Ormai Juan Carlos Cruz è di casa a Roma. Sembrano decenni ma in realtà sono trascorsi solo pochi mesi da quando una delle più famose vittime di Fernando Karadima, il potente sacerdote cileno abusatore seriale di giovani e seminaristi, spretato da Francesco nel novembre 2018, puntava il dito contro i Sacri Palazzi che reputava corresponsabili del dolore subito. Non solo quello per le violenze del parroco di “El Bosque” durate quasi sette anni, ma anche per il muro di silenzio e omertà innalzatogli davanti agli occhi dalle gerarchie della Chiesa cilena, che attualmente fatica a rialzarsi dagli scandali emersi nello scorso anno.

Oggi Cruz, giornalista residente negli Stati Uniti, dice di essere una persona serena. Da circa una settimana è a Roma per il summit sugli abusi voluto da Papa Francesco, ha incontrato spesso l’arcivescovo Charles Scicluna che per due volte è stato inviato dal Papa in Cile per indagare sui casi di abuso e che rappresenta il suo punto di riferimento in Vaticano, passeggia per Borgo Pio con monsignor Jordi Bertomeu, officiale della Dottrina della Fede “braccio destro” di Scicluna nelle missioni nel Paese sudamericano, saluta cordialmente i giornalisti in Sala Stampa vaticana che lo hanno conosciuto durante il viaggio papale nel gennaio 2018. 

Cruz, soprattutto, sa di avere il sostegno del Papa con il quale ha stabilito un rapporto personale dopo la famosa visita privata di aprile a Santa Marta quando, insieme alle altre vittime Hamilton e Murillo, ha sentito dalle labbra del Pontefice la parola «perdono». «Il Papa del 2019 non è il Papa del 2017», afferma. Non è cioè il Papa che lo aveva scandalizzato per aver “difeso” il vescovo di Osorno, Juan Barros, insabbiatore dei crimini del suo mentore Karadima, mettendo quasi in dubbio la veridicità delle accuse a lui rivolte. «Mi ha impressionato la sua evoluzione personale. Uno pensa che ad 82 anni una persona non possa cambiare. Ma senza dubbio il Papa guarda, il Papa ascolta, il Papa cambia opinione rispetto a quello che apprende. Questo lo apprezzo molto».

Il Papa anche ha convocato a Roma 190 vescovi e cardinali per discutere della piaga degli abusi. Cosa si aspetta da questo summit?

«Sono cautamente ottimista. Nel senso che sono certo che i vescovi stanno dibattendo, riflettendo, tuttavia sono proprio loro la preoccupazione più grande».

In che senso?

«Nel senso che il Papa chiede un cambiamento, ma poi i vescovi dicono: “sì, sì, prendiamo provvedimenti”, annuiscono con la testa e, invece, tornano a casa e non cambia nulla. Credo che si debba trovare un modo per avere una forma di controllo su quello che fanno i vescovi, cioè che applichino il diritto canonico, applichino la “tolleranza zero”, collaborino con la giustizia locale per spedire in carcere i pedofili e non coprirli. Non basta la giustizia della Chiesa, bisogna collaborare con le autorità e la polizia locale».

Quali potrebbero essere misura efficaci, secondo lei?

«Anzitutto consegnare gli abusatori alla giustizia come pure i vescovi che occultano, che spostano i preti pedofili di parrocchia in parrocchia, come è accaduto per anni in Cile. È estremamente importante perché non è più possibile che, per tutelare l’immagine dell’istituzione, si eviti che pedofili e criminali vadano in carcere. Poi credo che sia importante eliminare il segreto, che sia pontificio o come lo vogliamo chiamare. Non può esserci segreto, deve esserci trasparenza dove c’è un reato, sempre! Bisogna rispettare la vittima e proteggerla se non vuole essere pubblicizzata. Ma limitarsi a cambiare parrocchia al colpevole o mandarlo in un altro paese è un reato, come i vescovi che lo proteggono».

Lei ha partecipato all’incontro con il comitato organizzatore del summit mercoledì scorso. Ha riferito queste istanze ai rappresentanti vaticani?

«Sì, monsignor Scicluna mi aveva contattato e mi aveva chiesto di organizzare una riunione con circa 12 sopravvissuti da tutto il mondo prima dell’inizio del summit. Nel colloquio noi abbiamo chiesto loro proprio questo: “tolleranza zero”, non applicare il segreto pontificio, collaborare con la polizia. E che questi crimini siano puniti, cioè che sia punito tanto chi abusa, quanto chi copre».

In Cile cosa è cambiato dopo lo scoppio degli scandali e i provvedimenti di Papa Bergoglio?

«Quello che è successo in Cile è il modello mondiale di quello che deve accadere. Ho parlato molto con il Papa durante l’anno. Il modello cileno è stato come un effetto valanga, tanto doloroso quanto enorme. Mai era successo prima… E ora altri Paesi stanno sperimentando lo stesso: in Spagna, Costa Rica, Perù, Stati Uniti. Conosco vittime africane, asiatiche, di Paesi che non riportano di casi di abusi, seppur i vescovi ne siano a conoscenza».

Da diverse parti si avanza la teoria che la radice del problema degli abusi sia l’omosessualità nella Chiesa. Cosa ne pensa?

«Mi fanno arrabbiare i cardinali e i vescovi che usano le vittime come bandiere di lotta per strumentalizzare e tornare a prima del Concilio Vaticano II per appoggiare la battaglia sull’omofobia, come se gli omosessuali fossero il demonio. Sono ipocriti. Prendiamo ad esempio Viganò (l’ex nunzio Usa autore di un dossier in cui chiedeva le dimissioni del Papa, ndr), quando la situazione negli Stati Uniti stava esplodendo da vent’anni, per tutto il tempo non ha mai fatto nulla. Ora usano le vittime come bandiera della loro lotta conservatrice».

Ha detto di aver avuto diversi contatti con Papa Francesco nel corso dell’ultimo anno, a cominciare da quel primo incontro personale a Santa Marta dello sorso aprile. C’è una parola, un gesto, un aneddoto del Papa che l’ha colpita particolarmente?

«Papa Francesco mi ha detto sempre molte frasi di incoraggiamento. La verità è che mi sento tremendamente onorato che il Papa mi ascolti. Allo stesso tempo penso che io non posso essere l’eccezione tra le vittime che vengono ricevute, dovrebbe essere la norma. Tutte le vittime devono avere la possibilità di ricevere lo stesso trattamento, io non sono migliore di altri. Capisco che non tutti possano venire qui a incontrare il Papa, ma i vescovi, in ogni Paese, devono accogliere, rispettare le vittime e riparare il danno che è stato fatto loro. Questo è tremendamente importante».

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