Joseph Coutts, nato nel 1945, è arcivescovo di Karachi dal 2012. Membro del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, è stato presidente della Conferenza Episcopale pachistana dal 2011 al 2017. Il 28 giugno 2018 papa Francesco lo ha creato cardinale. Giunto in Italia per partecipare ad alcuni incontri promossi dalla fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre, l’arcivescovo racconta a Vatican Insider la vita della Chiesa cattolica in Pakistan, un Paese con quasi 200 milioni di abitanti il 95% dei quali di fede islamica. I cristiani (cattolici e protestanti) sono circa tre milioni. 

Come descriverebbe la comunità cattolica del Pakistan? E quali sono le principali difficoltà che deve fronteggiare?

«Quella pachistana è una Chiesa piccola ma vivace, salda nella fede, che vive sotto pressione ma non perde la speranza e offre una testimonianza limpida in un contesto difficile. Come ha ricordato papa Francesco durante il suo viaggio in Marocco, ciò che conta non è la quantità ma che il sale abbia sapore, che il lievito abbia la forza di fermentare tutta la massa. Attraverso chiese, scuole e iniziative caritative la nostra Chiesa svolge un’opera importante, riconosciuta anche da molti musulmani.

Uomo aperto e illuminato, Mohammad Ali Jinnah, fondatore del Pakistan (nato come stato destinato ai musulmani ma non come stato teocratico) ripeteva spesso che tutti i cittadini erano uguali e liberi di professare la propria fede: l’appartenenza religiosa non doveva riguardare lo stato. La Costituzione sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini ma nella vita quotidiana molti musulmani coltivano pregiudizi verso i fedeli di altre religioni, ritenendoli in qualche modo inferiori, cittadini di serie B: in un Paese nel quale il 50% della popolazione è ancora analfabeta, molte persone di fede islamica purtroppo ragionano così e i cristiani patiscono varie forme di discriminazione (ad esempio sui luoghi di lavoro). Il Pakistan, nato per essere un moderno stato democratico, gradualmente è cambiato: gruppi islamici hanno cominciato a rafforzarsi e a esercitare pressione sui vari governi per introdurre le leggi islamiche e trasformare questa terra in un Paese islamico. Nel 1986 è stata varata la legge sulla blasfemia, fonte della maggior parte dei problemi che i cristiani debbono oggi affrontare: tutti conoscono il caso di Asia Bibi, la donna cattolica ingiustamente condannata a morte per blasfemia, che grazie a Dio è stata finalmente assolta e ora è libera. Purtroppo il suo non è l’unico caso: ve ne sono molti altri che coinvolgono i cristiani ma anche gli stessi musulmani. Spesso si tratta di accuse infondate: questa legge può essere facilmente usata in modo improprio, come uno strumento di vendetta. Dal 1987 al 2017 le persone accusate sono state 1.534. Un altro grave problema che dobbiamo affrontare è quello dei rapimenti e delle conversioni forzate all’islam di ragazze cristiane e indù che sono poi obbligate a sposare i loro rapitori. Non vi sono dati ufficiali, ma si ritiene che ogni anno molte ragazze vengano strappate alle loro famiglie e obbligate a convertirsi.

In questi ultimi anni molti imam pachistani si sono recati a studiare all’estero, in Arabia Saudita, e il wahabismo si sta diffondendo; inoltre vi sono gruppi estremisti, come i talebani, che hanno costruito legami con Isis e Al Qaeda, e vorrebbero imporre un islam rigido e chiuso che il Pakistan non ha mai conosciuto. Per questi fanatici la democrazia e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo sono faccende occidentali, inaccettabili per il mondo islamico. Ciò costituisce un problema per i molti musulmani moderati e illuminati che vivono nel Paese e con i quali – tengo a precisarlo – è facile convivere. Il Pakistan, nonostante le dolorose tribolazioni patite dai cristiani e dalle altre minoranze religiose, resta comunque una democrazia. I musulmani di buona volontà, come quelli che fanno parte della HRCP (Human Rights Commission of Pakistan, Commissione Pachistana per i Diritti Umani) e di altri organismi, si fanno avanti per sostenerci nelle difficoltà e noi possiamo uscire nelle strade per protestare contro le ingiustizie e le violenze subite. L’assoluzione di Asia Bibi e il modo in cui il governo ha saputo gestire le numerose proteste seguite alla decisione della Corte Suprema sono fatti positivi. Il governo cura inoltre la sicurezza di tutti i luoghi di culto delle minoranze religiose. E, da quando sono stato nominato cardinale, mi ha assegnato una scorta per garantire anche la mia sicurezza personale».

Come si articola la presenza della Chiesa in Pakistan? Quali opere sono state avviate?

«Nel corso degli anni la Chiesa si è impegnata in campo educativo, sanitario e sociale promuovendo iniziative caritative e aprendo istituti scolastici e ospedali. Lavoriamo per il bene di tutta la popolazione anche insieme a persone di altre fedi. Siamo un piccolo gregge, ma stiamo contribuendo allo sviluppo del Paese. Ciò è possibile grazie al sostegno di moltissime persone e di alcune realtà – fra le quali la fondazione Aiuto alla Chiesa che Soffre, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e la Caritas Internationalis – che ci aiutano da anni. Siamo particolarmente impegnati in campo educativo: gestiamo numerose scuole che godono della stima e dell’apprezzamento sia dei cristiani sia di molti musulmani. La qualità della nostra offerta educativa è elevata. Il sistema scolastico pachistano prevede istituti pubblici e privati: a questi ultimi è garantita libertà: ad esempio, è possibile insegnare catechismo agli alunni cristiani. Numerosi leader pachistani hanno studiato nelle nostre scuole: penso ad esempio a Benazir Bhutto, che è stata la prima donna a divenire primo ministro, e all’attuale ambasciatore pachistano in Italia, che va molto fiero della propria esperienza in un istituto cristiano. 

