«Dio donaci il coraggio di dire la verità e la sapienza per riconoscere dove abbiamo peccato e abbiamo bisogno di misericordia; riempici di pentimento sincero e donaci il perdono e la pace». C’è del dolore nella preghiera di Papa Francesco che apre la liturgia penitenziale di oggi pomeriggio nella Sala Regia del Palazzo Apostolico vaticano, un pubblico “mea culpa” del Pontefice e di tutti i 190 cardinali, vescovi, patriarchi e religiosi che partecipano al summit in Vaticano sulla piaga della pedofilia nel clero.

Dopo due giorni di relazioni, riflessioni e testimonianze, il Papa ha voluto che vi fosse una pausa spirituale nel vertice e ha organizzato questo momento di raccoglimento che raggiunge il momento più toccante con la testimonianza di un giovane sudamericano vittima di violenze. Un racconto così intimo e sincero non solo del trauma subito, ma anche delle ferite che esso ha provocato che ha fatto commuovere il Pontefice. 

«L’abuso, di qualsiasi tipo, è l’umiliazione più grande che un individuo possa subire», ha esordito il ragazzo che ha poi accompagnato con il violino alcuni momenti della celebrazione. «Ci si deve confrontare con la consapevolezza di non potersi difendere contro la forza superiore dell’aggressore. Non si può fuggire a ciò che succede, ma si deve sopportare, non importa quanto sia brutto. Quando si vive l’abuso, si vorrebbe porre fine a tutto. Ma non è possibile». 

«Si vorrebbe fuggire, così accade che non si è più se stessi - ha aggiunto il giovane sopravvissuto -. Si vorrebbe scappare cercando di scappare da se stessi. Così, nel tempo, si diventa completamente soli. Sei solo, perché ti sei ritirato da un’altra parte, e non puoi o non vuoi ritornare a te stesso. Quanto più spesso succede, tanto meno ritorni in te. Sei qualcun altro, e rimarrai sempre tale. Ciò che ti porti dentro è come un fantasma, che gli altri non sono capaci di vedere. Non ti vedranno e conosceranno mai completamente. Ciò che fa più male è la certezza che nessuno ti capirà. Essa rimane con te per il resto della tua vita».

Francesco ha ancora gli occhi lucidi quando prende la parola e invita tutti i presenti ad un esame di coscienza: «Per tre giorni - dice - ci siamo parlati e abbiamo ascoltato le voci di vittime sopravvissute a crimini che minori e giovani hanno sofferto nella nostra Chiesa. Ci siamo chiesti l’un l’altro: “come possiamo agire responsabilmente, quali passi dobbiamo ora intraprendere?”». 

Per «poter entrare nel futuro con rinnovato coraggio» bisogna porsi davanti a Dio e, come il figliol prodigo protagonista della lettura della funzione, dire: «Padre, ho peccato». La parabola del Padre misericordioso mostra che «Dio offre perdono e speranza per il futuro», commenta Bergoglio. «Il figlio che ha lasciato il Padre, d’altra parte, non riesce a rimanere a distanza, ma si sente di dover riconoscere la propria colpa, di pentirsi, di ritornare al Padre».

«Abbiamo bisogno - prosegue il Papa - di esaminare dove si rendono necessarie azioni concrete per le Chiese locali, per i membri delle Conferenze episcopali, per noi stessi. Ciò richiede di guardare sinceramente alle situazioni creatasi nei nostri Paesi e alle nostre stesse azioni». 

Per avviarsi in questo processo catartico bisogna rispondere, con onestà, ad alcuni quesiti. Li legge un lettore durante la liturgia: «Quali abusi sono stati commessi contro minori e giovani dal clero e da altri membri della Chiesa nel mio Paese? Che cosa so delle persone che nella mia diocesi sono state abusate e violate da preti, diaconi e religiosi? Come nel mio Paese la Chiesa si è comportata con quanti hanno subito violenze di potere, di coscienza e sessuali? Quali ostacoli abbiamo messo nel loro cammino? Li abbiamo ascoltati? Abbiamo cercato di aiutarli? Abbiamo cercato giustizia per loro? Sono stato all'altezza delle mie responsabilità personali?».

«Nella Chiesa del mio Paese, come ci siamo comportati con vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi accusati di violenze carnali?», sono ancora le domande che riecheggiano tra gli affreschi della Sala Regia. «Che cosa ho fatto di persona per impedire le ingiustizie e garantire la giustizia? Nei nostri Paesi, quale attenzione abbiamo prestato alle persone la cui fede è stata scossa, che hanno sofferto e sono state indirettamente ferite da questi terribili fatti?».

È arrivato il tempo di rispondere a tali domande, perché è arrivato il tempo di pentirsi, come afferma nella sua omelia l’arcivescovo Philip Naameh della diocesi ghanese di Tamale. Tutti «troppo spesso siamo stati fermi, abbiamo guardato dall’altra parte, evitato conflitti». Forse «eravamo troppo compiaciuti per confrontarci con il lato oscuro della Chiesa», sospira il vescovo, ed è per questo che è stata tradita «la fiducia che era stata riposta in noi, in particolare riguardo all’abuso nell’ambito della responsabilità della Chiesa, che è sostanzialmente la nostra responsabilità. Non è stata garantita alle persone la protezione a cui hanno diritto, abbiamo distrutto la speranza e la gente è stata brutalmente violata nel corpo e nello spirito».

Segue la confessione delle colpe, inframmezzata dai Kyrie eleison (Signore pietà): «Signore Gesù Cristo, noi confessiamo di essere peccatori», recitano il Papa e gli altri presuli. «Confessiamo che vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi nella Chiesa hanno commesso violenze nei confronti di minori e di giovani e che non siamo riusciti a proteggere coloro che avevano maggiormente bisogno della nostra cura. Confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e abbiamo ridotto al silenzio chi ha subito del male. Confessiamo che non abbiamo riconosciuto la sofferenza di molte vittime e non abbiamo offerto aiuto quand’era necessario. Confessiamo che spesso noi vescovi non siamo stati all’altezza delle nostre responsabilità». 

Da qui la supplica conclusiva «di superare l’ingiustizia e di praticare la giustizia verso le persone affidate alle nostre cure».

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