L’annunciato viaggio in Marocco di Papa Francesco alla fine marzo - una visita circoscritta a Rabat dove comunque avrà parecchi incontri, da Re Mohammed VI ai migranti, dalle autorità ai sacerdoti – ha rievocato in molti la prima presenza di un Pontefice in questo Paese: quella di Giovanni Paolo II, nel 1985, ai tempi di Re Hassan II. Certo la situazione generale era diversa: c’era ancora la Guerra fredda e l’impero dei Soviet, l’insorgenza del fondamentalismo islamico con la sua critica all’Occidente non era ancora deflagrata, un nuovo protagonismo musulmano cominciava ad affermarsi in Europa senza clamori, ma, al contempo la sharia si riaffacciava in Paesi dove non si vedeva da tempo. Ed altro ancora. A Karol Wojtyla tuttavia, stava a cuore innanzitutto una cosa: che fosse garantita a tutti la libertà religiosa, che non venisse soffocato il bisogno di spiritualità, che non prevalessero sistemi ideologici e politici basati sul materialismo. Da qui le sue sollecitazioni ad una collaborazione tra cristiani e musulmani, a sensibilizzare i credenti ad un dialogo interreligioso fondato sulla fiducia e l’accettazione delle differenze, mentre nella diplomazia vaticana c’era chi lavorava con discrezione per tutelare le minoranze cristiane nei Paesi islamici.

Di fatto, come mette in risalto Andrea Riccardi nel suo saggio “Il cristianesimo al tempo di Papa Francesco” edito da Laterza, nel 1997 uno dei diplomatici più esperti della Santa Sede, il cardinale Achille Silvestrini, aveva dichiarato in un’intervista la sua soddisfazione per il «crescendo» delle relazioni tra Roma e l’islam proprio dopo il 1985. Segnalando così quale primo dei tre fatti più rilevanti nei rapporti tra la Chiesa e l’islam – almeno cronologicamente - la visita in Marocco di Wojtyla nell’85 (l’anno dopo ci sarebbe stata la preghiera interreligiosa per la pace ad Assisi, e nel 2001 il viaggio a Damasco). Detto ciò nello stadio di Casablanca, Giovanni Paolo II si trovò innanzi a ottantamila giovani musulmani, e, presente Re Hassan II, affermò parole che non è inutile richiamare oggi. Disse tra l’altro: «In un mondo che desidera l’unità e la pace e che conosce tuttavia mille tensioni e conflitti, i credenti non dovrebbero favorire l’amicizia e l’unione tra gli uomini ed i popoli che formano sulla terra una sola comunità? Sappiamo che essi hanno una stessa origine e uno stesso ultimo fine: il Dio che li ha fatti e che li attende, perché egli li riunirà. Il dialogo tra cristiani e musulmani oggi è più necessario che mai. Esso deriva dalla nostra fedeltà verso Dio e suppone che sappiamo riconoscere Dio con la fede e testimoniarlo con la parola e con l'azione in un mondo sempre più secolarizzato e, a volte, anche ateo. I giovani possono costruire un avvenire migliore se pongono anzitutto la loro fede in Dio e se si impegnano ad edificare questo nuovo mondo secondo il piano di Dio, con sapienza e fiducia. Dio è fonte di ogni gioia. Per questo dobbiamo testimoniare il nostro culto verso Dio, la nostra adorazione, la nostra preghiera di lode e di supplica. L'uomo non può vivere senza pregare, come non può vivere senza respirare…».

Fu quella, una tappa importante sulla strada del dialogo, dietro le spalle incomprensioni e polemiche sovente causa di guerra. Nemmeno immaginabili però certe realtà successive – come l’11 settembre o l’Isis – all’origine di diverse posizioni verso l’islam nella Chiesa, tra il rifiuto della «guerra santa» e la tentazione dello «sconto di civiltà». Posizioni che dovrebbero convergere verso quell’ idea di convivenza possibile che Papa Francesco continua ad indicare. 

