’understatement lievemente umoristico dell’apertura: la famiglia lo ha delegato a scrivere perché è quello che ha le cose più interessanti da raccontare.

Già allora non vuole sollecitare la commozione e lo sdegno, non indulge al vittimismo. Il tono è quello asciutto del rapporto di laboratorio, reso drammaticamente eloquente dai dati di fatto: 650 i «disperati» partiti da Fossoli, 50 persone per vagone, quattro giorni e quattro notti di viaggio, 10.000 i prigionieri del campo divisi in baracche da 200 persone, le selezioni, il lavoro, il freddo, la fame, i 20 morti al giorno per malattia o percosse, la macabra metodicità che regola le cremazioni. E tuttavia «non era un cattivo campo», o almeno, non il più cattivo. Anche se «di tutto il convoglio, siamo ora vivi quindici».

C’è già la voglia, la necessità, il dovere, l’urgenza del racconto, in queste righe battute a macchina in inchiostro rosso (la parte nera del nastro doveva essere già consumata), che sono probabilmente una copia di lavoro. E difatti poche settimane dopo, nei primi mesi del 1946, Primo, che ha trovato lavoro alla Duco-Montecatini di Avigliana, e dal lunedì al venerdì dorme nella foresteria dell’azienda, comincia a scrivere febbrilmente i capitoli che l’anno dopo confluiranno nel disegno unitario di Se questo è un uomo, il cui titolo sembra già annunciato nel perentorio «non siamo più uomini» della lettera.

Il primo racconto che scrive, Storia di dieci giorni, porta la data del febbraio 1946, e diventerà l’ultimo capitolo del libro. Primo ne consegna una copia all’Ufficio storico del Cln e alla Comunità ebraica di Torino, che sono i due poli della nuova appartenenza, Resistenza ed ebraicità, che si è costruito. Ma invia man mano i capitoli anche alla cugina Anna Yona (sorella di Vittorio Foa) e a Laura Capon Fermi (moglie del fisico Premio Nobel 1938) che vivono in America, in vista di una possibile traduzione. In poche settimane ha scoperto e fortificato la sua vocazione di scrittore, sino a produrre quello che è in primo luogo un capolavoro letterario.

Nella lettera c’è anche la straordinaria lucidità dell’osservatore ventiseienne, un acume d’analisi che diventa profetico: i tedeschi per nulla pentiti che coltivano sogni di rivincita, i russi che si sono fatti contagiare dal gusto dell’Occidente e hanno dimenticato Marx, i Balcani diventati una polveriera. C’è la delusione per l’eterna Italia trasformista e moralmente infetta, già preda di una nuova aristocrazia dell’illegalità, ancora prostrata dalla malattia del fascismo, «che cambia nome e stile e metodi ma non è morto». Una malattia che pare diventata endemica.

«Non si fanno progetti al di là di una settimana», leggiamo ancora nella lettera. Sembra che Primo stia parlando di noi, oggi, della nostra mortificante incapacità a guardare lontano e imparare dalla storia. Eppure lo ha scritto chiaro, a conclusione de I sommersi e salvati: «è avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire».

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