Di certo non sarà come nel 2014, quando i voti del Pd al 40% portarono tanta acqua al mulino del Pse, ma anche stavolta l’apporto degli italiani potrebbe essere fondamentale per consentire all’asse con il Ppe e i liberali di strappare la maggioranza nell’europarlamento: dunque «non bisogna disperdere un voto», dice Nicola Zingaretti per sopire la fronda interna dei renziani. Che divisi in vari rivoli, si ricompattano contro l’ingresso nelle liste dei fuoriusciti dal Pd. Astenendosi senza votare contro, perché qualche segnale per loro non manca: come la scelta di inserire terzo di lista nel nord ovest - dopo Giuliano Pisapia e Irene Tinagli - il solo nome caldeggiato da Giachetti, ovvero il riformista Enrico Morando, ex viceministro all’Economia. O di riconfermare come capolista al centro Simona Bonafè, record di preferenze nel 2014.

Ma in questa Direzione tutta dedicata a scandagliare nomi passa in sordina l’annuncio del segretario di voler avviare una fase costituente del partito: avviando la riforma dello Statuto per separare i ruoli di segretario e candidato premier, «in modo da poter scegliere il migliore» quando sarà. Ovvero, se la scelta fosse oggi, Paolo Gentiloni, presidente e mentore di Zingaretti. Insomma, un modo per tenersi pronti a qualsiasi evenienza, pure il voto anticipato, dopo le europee.

Dell’era Renzi, quando il Pd candidò 5 donne capolista, resta la Bonafè, appunto, Pina Picierno al secondo posto nel meridione e Alessandra Moretti, undicesima nel nord est nella lista guidata da Carlo Calenda. Ma a fare scalpore è l’ingresso di due candidati vicini a D’Alema e Bersani, l’europarlamentare uscente Massimo Paolucci, (tredicesimo nella lista Meridione capeggiata dall’ex procuratore antimafia Franco Roberti amato a sinistra) e la ex capogruppo di Leu al Senato, Cecilia Guerra.

Una sorta di «patto di desistenza» quello siglato da Roberto Speranza e compagni, che non si presenteranno alle europee per non cadere sotto la soglia del 4% che pende come una mannaia. Ed è per via del nome ingombrante della Guerra che il Pd si spacca in Direzione, dove i renziani del gruppo di Lotti-Guerini e di Giachetti non votano le liste. Ispirate allo slogan «da Macron a Tsipras» tanto che c’è anche una esponente di En Marche, Caterina Avanza. Ma è la scelta di una candidata «scissionista» a determinare l’astensione renziana. Definita «astensione responsabile» poiché «non è in discussione l’apertura a sinistra, ma la modalità con cui viene realizzata». Insomma, beghe a parte, basterebbero i nomi di Calenda e Pisapia per dare il segno di quanto il Pd zingarettiano voglia tenere il campo più largo possibile, evitando troppa concorrenza a sinistra. E provando a dare il segno di un’alternativa possibile al governo gialloverde.

A mettere insieme queste liste di 39 donne e 37 uomini, è servita la sapienza diplomatica dell’ex viceministro agli Esteri, Enzo Amendola, riuscito nell’impresa di non scontentare le aree del partito e le varie correnti che sostengono il segretario: a dimostrazione della volontà di Zingaretti di ingaggiare tutte le truppe per il risultato agognato. In primis, superare il 20% (l’ultimo sondaggio di Emg dà il Pd al 21,5%) e magari di sorpassare M5S.

E come sempre, accanto a nomi che segnano una forte apertura a sinistra come il vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio, non mancano nomi della società civile, un terzo del totale: il fisico Roberto Battiston, ex presidente dell’agenzia spaziale italiana; il capo della Commissione europea a Roma Beatrice Covassi; Eric Veron, fondatore di Vailog, società di costruzione di capannoni industriali; Ivan Stomeo, presidente dell’Associazione Nazionale Borghi Autentici d’Italia.

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