La conversione sulla via di Pechino è davvero completa. Era solo qualche anno fa quando l’eurodeputata Tiziana Beghin, M5S, diceva: «Da anni la Cina invade il nostro mercato con prodotti a basso costo che hanno già mandato in rovina migliaia di aziende, ma adesso Pechino sta preparando l’attacco finale». Oppure il suo collega David Borrelli: «Il Paese del Dragone si è sempre affacciato al nostro mercato adottando pratiche sleali».

Tutto dimenticato. Nel frattempo Luigi Di Maio è andato in missione in Cina un paio di volte e ora la vede in maniera diametralmente diversa. Al punto che si è spinto a presiedere da vicepremier un convegno della società Huawei e recentemente li ha sdoganati sul versante G5. Il sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, esperto di cyber-sicurezza, che anche lui era stato tra gli ospiti d’onore di Huawei, volendo minimizzare l’allarme giunto dagli Usa (al contrario della Lega che chiede di attivare la procedura di «golden power»), si è spinto oltre: «I rischi di affidarsi ad aziende non alleate - ha detto Tofalo - sono gli stessi che corriamo se ci mettiamo nelle mani di quelle “amiche”».

Dopo che Di Maio ha dettato la linea, gli altri si sono adeguati. Il presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, M5S, ha appena portato una delegazione parlamentare a Pechino: «Si è parlato delle grandi opportunità economiche per entrambe le parti derivanti dal progetto Nuova Via della Seta». Vede «grandi vantaggi soprattutto per le regioni italiane più in difficoltà».

Il business tra Italia e Cina in effetti sta decollando. È di qualche giorno fa il varo di una prima nave da crociera che i cinesi hanno commissionato a Fincantieri. Altre due mega-navi saranno prossimamente costruite in joint-venture a Shangai: una commessa da 1,5 miliardi di dollari che potrebbe triplicare in breve tempo. Anche Finmeccanica sta stipulando contratti con i cinesi. «Non è tutto merito della nostra task-force, però è innegabile una certa accelerazione grazie al nostro lavoro, vanta il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci. È lui, di cui l’economista Claudio Borghi dice essere «persona competentissima sulla Cina; un onore per la Lega averlo indicato per il governo», il vero regista di questa svolta verso la Cina.

Nell’agosto scorso, Geraci ha dato vita a una task-force interministeriale con due gruppi di lavoro stabili, uno in Italia e l’altro in Cina. La task-force raccoglie segnalazioni, dei problemi come delle opportunità, che vengono comunicate sia alle aziende, sia al governo. Dice Geraci: «Dopo un inizio lento, che scontava il tradizionale scetticismo italiano verso la Cina, le cose hanno cominciato a camminare».

I singoli dossier, dall’agroalimentare al turismo, alle cooperazione industriale o infrastrutturale, restano in capo alle singole amministrazioni o società partecipate. «Ma l’operatività passa per la task-force. E quando si deve negoziare su 15 dossier alla volta, è più facile trovare le soluzioni». Il negoziato in corso, però, quello sul memorandum che il presidente Xi dovrebbe firmare tra due settimane in Italia, potrebbe essere il più complicato di tutti perché c’è la contrarietà di Washington e di Bruxelles. O no? «Quando il testo sarà noto, si vedrà che è nell’interesse italiano e alleato. Abbiamo ricevuto alcune osservazioni dagli Stati Uniti e abbiamo risposto. Il governo è unito, al di là delle ricostruzioni giornalistiche».

Chi spinge fortemente per l’adesione italiana alla Via della Seta è Massimo D’Alema, di cui si segnalano gli ottimi rapporti con Pechino. Lo stesso Geraci, però, nutre dubbi sulla Via della Seta: «Sotto il profilo economico, trasportare le merci via mare dalla Cina costa dieci volte di meno della ferrovia. Ma ora apriremo anche una Via della Seta aerea e una spaziale».

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