Sono i minori i più colpiti dalla povertà assoluta. Nel 2005 era povero il 3,9% dei minori di 18 anni, un decennio dopo la percentuale è triplicata, e supera il 12%. I bambini e gli adolescenti in povertà assoluta in Italia sono un milione e 200mila. Il secondo Rapporto sulla povertà educativa minorile in Italia - presentato il 10 aprile a Roma da Openpolis e dall'impresa sociale Con i Bambini - non lascia scampo: il nostro Paese ha un problema enorme. Per la prima volta l’ascensore sociale si è rotto, e i figli stanno peggio genitori.

Se nasci povero, resterai povero

A un bambino che nasce in una famiglia a basso reddito potrebbero servire cinque generazioni per raggiungere il reddito medio. È la stima di Ocse, basata sulla variazione tra i redditi dei genitori e quelli dei figli. Il dramma della povertà minorile è l’ereditarietà: se nasci povero, resti povero. Si troverà con maggiore probabilità di disoccupazione, dipenderà più della media dai programmi di assistenza.

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Le famiglie più povere sono in genere quelle con minore scolarizzazione: l’incidenza della povertà assoluta è infatti più che doppia nei nuclei familiari dove la persona di riferimento non ha il diploma. Contrastare la povertà nella fascia più giovane della popolazione significa offrire a tutti i bambini e gli adolescenti, a prescindere dal reddito dei genitori, uguali opportunità educative. Ma rispetto alla media europea l’Italia investe meno in istruzione. In rapporto al prodotto interno lordo, l’Italia spende il 3,9% del Pil in istruzione, contro una media Ue del 4,7%. Un dato inferiore rispetto ai maggiori paesi Ue come Francia (5,4%), Regno Unito (4,7%), Germania (4,2%).

«Con il secondo rapporto sulla povertà educativa minorile in Italia, abbiamo voluto focalizzare l’attenzione sulla presenza e accessibilità dei servizi per i minori nel nostro Paese - spiega Carlo Borgomeo, presidente dell’impresa sociale Con i Bambini -. Da una parte la conoscenza sempre più approfondita e puntuale del fenomeno della povertà educativa è indispensabile per orientare le attività promosse dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, dall’altra contribuisce in modo decisivo all’azione di advocacy, che resta un obiettivo centrale della nostra iniziativa. Aggredire in modo puntuale e organico il fenomeno della povertà educativa minorile, non riguarda solo la sfera dei diritti, seppur importante, ma anche il tema dello sviluppo del Paese».

L’obbiettivo (fallito) del 33% degli asili nid

Per lavorare sulla riduzione della povertà educativa è necessario investire a partire dalla prima infanzia, quando il bambino non ha ancora raggiunto i 3 anni di età. In particolare offre un servizio di asili nido diffuso sul territorio, accessibile a prescindere dal reddito della famiglia di origine. Non farlo significa accettare che un bambino nato in un contesto svantaggiato resti indietro rispetto ai coetanei, già a partire dai primi mesi di vita.

Gli obiettivi europei di Barcellona riguardano la diffusione di asili nido, servizi e scuole per l’infanzia. Questi devono essere offerti almeno al 33% dei bimbi sotto i 3 anni e al 90% dei bambini tra 3 e 5 anni. Ma in Italia contando sia strutture pubbliche che private, l’offerta copre ancora meno di un bambino su 4. Un dato medio che sul territorio è molto squilibrato. In primo luogo tra centronord e mezzogiorno. Lo si vede nelle regioni: in testa Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana, mentre in fondo alla classifica troviamo le maggiori regioni del sud. Lo stesso dato emerge anche a livello comunale. I dieci capoluoghi con meno offerta di posti in asili nido si trovano tutti nel mezzogiorno. L’altra tendenza è che i servizi tendono a concentrarsi nei centri maggiori rispetto alle aree interne. Ma anche in questo caso con una profonda disparità tra centro-nord e sud: i comuni periferici e ultraperiferici di Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto raggiungono mediamente il 20% di copertura (in linea con la media nazionale).

Se le scuole sono «irraggiungibili»

È proprio nell’Italia interna che la popolazione minorile, e soprattutto quella in età scolastica, sta calando più rapidamente. Nelle aree interne l’offerta educativa si sviluppa a una velocità diversa dal resto del Paese: scuole più piccole, sottodimensionate, meno raggiungibili e attrattive, sia per gli studenti che per i professori. La conseguenza per questi territori è spesso una mobilità degli insegnanti molto elevata, che incide sulla continuità didattica e sui livelli di apprendimento.

Da queste premesse bisogna partire per programmare l’offerta sul territorio, anche valutando la raggiungibilità delle scuole. Analizzando i dati del ministero dell’Istruzione emergono due modelli alternativi. Nelle regioni dove pochi ragazzi delle aree interne hanno la scuola nel comune, i trasporti interurbani per raggiungere la scuola sono più potenziati (ad esempio la Valle d’Aosta). Al contrario i collegamenti sono meno sviluppati nelle regioni dove la maggioranza dei ragazzi che abitano in aree interne hanno la scuola superiore nel loro comune.

A un ragazzo che abita in un’area interna quanto tempo serve per raggiungere la scuola? E quali scuole può raggiungere più facilmente? Può avere un’influenza sulla scelta del percorso scolastico successivo alla licenza media. Purtroppo è un aspetto molto difficile da valutare con i dati a disposizione, se non ricostruendo caso per caso. «Dal Rapporto emerge un quadro impietoso e disarmante dell’Italia, dove la scarsa mobilità sociale in atto in questi anni si ripercuote nella crescita dei bambini. Scuole e asili sono, devono essere, la base per ricucire il Paese - commenta Stefano Buffagni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e presidente del Comitato indirizzo strategico del Fondo -. È compito nostro, della politica, delle istituzioni mettere in campo azioni concrete per combattere qualsiasi forma di povertà, a partire dai minori. Per questo il sostegno del Governo al Fondo non poteva e non può mancare e, aggiungo, non mancherà mai».

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