L’incontro promosso da «UniTo Spazio Pubblico 2019» in collaborazione con La Stampa su «Torino città multiculturale dopo 45 anni di immigrazione» ha permesso di osservare a tutto campo, nella Giornata Internazionale contro le discriminazioni razziali, la condizione di oltre 133.000 torinesi con cittadinanza non italiana, parte di una popolazione totale di 879.000 (le migliaia che nel tempo hanno acquisito la cittadinanza italiana sono nel tempo diventati invisibili nelle statistiche). È stato un appuntamento a tante voci, presentato dai sociologi Stefano Scamuzzi e Roberta Ricucci, che ha coinvolto l’affollata platea di studenti. E che, passati in rassegna vari temi, si è concentrato soprattutto sui giovani, le loro prospettive e i loro problemi.

Di giovani ha parlato Tommaso De Luca, preside dell’Avogadro, che ha sottolineato un fenomeno negativo in una Torino in crisi dal punto di vista demografico: «Anni fa ci preoccupavamo di fare corsi di italiano, oggi io firmo continuamente nullaosta per ragazzi di origine straniera che devono ricongiungersi con la famiglia all’estero: il padre o la madre ha trovato lavoro in Francia no Germania e si fa raggiungere».

Di giovani musulmani ha parlato Brahim Baya, portavoce dell’Associazione Islamica delle Alpi. «In città nei confronti dei musulmani ci sono segni importanti, come la presenza della sindaca al presidio per le vittime della strage islamofoba in Nuova Zelanda o dei torinesi di tante fedi all’incontro alla moschea Taiba per la stessa ragione. Abbiamo Moschee Aperte, ma la città nel suo insieme è ancora lenta nel riconoscerci». E sull’episodio del bus: «È un fatto quasi ordinario per le ragazze con il velo. Mia moglie vuole prendere la patente perché subisce continue umiliazioni sui mezzi pubblici. Questi atteggiamenti devono interrogarci su quanto siamo disposti a confrontarci con il diverso. Di positivo c’è che la gente sull’autobus ha reagito».

Tra le altre, le testimonianze di Dritan Dibra, 32 anni, avvocato, assunto in un ente pubblico, arrivato bambino dall’Albania con i genitori, clandestini, e di Joy Uzoije, 27 anni, arrivata con la madre in Italia dalla Nigeria quando aveva 9 mesi, hanno chiarito i sentimenti che si provano nella terra di mezzo di chi non ha veri diritti. Il giovane avvocato, oggi italiano, ha ricordato le tappe della sua vita in Italia, «l’importanza di essere andato a scuola anche senza i documenti» ma anche «la sensazione di scollamento, da clandestino, tra la vita che vedi e ciò che puoi fare. Lasciare le persone in quella condizione - ha detto - può favorire sentimenti negativi, di odio». Joy, laurea in Scienze internazionali, è operatrice antitratta prevalentemente con donne nigeriane. «Negli anni 90 i neri erano pochi... e io ho scoperto di esserlo veramente finiti gli studi, in cerca di lavoro qualificato. Spesso la gente mi chiede se parlo italiano, mentre le ragazze di cui mi occupo mi dicono “Tu cammini come i bianchi”. Mia madre non ha avuto la cittadinanza per reddito basso e così nemmeno io. Non voto, come cittadina non Ue un master all’estero mi costa migliaia di euro e non posso permettermelo. Non mi sento italiana né nigeriana». Anche per Joy «una condizione che provoca rabbia, astio».

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