 

In Marocco, nella primavera del 1950, sostò in incognito anche un futuro Papa, allora nunzio a Parigi. Sì, ci riferiamo ad Angelo Giuseppe Roncalli, che quell’anno fece un viaggio nell’Africa del Nord, partendo il 18 marzo 1950 da Marsiglia sulla nave “La ville d’Oran”, per presiedere ad Algeri alle feste del centenario della consacrazione dell’Algeria al Sacro Cuore e a Costantina a quelle del cinquantesimo anniversario della dedicazione della Basilica di Sant’Agostino d’Ippona. Il futuro Giovanni XXIII fu dunque ad Algeri, Tizi Ouzou, Tunisi, Ippona, Costantina, Saint Arnaud, Oran, Fez, Casablanca, Rabat. Partito da Ceuta per Siviglia, in Spagna, il 15 aprile e, trattenutosi a Granada e a Madrid, passando per Lourdes e Poitiers, rientrò a Parigi il 23 aprile. Questa peregrinazione suscitò alcuni motivi di inquietudine nella misura in cui toccò due Paesi come la Tunisia e il Marocco, protettorati fuori dal territorio sul quale si estendeva la giurisdizione della nunziatura parigina. Roncalli in ogni caso fu bene accolto ovunque, anche se attraversò il Marocco da privato cittadino per evitare incidenti diplomatici. Lasciate a Parigi le preoccupazioni per la situazione politica, eccolo aprire il suo cuore - parole sue - «alla moltitudine di Arabi e alle popolazioni innumerevoli di altre razze e lingue d’Africa» e ai «figli d’Israele», «nell’esercizio reciproco di fraternità umana» . Di queste quattro settimane - Roncalli scrive in alcune lettere ad amici e familiari, riassumendole con la frase «un vero trionfo della devozione di tanta gente al Santo Padre ed alla Chiesa». Tutto questo attraverso la sua persona che si autodefiniva «occhio, cuore, mano del Papa». Ma vediamo alcune tracce riguardo il viaggio spigolando dall’epistolario e dalle agende. 

 

«Ho il progetto di recarmi nell’Africa del Nord dalla metà di marzo alla metà di aprile, perché la mia giurisdizione ordinaria si estende fino a quelle provincie, che non videro ancora un Nunzio apostolico. Sono una continuazione della Francia dal punto di vista politico attuale e amministrativo. Sarà un forte lavoro per me, accompagnato però da indubbie consolazioni. L’Africa cristiana fu una delle conquiste più fiorenti e gloriose dell’Apostolato cattolico dei primi secoli…», così al nipote Battista Roncalli il 24 febbraio 1950. Mentre alla famiglia offre un resoconto a fine viaggio dove pure, in una lettera del 29 aprile 1950 non manca un rimando al Marocco: «…Poi dal 10 aprile sono entrato in forma privata nel Marocco che io credevo un Paese arido e bruciato; invece un vero paradiso terrestre in primavera. Là ho visitato tutte le città sacre del maomettanesimo, i luoghi dove i Mori una volta tenevano schiavi i cristiani: Fez, Marrakech, Merkez, Casa Blanca, Rabat, ecc. Poi Tangeri, Tetuan, Ceuta. Di là passaggio del mare presso Gibilterra ed attraversata della Spagna […]; e poi passata la frontiera Francese, Biarritz, Bayonne, Lourdes […], e poi Bordeaux, Poitiers, e Parigi. Pensate, 10.000 (diecimila) kilometri con Dino sempre colla mia grande macchina [...]. Pensate che sarò stato ricevuto con grande onore, addobbi, discorsi, brindisi, sentiti e fatti, in 40 fra città, borgate e parrocchie. Una festa, una gioia per salutare il Nunzio del Papa. Spesso chi faceva i complimenti era un ebreo; gli arabi, che sono la grande parte degli abitanti dell'Africa, rispettosi anch'essi, e parecchi di loro uniti alle Autorità Francesi […] Come vedete, la verità è una sola, in Europa come in Africa: ed è nel Vangelo del Signore…». 

 

Insomma, alla luce di Abramo, patriarca di tutti i credenti, il futuro Giovanni XXIII, già in quegli anni, chilometro dopo chilometro, andò incontro benedicente a cristiani, ebrei e musulmani. Benché sapesse bene che nel Codice di diritto canonico, in vigore dal 1917, per i credenti delle altre religioni la definizione restasse quella di “infideles”, benché lui stesso scrivesse: «Il viaggio in Africa del Nord mi ha richiamato più vivo il problema della conversione degli infedeli. La vita e la ragion d’essere della Chiesa, del sacerdozio, della vera e buona diplomazia è là» (così sul “Giornale dell’anima” fra il 6 e il 9 aprile 1950), Roncalli sapeva bene che, almeno dal 1938, una commissione vaticana era al lavoro su questi problemi, nella prospettiva di una maggior conoscenza e comprensione reciproca.

