C’è una ristretta comunità di credenti nel genere umano che in queste ore segue con ansia le notizie che arrivano da Baghuz. Il tam tam passa sui social network: si può veramente sperare che Padre Paolo Dall’Oglio faccia parte del gruppo di ostaggi civili sulla cui sorte stanno trattando gli ultimi irriducibili dello Stato Islamico? Troppe volte in questi cinque anni e mezzo voci e smentite si sono rincorse accendendo e spegnendo le speranze di quella minoranza non rassegnata all’oblio. Un messaggio, una preghiera, una foto postata laicamente da chi non ha il dono della fede. Poi di nuovo giorni di silenzio, settimane, mesi. E non è che la vita del fondatore di Mar Musa sia più importante delle centinaia di migliaia di vite tritate dalla carneficina siriana in un crescendo senza fine montato dopo le prime pacifiche rivolte contro il regime dittatoriale di Damasco. È che in qualche modo la vita di abuna Paolo, nostro padre Paolo come lo chiamano i suoi, le comprende tutte, metafora della violenza fratricida ai tempi dell’indifferenza mediatica ma soprattutto grillo parlante della cattiva coscienza occidentale mascherata da rassegnazione all’ineluttabilità geopolitica.

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Padre Paolo è un personaggio scomodo e non solo per il suo carattere diretto, spigoloso, per niente compiacente. Lo è sempre stato sin da quando giovanissimo e figlio di un partigiano aveva simpatizzato per la sinistra prima di votarsi a quel messaggio ecclesiastico permeato all’epoca dai venti egualitari e rivoluzionari del sacerdozio di strada, l’ecumenismo radicale, la Teologia della Liberazione. E poi da lì lo studio del Corano, gli articoli per la rivista dei gesuiti «Popoli», il recupero dell’antico romitorio arroccato sulle montagne intorno a Damasco e la creazione della comunità interconfessionale di Mar Musa nel Paese stritolato dal pugno di ferro degli Assad. Padre Paolo con i suoi oltre trent’anni di Siria quotidiana e con le contraddizioni intrinseche di chi per costruire un mondo migliore finge d’ingnorare quello pessimo in cui è costretto a vivere sta qui a ricordare agli esperti di Medioriente a distanza che non si possono chiudere gli occhi per sempre in nome della guerra al terrorismo e sta qui a ricordare alla Chiesa di Roma, la sua chiesa, che la sicurezza della minacciata minoranza cristiana non può avallare il massacro di tutti gli altri.

«Mi chiedo come si possa considerare cristiano il tutelare i cristiani siriani al prezzo della vita di tutti gli altri». Diceva proprio così Padre Paolo Dall’Oglio sul palco del convegno romano organizzato dal centro interconfessionale per la pace Cipax il 25 ottobre del 2012, nove mesi prima di essere rapito nella Raqqa a quel punto già capitale del Califfato. Diceva anche altre cose Padre Paolo, di fronte a una platea imbandierata nei colori della pace ma bellicosissima contro quel gesuita tanto audace da mettere in discussione l’intoccabile Assad anziché additare il complotto americano, imperialista, sionista. Al pubblico che lo contestava diceva come la Siria, in quel momento non ancora caduta nel giogo islamista, morisse per mano del feroce clan alawita e diceva come i coraggiosi siriani fossero scesi in piazza a mani nude per la democrazia ritrovandosi soli sin dall’inizio, veri reietti delle primavere del 2011, perché per l’occidente sinistro e orfano della guerra fredda le rivoluzioni arabe vanno bene se abbattono “un fantoccio a stelle e strisce” come Mubarak o Ben Ali ma vanno molto meno bene se prendono di mira un anti yankee d’antan come Assad per giunta di tradizione baathista-socialista e sponsorizzato da Mosca.

Padre Paolo Dall’Oglio sintetizza la storia recente della Siria e la nostra. Nessun cedimento alla cieca logica novecentesca del chi sta con chi e chi è nemico di chi per stabilire quale parte prendere e a nome di chi. Agli spettatori che quattro anni fa al Cipax lo contestavano chiedendogli dove fosse stato fino al 2011 replicava, con toni anche molto severi, di aver creduto a lungo che la transizione in Siria richiedesse gradualità e confessava la sua delusione per aver scoperto un Assad assolutamente non all’altezza del momento storico. A chi gli sedeva accanto sul palco raccontava invece con profonda amarezza quante volte in quelle settimane fosse stato insultato dai «non violenti europei». Parole dure da ascoltare per chi non vuole ascoltare.

La Siria, diversamente dall’Egitto e dalla Tunisia, non ha scaldato i cuori sin dal principio, così come non li ha scaldati la sorte di Padre Paolo, arrivato nella terra degli Assad nel 1982, l’anno che per la sinistra occidentale è segnato da Sabra e Chatila ma non dal massacro di Hama, quando per domare la rivolta dei Fratelli Musulmani Hafez al Assad rase al suolo la Venezia del Medioriente uccidendo tra le 20 e le 40 mila persone. Non si sapeva o, peggio, non si diceva. E quando i ribelli siriani hanno avuto l’ardire di tentare la scalata al cielo sulle orme di piazza Tahrir i distinguo si sono subito moltiplicati senza pietà: loro no, i più vessati della regione, non avevano il diritto di rivoltarsi contro un tiranno che garantiva la continuità con l’eredità socialista-sovietica (specie nell’intelligence...). E Padre Paolo non aveva il diritto di difenderli dopo aver vissuto trent’anni sotto Damasco. Lui l’ha fatto e ha continuato (anche contro la Chiesa di Roma) quando l’ISIS aveva ormai scippato la rivoluzione del 2011. Non sappiamo cosa pensi ora Padre Paolo, che riflessioni abbia maturato in questi anni, come e se il suo cuore sia mutato. Chi però ne ha interiorizzato l’esperienza, le contraddizioni dell’incontro con la Storia, la forza di porre a sé stessi prima ancora che agli altri le domande più scomode, segue con ansia le notizie che arrivano da Baghuz. C’è vita in Siria.