Papa Francesco ha abolito la missione? Ha cancellato con un colpo la consegna di andare “in tutto il mondo” per annunciare il Vangelo, come Gesù risorto aveva chiesto ai suoi discepoli? Nei giorni scorsi, domande di tale tenore sono rimbalzate tra vescovi, teologi e cristiani laici in tutto il Medio Oriente. Un allarme col solito codazzo di polemiche, scatenatosi a partire dalle reti social nelle ore successive alla visita del Papa in Marocco. Un tormentone che si è sgonfiato su se stesso quando si è individuato e risolto il fattore scatenante, da cui tutto era partito: una inesattezza nella traduzione araba del discorso pronunciato in italiano dal Papa al clero, ai religiosi e alle religiose riuniti nella cattedrale di Rabat.

In quel discorso, Papa Francesco aveva ripetuto che la missione a cui sono chiamati tutti i battezzati «non è determinata particolarmente dal numero e dagli spazi che si occupano», e le sue vie «non passano attraverso il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco, ma attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri». Il Vescovo di Roma, citando Papa Ratzinger, aveva ripetuto anche che «la Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, per testimonianza». Formula da lui usata più volte nel suo magistero ordinario.

Nella versione araba del testo papale, rilanciata sui media vaticani, in alcuni casi la parola “proselitismo” è apparsa tradotta con una espressione inesatta come انشطة تبشيرية (anchita tabchirieh), formula che può essere resa in italiano come “attività missionaria”. Ne era uscita una frase in sé contraddittoria, in cui il Papa sembrava dire – in arabo – che la missione non segue le vie dell’attività missionaria.

L’errore è stato prontamente corretto nell’arco di poche ore, e l’espressione inesatta è stata sostituita con la più appropriata parola “لاقتناص” al iktinass (utilizzata in primis dall’Agenzia Fides, organo delle Pontificie Opere Missionarie). Ma nel frattempo, già erano circolati on line interventi di chi era rimasto spiazzato e chiedeva lumi – anche utilizzando toni polemici - sulle espressioni attribuite al Papa.

“felix culpa”

Passato l’allarme, l’inciampo nella traduzione inesatta si è però trasformato in una “felix culpa”: l’errore immediatamente corretto ha fornito occasione a diversi rappresentanti delle Chiese del Medio Oriente di intervenire sui media locali per fornire spiegazioni appropriate sulla differenza che corre tra la missione apostolica e le prassi del proselitismo. In particolare, intervistato dalla testata libanese Annahar, il sacerdote maronita Rouphael Zgheib, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie in Libano, ha potuto attestare che la parola “proselitismo” era stata tradotta correttamente nelle versioni arabe di precedenti interventi papali. Don Rouphael ha anche potuto soffermarsi sulla differenza tra missione e proselitismo, prendendo le mosse dalla esortazione apostolica Evangelii Gaudium. In quel testo chiave del magistero di Papa Francesco – ha spiegato il sacerdote libanese, docente presso l’Université Saint Joseph di Beirut – il Vescovo di Roma «ha mostrato che la gioia del Vangelo non va tenuta per se stessi. Essa va comunicata con gratuità, non per provare a catturare le persone, ma per condividere con loro la propria stessa letizia. Il cristiano è chiamato a parlare di Cristo, non usando sistemi per catturare le persone, ma attraverso una testimonianza che attrae».

L’opera di un Altro

Le domande e i chiarimenti suscitati intorno alla versione araba del discorso papale hanno offerto spunti utili a smarcarsi anche dalle false dialettiche di chi contrappone confessione della fede in Cristo e apertura al dialogo con i fratelli che non hanno avuto il dono di quella stessa fede.

La chiave per cogliere la missione di annuncio del vangelo nella sua natura propria, imparagonabile rispetto a tutte le forme di arruolamento proselitista, sta proprio nella distinzione segnalata da Benedetto XVI nel suo discorso ad Aparecida (13 maggio 2007) e rievocata in maniera insistente da Papa Francesco: «La Chiesa» spiegò quella volta Papa Ratzinger nel santuario brasiliano «non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, così la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, realizza ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore».

L’attrattiva di cui parlano Benedetto XVI e Papa Francesco non è un ennesimo mantra ornamentale da disseminare nei nuovi depliant sull’animazione missionaria. I due Successori di Pietro ripetono che l’unico soggetto in grado di attirare i cuori degli uomini e delle donne di ogni tempo è Cristo stesso, vivo e operante oggi, come ha ripetuto Papa Francesco nel titolo stesso della sua ultima Esortazione apostolica rivolta ai giovani. Ogni fervore missionario che non riconosce e non si fa plasmare da questo dato sorgivo rischia di diventare proselitismo, anche quando pretende di fondarsi su elaborati fondamenti teologico-dottrinali.

Anche i metodi proselitistici di ogni risma hanno sempre puntato a risultare “attraenti”, sfruttando strumenti umani – soldi, opere sociali, argomenti cultural-teologici persuasivi - per attirare alla “causa” nuovi adepti. Ma è tutt’altra cosa e di tutt’altra natura la delectatio victrix, il piacere avvincente della grazia di Cristo stesso, di cui parlava Sant’Agostino. Solo godendo di quella dilectio, operata da Cristo stesso, si può diventare – e rimanere –cristiani.

  

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