È giornata di lutto nazionale nello Sri Lanka. Mentre la polizia interroga 40 persone sospettate di complicità e un’agenzia stampa dirama la rivendicazione dell’Isis, centinaia di fedeli vestiti di bianco, come vuole la tradizione locale, riempiono la chiesa di San Sebastiano nella città di Negombo, a nord della capitale dello Sri Lanka. La lunga processione fa tappa in un’abitazione poco distante, la casa di una delle vittime, e raggiunge le macerie del luogo sacro, tra strettissimi controlli di sicurezza attorno a uno dei bersagli della strage di Pasqua. Ci sono tre diversi check point per perquisire i fedeli e cani poliziotto che annusano possibili tracce d’esplosivo.

Sotto a un largo tendone bianco, i sacerdoti benedicono le bare portate a spalla da amici e parenti. Padre Ivan, un prete anziano che gestisce una scuola cattolica a Colombo, dice che è dal 1984, dagli anni della sanguinosa guerra civile durata decenni, che non vedeva un funerale di massa come questo a San Sebastiano, dove domenica scorsa sono state uccise più di 100 persone, delle 321 che, ad oggi, fanno il totale delle vittime della strage.

Le bombe sono arrivate a Negombo, una delle poche zone dove la piccola minoranza cristiana (7 per cento della popolazione) è invece maggioranza. Quindi qui tutti hanno almeno un amico o un conoscente che è stato ucciso a Pasqua.

La chiesa è ancora coperta di polvere e detriti, uno scenario devastato e devastante, tra vetri frantumati e banconi insanguinati affastellati accanto a cumuli di scarpe e vestiti strappati.

Ma dopo la benedizione di 16 bare, succede qualcosa. Tutto si ferma. I funerali vengono sospesi. Non ci sono immediate spiegazioni ufficiali. Ma poi si viene a sapere che il vescovo Maxwell Silva sente che la comunità è in pericolo. Dice che gli attacchi hanno cambiato l’intera dinamica della comunità cristiana dello Sri Lanka e che ora «dobbiamo prendere precauzioni». Il vescovo spiega che le nuove misure di sicurezza significano che «dobbiamo sviluppare il nostro sistema di controlli, come ad esempio chiedere ai fedeli di evitare di portare borse in chiesa». Padre Cirillo Gamini Fernando spiega la logica della sospensione della cerimonia: «La polizia ci ha detto di evitare grandi assembramenti. E ciò significa che la minaccia è ancora forte. E io mi sento un bersaglio». Così mentre la folla abbandona la chiesa, tornano gli esperti della scientifica con tute, guanti e mascherine, a esaminare le zone proibite al pubblico, a cercare altre prove.

Gli alti prelati della Chiesa cattolica dello Sri Lanka, compreso il vescovo di Colombo Malcolm Ranjith, si sono uniti alla critiche di alcuni parlamentari nei confronti del governo, cui era stata segnalata la possibilità di attacchi più di 10 giorni fa.

Dopo il coprifuoco e il black-out dei social media, ora la polizia dirama l’allerta autobomba in tutto il Paese e il Ministro della Difesa Ruwan Wijewardana annuncia che il movente della strage, messa in atto con la complicità di estremisti locali, è la vendetta degli estremisti islamici internazionali per l’attacco a due moschee, il mese scorso, a Christchurch in Nuova Zelanda.

La rivendicazione ufficiale dell’Isis, diramata senza prove di sostegno dall’agenzia Amaq dice così: «Gli attentatori che hanno colpito i cittadini degli stati membri della coalizione anti-Isis e i cristiani dello Sri Lanka, l’altro ieri, sono combattenti dello stato islamico». L’agenzia ha pubblicato rivendicazioni false in passato, ma, in questo, caso l’identikit della strage sembra davvero combaciare con il modus operandi dell’Isis.

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