Piazza Solferino è dominata da un monumento equestre. Ci passiamo davanti spesso, ma molti non sanno chi e soprattutto cosa rappresenta. Il militare è Ferdinando di Savoia duca d’Aosta, fratello di Vittorio Emanuele II, nonché padre della futura regina Margherita. La statua è la memoria tangibile che Torino ha dedicato a una delle pagine più dimenticate della storia risorgimentale, la battaglia di Novara.

Il 23 marzo 1849, esattamente centosettanta anni fa, sul campo della «fatal Novara» (come venne definita da Giosuè Carducci nella sua poesia «Miramar») si infrangono tutti i progetti di Carlo Alberto. Quella stessa notte, al termine di una drammatica giornata di morte e di errori strategici, ha termine la Prima guerra d’Indipendenza per i Savoia con il più nefasto degli esiti. L’abdicazione a favore del figlio Vittorio Emanuele II, che diventa ultimo re di Sardegna, suggella per sempre il ricordo negativo di una guerra iniziata un anno prima sotto i migliori auspici.

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«Fu prima di tutto la fine dei progetti dei democratici e di Vincenzo Gioberti, che volle fortemente riprendere la battaglia dopo l’armistizio di Salasco dell’agosto precedente», precisa Silvia Cavicchioli, ricercatrice di storia del Risorgimento all’Università di Torino.

Il cavallo morente del duca Ferdinando di Savoia

In piazza Solferino si percepisce ancora oggi la drammaticità di quella dolorosa giornata. Lo scultore Alfonso Balzico, che realizza la statua 17 anni più tardi (quando l’Italia è già unita) non mette al centro dell’attenzione solo l’eroismo del duca d’Aosta, che incita con la spada l’esercito contro il nemico verso l’ultimo disperato assalto, ma il cavallo. L’animale è colpito a morte dagli austriaci. Il suo muso urla sofferenza, le zampe anteriori si abbassano. L’artista lo rappresenta poco prima di accasciarsi al suolo, mentre il duca è principalmente interessato all’esito della battaglia, che assumerà contorni ben più disastrosi.

Questa è stata Novara per i torinesi e per i Savoia. E per la retorica risorgimentale.

Il cavallo «Favorito» ai Musei Reali

A quella battaglia partecipa un altro destriero. Si tratta di «Favorito», il cavallo personale di re Carlo Alberto. Da Novara lo porterà ad Oporto per l’esilio. Parteciperà, pochi mesi dopo, ai suoi funerali torinesi scortandolo fino a Superga. Poi verrà messo a riposo nelle stalle reali. Quando muore, nel 1867, verrà esposto all’Armeria Reale, dove tutt’ora può essere ammirato dai visitatori dei Musei Reali.

L’eroe valdese della battaglia

Alla battaglia di Novara partecipa un ragazzo di venticinque anni. È Michele Pellegrin, un valdese. La sua è una bella storia. Nasce ad Harleem, in Olanda, nel 1824. A 8 anni si trasferisce a Luserna San Giovanni, paese natale del padre. Perde presto entrambi i genitori ma grazie ai loro lasciti economici riuscirà a studiare prima in Svizzera e poi a Parigi, dove si laurea in ingegneria nel 1846. Tornato nelle valli valdesi viene richiamato dal sentimento risorgimentale italiano, come molti suoi coetanei. Assiste a un evento storico: il 17 febbraio 1848 Carlo Alberto concede la libertà religiosa ai valdesi. Appena un mese dopo si arruola volontario nell’esercito sardo per combattere nella Prima guerra d’Indipendenza sotto le insegne del tricolore di Carlo Alberto. Il 23 marzo 1849, sul campo di Novara, viene ferito mortalmente alla colonna vertebrale. Morirà dopo alcuni giorni di agonia, diventando ben presto un simbolo per i piemontesi. Questo piccolo eroe di Novara è seppellito oggi a Torino nel Cimitero Monumentale, settore Evangelico.

Le vie della città

Una pagina di storia così nefasta per i piemontesi non può che essere ricordata proprio dai suoi protagonisti. Ed è qui che il destino gioca curiosi scherzi. Ettore Perrone di San Martino è il generale che riporta alcuni importanti ma inutili avanzamenti sul campo di Novara. In quella battaglia, però, trova la morte. Esattamente come per il generale Giuseppe Passalacqua. Due personaggi che la retorica risorgimentale li innalzerà come martiri ed eroi.

Torino gli ha dedicato due vie. Sono parallele tra di loro, traverse di via Cernaia, proprio di fronte all’omonima Caserma dei Carabinieri, e corrono in direzione dell’ospedale Oftalmico.

La «damnatio memoriae» di Ramorino e Chrzanowski

Discorso ben diverso per Gerolamo Ramorino e Wojciech Chrzanowski. Chi sono? Difficilmente avrete sentito parlare di loro, soprattutto a Torino. Sono stati due protagonisti (in negativo) di quella drammatica giornata di centosettant’anni fa. Generali che commettono errori strategici e dunque incolpati della sconfitta. Soprattutto, porteranno la colpa di non morire durante la battaglia. Su i loro nomi è calata una «damnatio memoriae» tra le più proverbiali della storia sabauda. Ramorino verrà giustiziato per alto tradimento in piazza d’Armi a Torino poche settimane dopo. Il generale polacco Chrzanowski, invece, riesce a riparare prima in Louisiana e poi a Parigi. I loro nomi seppelliti nell’oblio.

Josef Radetzky: a Milano l’ironia beffarda della storia

In quella battaglia il generale comandante delle truppe austriache è Josef Radetzky, il feldmaresciallo che ha costretto Carlo Alberto alla resa e che ha trattato le dure condizioni dell’armistizio il giorno seguente con Vittorio Emanuele II. Il suo nome è macchiato di sangue italiano durante i due anni di conflitto. Nelle «Cinque Giornate di Milano» del marzo 1848 è proprio lui che ordina di sparare contro i milanesi. A Vienna Johann Strauss padre gli dedica subito dopo una marcia militare, diventata successivamente famosissima, proprio per sottolineare le sue vittorie durante le battaglie e per aver riconquistato Milano. Nonostante tutto, durante il concerto di Capodanno di Vienna, in Italia si battono ancora oggi le mani a ritmo per esaltarne la figura.

A Torino niente e nessuno lo ricorda. A Milano, invece, proprio in quella Milano che mise a ferro e fuoco seminando morte, uno dei caffè più alla moda, nella centrale e modaiola corso Garibaldi, è intitolato alla sua figura. L’ironia beffarda della storia.

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