L’indirizzo da cui partire per il racconto di questa strana storia è il 1901 di Pennsylvania Avenue, nel cuore della Washington ministeriale. A pochi metri da qui ci sono la Casa Bianca, la sede del Fondo Monetario e le più potenti lobby d’America. In un elegante palazzo in vetro e cemento c’è la sede di rappresentanza di Intesa Sanpaolo. In quell’ufficio ormai da qualche mese giacciono su un conto governativo ben 370 milioni di euro del contribuente italiano. Si tratta di fondi che il governo avrebbe dovuto già liquidare alla Lockheed per onorare la fornitura di parti degli ultimi caccia F35 consegnati all’Italia. Nonostante alcune di quelle fatture risalgano al governo Gentiloni, non è stato versato nemmeno un euro. Nessun intoppo burocratico, nessuna sottrazione di fondi. Semplicemente la Difesa non ha mai ordinato i pagamenti. Fonti del ministero ammettono la circostanza: «Adempieremo immediatamente per quanto dovuto. Nel giro di pochi giorni il ministro Elisabetta Trenta firmerà il decreto che autorizza la spesa». Cosa è accaduto nel frattempo? Qual è l’origine dell’ennesima cattiva figura rimediata dall’Italia all’estero?

È vero - come sostengono fonti riservate interpellate dalla Stampa - che la richiesta di sospendere i pagamenti sia arrivata dal Movimento Cinque Stelle - partito di riferimento del ministro - e da Palazzo Chigi? Ed è vero che se Lockheed non avesse fatto trapelare la sua irritazione quei fondi sarebbero stati congelati fino alle elezioni europee? Chi ha avallato il mancato pagamento si è esposto all’accusa di danno erariale: su cifre del genere il fornitore potrebbe pretendere gli interessi di mora. Basti dire che in attesa del bonifico i vertici di Lockheed hanno intimato al Joint Program Officer dell’azienda di sospendere ogni rapporto con l’Italia.

La Difesa si trincera dietro ad una risposta diplomatica: «Il ritardo è stato causato da una valutazione tecnica sulla commessa, che abbiamo terminato. Ora il dossier sui nuovi aerei è a Palazzo Chigi che dovrà decidere cosa fare. Occorre aprire una discussione che dovrà inevitabilmente arrivare fino al tavolo del presidente Trump». Che il Movimento Cinque Stelle non sia un gran sostenitore del programma è noto, così come la sua travagliata storia. L’Italia ha aderito al «Joint Strike Fighter» nel 1998, quando a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi e ministro della Difesa era Beniamino Andreatta. Il programma è stato confermato da quattro governi: D’Alema nel 1998, Berlusconi nel 2002, di nuovo Prodi nel 2007 e Berlusconi nel 2009. L’impegno finanziario avrebbe dovuto aggirarsi intorno ai 15 miliardi di euro per 131 velivoli, ma l’aumento dei costi e alcuni problemi progettuali hanno via via aumentato la pressione perché il programma venisse ridimensionato.

Il primo taglio lo decise il governo Monti, che ridusse la commessa a 90 aerei. Nel 2014 la Camera votò una mozione Pd - primo firmatario Gian Piero Scanu - che prevedeva di dimezzare ancora gli ordini, ma la richiesta finì nel nulla. Il tema è delicato, e non solo per via dei rapporti con gli americani: i velivoli vengono assemblati nello stabilimento Leonardo di Cameri, in provincia di Novara. A oggi i caccia ordinati sarebbero ventisei, solo dodici dei quali consegnati. A luglio 2018 la Trenta era stata netta: «Non compreremo nessun altro caccia. Stiamo decidendo se mantenere o tagliare i contratti in essere». Gli americani al momento vogliono essere pagati per il lavoro fatto. L’annuncio della firma con la Cina sulla Via della Seta non aiuta chi sperava di rimandare i bonifici al 27 maggio.

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