«Non sono contento. Doveva esserci più gente. Le bandiere di partito (del Pd, ndr) hanno scoraggiato la partecipazione di chi la pensa diversamente. Questa piazza doveva essere libera, tutti dovevano sentirsi a casa. Invece si e fatto un regalo ai nemici della Tav».

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Nella delusione di Mino Giachino, una delle colonne della piazza del Sì con la sua associazione Sì Tav-Sì Lavoro, è legittimo leggere un dato oggettivo - una partecipazione meno numerosa rispetto alle adunate precedenti - ma anche la presa d’atto di un’evenienza che fino all’ultimo ha provato a scongiurare: il popolo del Sì è, nei fatti, un blocco sociale ed economico (politico no, non ancora almeno) ostile all’attuale governo nel suo insieme. Al Movimento 5 Stelle - e questo era scontato fin dall’inizio - e anche alla Lega.

Matteo Salvini e i suoi pretoriani in Piemonte, che l’hanno capito per tempo, hanno disertato l’appuntamento di ieri, e così ha fatto Alberto Cirio, il candidato governatore del centrodestra. È rimasto Giachino, che dal centrodestra proviene e nel centrodestra aspira a ripresentarsi alla prossima tornata elettorale, insieme con alcuni dirigenti di Forza Italia e Fratelli d’Italia scesi in piazza per non lasciare troppo campo libero agli avversari. Eppure inevitabilmente il baricentro della piazza è scivolato verso il loro rivale, Sergio Chiamparino.

Non poteva che finire così. Il laboratorio di Torino ha costruito qualcosa di totalmente inedito: gli imprenditori che sfilano accanto ai sindacalisti, 43 associazioni di categoria che mettono da parte rivalità, interessi divergenti, personalismi e costruiscono una piattaforma comune. Migliaia di persone che scendono in piazza per tre volte in cinque mesi: prima sull’onda dello spontaneismo, poi per una prova di forza e infine perché ormai si è creato un blocco.

Il popolo del Sì - nato in reazione alla mozione No Tav votata dal Comune di Torino e rafforzatosi con le mille giravolte e ambiguità del governo sulla Torino-Lione - ora sembra pronto a un ulteriore salto di qualità: potrebbe diventare un blocco di riferimento in chiave anti Cinque Stelle, ma anche anti Lega, quando tra due anni si andrà a votare per il nuovo sindaco di Torino. L’ondata imprevista del 10 novembre era innanzitutto una reazione alla percezione del declino e dell’isolamento di Torino, rappresentata dalla mozione No Tav e dal fallimento delle corsa alle Olimpiadi. Quella del 12 gennaio ha incarnato la rivolta di un pezzo di Nord Italia contro il governo. Ieri si è per certi versi tornati indietro: in piazza non c’erano più la Lega e quel pezzo di ceto produttivo e imprenditoriale che le è storicamente affine. Sono rimasti gli altri: il grumo anti-governo ma anche anti-Appendino.

Resta da capire quale traiettoria seguirà ora il popolo del Sì e se la saldatura tra le 43 associazioni durerà nel tempo. Di sicuro non tira troppa aria di smobilitazione: «Questo è un patrimonio che va preservato», riflette Patrizia Ghiazza, una delle madamin del comitato Sì, Torino va avanti. «Dobbiamo riflettere e ragionarci. È stata un’esperienza molto faticosa, ma qui è nato qualcosa di unico che non si può disperdere. È una responsabilità che sentiamo addosso».

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