Alla fine, alle elezioni svoltesi il 23 febbraio scorso, ha nettamente vinto il presidente uscente Buhari, staccando di oltre quattro milioni di voti - 56% contro 41% - l’ex vicepresidente Atiku Abubakar (che contesta l’esito e chiede l’annullamento). E ora, il presidente “integerrimo”, accusato però di non aver inciso sull’altissimo livello di corruzione che affligge da decenni il Paese, dovrà raddoppiare gli sforzi per raccogliere le grandi sfide che lo attendono. 

Il voto in Nigeria, uno dei Paesi più importanti e popolosi d’Africa (quasi 200 milioni di abitanti, il 20% di tutto il continente), crocevia di interessi strategici, sede di uno dei gruppi jihadisti più pericolosi e attivi al mondo – Boko Haram -, potenzialmente ricchissimo ma nella realtà afflitto da grandi problemi sociali e corruzione, raramente si svolge nella calma. Disordini e tensioni hanno causato anche questa volta morti in varie zone del Paese. Secondo Africanews, sono avvenute una quarantina di uccisioni causate da scontri di tipo esclusivamente elettorale, cui si aggiungono 130 morti nello Stato di Kaduna nei giorni precedenti, per micro-conflitti di ordine etnico-economico. L’inatteso slittamento di una settimana per ritardi tecnici, poi, annunciato a poche ore dall’apertura dei seggi inizialmente prevista il 16 febbraio, ha certamente complicato le cose e innalzato il livello di nervosismo. 

Per il presidente della commissione elettorale Mahmood Yakubu, considerato l’alto numero di votanti e di seggi (rispettivamente 73 milioni di cui il 51% sotto i 35 anni, e 120 mila), il voto si è comunque svolto «generalmente bene» e si può essere «soddisfatti per il comportamento degli elettori in tutto il Paese». A sfidarsi, ufficialmente, erano 73 candidati, ma a giocare la vera partita erano in due: il 76enne presidente uscente Muhammadu Buhari e l’uomo d'affari ed ex vicepresidente Atiku Abubakar. Il primo, musulmano del Nord, è ritenuto, a differenza di molti politici, una persona incorruttibile. Il suo ticket presidenziale è con Yemi Osinbajo, cristiano del Sud. Il secondo, di fede islamica, si è presentato con Peter Obi, di religione cristiana. Buhari, costretto spesso a lunghe terapie fuori dal Paese, dovrà ora affrontare sfide pressanti. 

Monsignor Alfred Adewale Martins, arcivescovo di Lagos, offre un primo commento sui dati. Eccellenza, la vittoria sembra chiara ma ci sono state molte contestazioni...

«Come lei sa, ci sono stati tantissimi candidati e immagino sarà difficile gestire i reclami e le obiezioni che verranno da tutti. Noi come Chiesa abbiamo subito dichiarato il nostro chiaro auspicio che ogni posizione venga espressa con calma e ponderazione e speriamo che non avvengano altri scontri. La Nigeria attende che molti problemi vengano risolti». 

La zona della sua diocesi, Lagos, è stata una delle più colpite dalla violenza, come è la situazione al momento?

«Da noi ci sono stati vari scontri, soprattutto nella zona di Okota. Poi la situazione è tornata alla calma, speriamo che tutto si plachi anche perché tra pochi giorni torneremo a votare per le elezioni locali (il 9 marzo, ndr). Lo abbiamo ripetuto in ogni occasione pubblica: la vita, dopo le elezioni, per quanto importanti siano, continua, non c’è bisogno di mettere a repentaglio la propria e l’altrui esistenza per motivi elettorali. Considerato l’elevatissimo numero di gente chiamata al voto e il clima di tensione precedente, possiamo dire che le elezioni del 23 febbraio non sono andate malissimo».

Quali sono, secondo lei, le priorità a cui il nuovo esecutivo dovrà mettere mano fin dai prossimi giorni?

«C’è una grande problema di sicurezza in Nigeria, la gente si sente minacciata, nelle proprietà così come per la propria vita e quella dei propri cari. In alcune regioni la presenza di Boko Haram è ancora un elemento di grande instabilità, poi abbiamo aree in cui i conflitti tra allevatori e coltivatori si fanno sentire. Il popolo ha bisogno di rassicurazioni, di vedere politiche di inclusione che facciano sentire a tutti un senso di appartenenza alla nazione. Poi c’è un grosso problema di disoccupazione che sta riguardando un numero sempre crescente di fasce d’età, non solo i giovani. Bisognerà inoltre occuparsi con urgenza dell’economia che sta passando un pessimo periodo, favorire gli investimenti dei privati, curare le infrastrutture. La Nigeria deve riprendersi al più presto».

Quali sono le strategie messe in campo dalla Chiesa per favorire la pace e la distensione?

«La Chiesa ha stabilito contatti saldi col governo centrale e svolge un servizio di consiglio avendo un rapporto diretto con la popolazione in tutti gli Stati. La violenza caratterizza soprattutto due regioni, la cosiddetta Cintura di Mezzo (Middle Belt) e il nord-est, possiamo dire che lì si concentrano gran parte dei problemi legati a scontri e noi lavoriamo molto per favorire il dialogo e stabilire percorsi di peace building. Moltissimi preti e un certo numero di vescovi sono impegnati in commissioni di dialogo interreligioso. Noi siamo sempre a stretto contatto con tutti gli strati della popolazione e possiamo rappresentare la voce del popolo che chiede insistentemente pace e sicurezza. A volte registriamo discriminazioni verso i cristiani nell’allocare terre o nelle opportunità di lavoro. In questi casi, da una parte cerchiamo di fare sentire la voce e garantire i diritti, dall’altra di favorire un atteggiamento assertivo e positivo tra i nostri fedeli, per non esacerbare il clima. Altre volte, i cristiani specie quelli che vivono nelle regioni più instabili, sono oggetto di violenze anche se speriamo che con nuove politiche si crei più stabilità. Il futuro, in ogni caso, si costruirà da domani se il mio Paese saprà occuparsi dei bambini. C’è ancora troppo disparità nelle offerte educative, troppi bambini hanno scarsa o povera scolarizzazione: se non ripartiamo da loro, non ci sarà futuro».    

 

I commenti dei lettori