Non solo, in quelle terre Roncalli fu felice d’incontrare vescovi magari già conosciuti, ma mai visti nelle loro terre di missione. Entrato in Marocco a Oujda all’estremità orientale del Paese («entro amabilmente ne l’incognito vincendo ogni tentazione. Ivi pranzo e proseguimento viaggio un po´ lungo sulle montagne sino a Fez») eccolo nella «città santa del Marocco». Così sul diario dell’11 aprile dove appunta: «Conservo il mio nome ma impongo l’incognito, così dai Padri Francescani dove celebro da prete semplice come all’albergo», aggiungendo note sulla visita alla città («nei quartieri più umili e complicati della povera gente che lavora» e al centro della città santa «senza però poter entrare nelle grandi moschee del resto non comparabili alle Turche di Istanbul e di altrove»). Il 12 il viaggio prosegue: «Da Fez a Casablanca. Messa a San Francesco all’altare di San Giuseppe […]. Percorso meraviglioso di natura: i campi, olivi, fiori e fiori. Rovine molto interessanti. Roma sin là in faccia all’Atlantico. Poi visite di Moulay Idriss: il paese del fondatore del Maomettanesimo in Marocco. Nulla vidi di più caratteristico e di più chiuso, case, vie, figure, fra i musulmani di questa piccola città sul dirupo. Torniamo sulla via di Meknes, la città santa di Allah, talora capitale del Marocco. Finii alla bellissima cappella delle Francescane sul luogo degli schiavi cristiani. Alle 18.30 arrivo a Casablanca […]. Cenai e mi riposai in cella del vicario abbé Logié».

Il 13 è invece la volta del tragitto da Casablanca, via Marrakech, a Rabat dove il nunzio è fraternamente accolto dai francescani famigliari del vicario apostolico monsignor Lefèvre con il quale si intrattiene il giorno dopo, visitando la città dopo la messa, per poi partire per Tangeri. Quasi una visita pastorale. Del resto non era la sua innanzitutto una diplomazia del cuore, non era la diplomazia del pastore? Diplomazia praticata non come «culto dell’involucro», «caricatura». ma espressione di «risultati pratici nel senso della giustizia, dell’ordine e della pace». Al giornalista Italo Pietra, monsignor Léon-Etienne Duval, arcivescovo di Algeri, confidò una cosa che Roncalli aveva cercato di spiegargli. E cioè che in Vaticano non si era compreso bene lo scopo del suo viaggio. Gli aveva detto: «Si ha la tendenza a non vedere che l’aspetto diplomatico della missione di un nunzio. Per me il ruolo di un nunzio è soprattutto pastorale. Devo aiutare i vescovi; è quindi necessario che io mi informi, sul posto, dei loro problemi e del loro lavoro» (così Pietra nel suo libro mondadoriano “I grandi e i grossi”).

Come se Roncalli avesse intuito il significato di un servizio non secondario che, di lì a poco, la decolonizzazione avrebbe reso necessario in tutte le sue dimensioni. Non è tutto. Nel suo bagaglio in questo viaggio il futuro Papa si era portato le note spirituali scritte a partire dall’ordinazione episcopale. E aveva trovato il tempo per rileggerle alla luce del presente: «Io sento rossore di me stesso, delle mie insufficienze, del poco che sono in un posto così importante, dove il Santo Padre mi volle e mi tiene, per sua bontà […] E resto fedele al mio principio, che parmi abbia sempre un posto di onore nel discorso della montagna: beati i poveri, i miti, i pacifici, i misericordiosi, gli assetati di giustizia, i puri di cuore, i tribolati, i perseguitati». Senza distinzioni. Non a caso sei anni prima, predicando alla sua ultima pentecoste in Turchia il 28 maggio 1944 aveva detto «Noi amiamo distinguerci da chi non professa la nostra fede: fratelli ortodossi, protestanti, israeliti, musulmani, credenti o non credenti di altre religioni […]. Comprendo bene che diversità di razza, di lingua, di educazione, contrasti dolorosi di un passato cosparso di tristezze, ci trattengono ancora in una distanza che è scambievole, non è simpatica, spesso è sconcertante. Pare logico che ciascuno si occupi di sé, della sua tradizione familiare o nazionale, tenendosi serrato entro il cerchio limitato della propria consorteria […]. Miei cari fratelli e figliuoli: io debbo dirvi che nella luce del Vangelo e del principio cattolico, questa è una logica falsa. Gesù è venuto per abbattere queste barriere; egli è morto per proclamare la fraternità universale…». Non a caso, di lì a poco, eletto Papa avrebbe fatto togliere dal catechismo non solo l’espressione «perfidia ebraica», ma pure «perfidia maomettana».  

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