«Ma che dovevo di’? Sessant’anni fa c’era un clima che oggi non si può capire. Un ragazzo non aveva nessun diritto, era un soggetto da educare, crescere, secondo i dettami dei pedagogisti e degli psicologi. C’era una coscienza ancestrale: dovevi subire e basta». Cinquant’anni di silenzio sugli abusi subiti da sacerdoti suoi insegnanti nel seminario minore, don Vinicio Albanesi, li giustifica con queste poche parole. Mai finora il prete, noto alle cronache per il ruolo di presidente della Comunità di Capodarco che da decenni offre sostegno a disabili fisici e psichici, minori abbandonati, famiglie sole, stranieri, tossicodipendenti, aveva rivelato di essere stato anche lui una vittima. Lo ha fatto, inaspettatamente, ieri mentre era in diretta negli studi della emittente dei vescovi italiani, Tv2000, e commentava il summit in corso in Vaticano: «Anch’io ho subito abusi in seminario».

«Sì, ma non mi piace essere chiamato vittima», precisa al telefono con La Stampa con l’accento ciociaro e l’ironia che lo contraddistinguono. «Chi rimane vittima soffre di più».

Certi traumi però sono difficili da superare.

«Assolutamente. E ci sono casi anche sicuramente più gravi dei miei. Però bisogna reagire imprecando contro queste maledizioni e guardare all’orizzonte in termini - io dico - solari, altrimenti certe ferite ti infettano il sangue dal di dentro». 

A lei è successo?

«No, non mi ha infettato, ma rimane una ferita aperta. Vede? A 76 anni ricordo ancora tutto molto bene».

Di che tipo di abuso parliamo? E a che età?

«Molestie sessuali fino alla masturbazione. Ripetute, da più di un prete. Avevo 11, 12, 13 anni. Mica sono durate poco!». 

E non ha mai pensato di lasciare quel seminario?

«No, perché volevo davvero diventare prete. E perché mi ha aiutato pensare che non avevo alcuna colpa. Le persone subdole e delittuose, i fetenti, erano loro: adulti, presunti o veri educatori, che approfittavano del sacerdozio per esercitare potere e dominio. Non funziona così, non si diventa preti per avere privilegi, per saltare ogni regola. Essere preti è un dono e anche un peso, significa diventare come Gesù Cristo che ha aiutato i bimbi, i ciechi e gli zoppi, che ha guarito e non ha provocato ferite con le parole come fanno tanti. Significa anche imparare, come lui, a perdonare».

E lei li ha perdonati questi preti che le hanno fatto del male?

«Perdonare è difficile, significa dimenticare e ricominciare a vivere. Io li ho disprezzati. Ho pensato: che vigliacchi, perfidi, malati, andassero a quel paese! Però non li ho giudicati, ognuno ha i suoi limiti e le sue debolezze. Ci avrà pensato sicuramente il Padre Eterno dopo che sono morti (ride)».

Possibile che neanche mezza denuncia da allora? Una parola alla sua famiglia? Niente?

«E che ti devo dire. All’epoca rettori, preti e professori erano dei re. Se si fossero scoperti gli abusi, al massimo avrebbero preso e spostato il colpevole da un’altra parte».

Se capitasse che qualcuno dei suoi ragazzi a Capodarco le raccontasse qualcosa del genere, cosa farebbe?

«Farei in modo che queste persone venissero messe in condizioni di non nuocere, in comunità chiuse. Se si hanno queste pulsioni bisogna chiedere aiuto. Chi invece ha ruoli di responsabilità dovrebbe correggere chi cede a tali perversioni, perché non accadano e non si ripetano».

Vista la sua esperienza, cosa si aspetta da questo summit voluto dal Papa?

«Che si arrivi almeno ad avere coscienza di quanto male con gli abusi si produce. Va cambiato l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del problema. È un primo passo, poi però si deve andare avanti».

Questo articolo è stato pubblicato nell'edizione odierna del quotidiano La Stampa

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