Purtroppo non pochi imam invitano le famiglie a non mandare i figli nelle scuole cristiane perché, dicono, noi insegniamo i valori occidentali contrari all’islam: per queste persone Occidente e cristianesimo si equivalgono. Nelle scuole statali, gli alunni non musulmani si trovano spesso a dover subire discriminazioni. Nei libri di testo i non musulmani vengono descritti in modo negativo, un fatto, questo, che ha acceso le nostre pubbliche proteste. Noi non ci lasciamo scoraggiare e andiamo avanti con fiducia, convinti che promuovere i valori umani nelle nostre scuole sia la strada migliore per costruire un futuro di pace e di buona convivenza». 

La Chiesa pachistana ha proclamato il 2020 Anno dei Giovani: perché questa scelta?

«Perché le giovani generazioni sono il futuro della Chiesa e dobbiamo prepararle. Ho partecipato al recente Sinodo dei giovani e ho potuto constatare quali siano i loro bisogni: anzitutto quello di essere accompagnati. In Pakistan dobbiamo lavorare ancor più alacremente per accompagnare i nostri ragazzi. Di recente abbiamo costituito un Comitato per stabilire quali iniziative organizzare l’anno prossimo».  

Come giudica il Documento sulla Fratellanza umana di Abu Dhabi firmato il 3 febbraio scorso da papa Francesco e Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar? Questo testo ha già avuto qualche ripercussione in Pakistan?

«Ero presente ad Abu Dhabi invitato dal Muslim Council of Elders, l’organizzazione che ha promosso l’incontro interreligioso internazionale. Ho apprezzato la coraggiosa apertura mostrata dal grande imam di Al-Azhar e dal principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, che ha dato un buon esempio agli altri leader della regione. L’incontro, com’è noto, verteva sulla fratellanza umana: con coraggio si è voluto riflettere su questo tema e non semplicemente sul dialogo o sulla tolleranza: la fratellanza umana implica il riconoscimento dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Ritengo la Dichiarazione un documento di enorme rilevanza. La stampa pachistana ha dato grande risalto alla conferenza di Abu Dhabi ma, che io sappia, non vi sono ancora state specifiche prese di posizione sulla Dichiarazione da parte dei diversi gruppi musulmani presenti nel Paese. Di certo so che un numero consistente di cittadini musulmani ha grande rispetto per papa Francesco, così come lo aveva per Giovanni Paolo II. Spesso i miei amici di fede islamica mi chiedono di invitare il Pontefice in Pakistan».

Qual è il suo giudizio sulla Dichiarazione di Islamabad, firmata quest’anno da oltre 500 imam pachistani, nella quale, fra l’altro, si riconosce il carattere multietnico e multireligioso del Pakistan e si condannano gli omicidi compiuti «con il pretesto della religione»?

«È un testo molto significativo. Il problema è che nel mondo islamico non esiste un’autorità religiosa centrale: questa Dichiarazione esprime la posizione chiara di un numero consistente di imam, ma non può essere considerata la posizione ufficiale di tutto il mondo islamico». 

Ritiene che la Dichiarazione di Islamabad e quella sulla Fratellanza umana siano segnali incoraggianti in ordine alla convivenza tra cristiani e musulmani?

«Considero questi documenti un passo avanti estremamente importante nel cammino che si sta compiendo per costruire fratellanza, comprensione reciproca, convivenza pacifica. Mi auguro e prego che ne seguano altri di pari rilievo: ciò sosterrà anche i molti buoni musulmani che condannano gli omicidi compiuti in nome di Dio e per i quali l’islam è religione di pace». 

In questi anni alla guida della diocesi di Karachi cosa le ha dato maggiore gioia? 

«Il sostegno, l’amicizia e l’affetto sincero delle persone, sia cristiane sia musulmane. Ho potuto sperimentare questo affetto anche quando sono stato creato cardinale: per oltre un mese ho ricevuto decine di persone che desideravano rallegrarsi con me e manifestarmi la loro stima. Fra loro vi erano anche diverse autorità locali e nazionali di fede islamica che, visibilmente contente, erano molto orgogliose che io, arcivescovo pachistano, avessi ricevuto questo titolo dal Papa». 

Quale passo del Vangelo le è più caro? E per quale ragione?

«Mi è particolarmente caro il passo del Vangelo di Giovanni nel quale Gesù afferma: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Queste parole, che sono un messaggio rivolto a tutti, spiegano l’incarnazione: Gesù è venuto a donare la vita agli esseri umani; una vita piena che include la salvezza e la vita eterna».

Perché ha scelto quale motto episcopale la parola “armonia”?

«Perché sono convinto che sia possibile per gli esseri umani vivere insieme in armonia accettandosi gli uni gli altri: come le note musicali, diverse fra loro, possono unirsi e creare magnifiche composizioni, così gli esseri umani, diversi fra loro, possono costruire comunità ricche di armonia. Lavoro affinché in Pakistan il motto da me scelto divenga realtà».

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