È stata una violenza cieca e insensata. Tra i cristiani srilankesi stentano ancora a comprendere le ragioni di un simile attacco plurimo (tre chiese e tre alberghi colpiti da kamikaze, poi altri ordigni) che ha funestato la Domenica di Pasqua. Ma a quella domanda che ricorre nei lamenti delle madri (45 bambini uccisi) e dei parenti delle oltre 359 vittime (mentre il bilancio dei morti continua a salire) non c’è risposta. Quel pesantissimo «perché, Signore?» resta strozzato in gola e non trova una risposta se non nel misterium iniquitatis, che attraversa la vita dell’umanità in questo mondo.

I cristiani dello Sri Lanka (il 7,6% della popolazione, perlopiù cattolici) cercano oggi, a tre giorni dalla peggiore strage terrorista nella loro storia (e pensare che anche durante la guerra civile le tigri tamil usarono i kamikaze come arma di guerra politica), di rialzarsi e di non cedere all’odio o alla disperazione. Su questo tasto ha battuto il cardinale Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo cattolico di Colombo, che nelle celebrazione funebre che a Negombo, nel Nord della capitale Colombo, ha salutato per l’ultima volta le vittime della strage nella chiesa di san Sebastiano.

«I cristiani sono sempre e comunque il popolo della Risurrezione, e anche quando la Passione e la croce si fanno più pesanti», vanno dicendo parroci, sacerdoti, leader laici, per confortare i fedeli scioccati e piegati dalla sofferenza. La chiave per superare un colpo mortale come quello inflitto al cuore della comunità sta proprio qui: accanto alle legittime esigenze della giustizia umana, che farà il suo corso, i fedeli ritornano alla fede in Dio, sorgente di ogni grazia e di ogni bene e rilanciano il dialogo interreligioso, in un contesto di per sé pluralista, come quello dell’ex Ceylon.

I cristiani, presenti nel Paese fin dal 1500 quando il seme del Vangelo venne piantato dai colonizzatori portoghesi, soprattutto riscoprono e confermano il loro ruolo di cerniera e di ponte tra le diverse comunità di fede, per evitare i rischi di polarizzazione religiosa nella società, dove alla maggioranza buddista (il 70%) si affiancano corpose minoranze come gli indù (il 12%), i musulmani (il 10% circa).

Il rapporto tra religione e potere è stato problematico già in passato e il nazionalismo religioso ha marcato la storia antica e recente: basti ricordare che quando l’isola di Ceylon divenne indipendente dall’Impero britannico (nel 1948) il governo di Solomon Bandaranaike inaugurò una politica di stampo nazionalista e nel 1956 impose il singalese come lingua ufficiale e il buddismo religione di stato. Alle prime aperture verso la minoranza tamil, poi, Bandaranaike venne ucciso da un monaco buddista (nel 1959) e sua moglie Srimavo ne prese il posto, diventando la prima donna primo ministro del mondo. Negli anni ’70 le tensioni etniche esplosero in tutto il loro fragore e nel 1972 il governo di Ceylon cambiò nome al Paese e diventa Sri Lanka, promuovendo una serie di provvedimenti legislativi rigidamente nazionalisti che fecero sentire la minoranza tamil esclusa dalla nazione: erano i semi della guerra civile che insanguinerà il Paese fino al 2009.

Conclusa quella dolorosa e lunga pagina di storia, con la sconfitta definitiva delle tigri tamil nel 2009, un altro fenomeno preoccupante ha fatto capolino nella società. Quello di militanti nazionalisti buddisti che hanno scalato le vette della politica e che hanno individuato come bersaglio preferito le minoranze musulmane, considerando l’islam (e a volte anche il cristianesimo) una religione estranea e nociva alla nazione. Da qui, movimenti che hanno fatto della violenza e dell’intolleranza il loro linguaggio, come il “Bodu Bala Sena” (nota anche come Forza del potere buddista), sono giunti perfino ad incendiare moschee e distruggere case e proprietà di cittadini di fede musulmana, tanto che nel 2018 il governo dichiarò il coprifuoco, per sedare la violenza. E nel 2015 rifiutarono per fino la visita di Papa Francesco, che giunse in Sri Lanka, primo viaggio asiatico del suo pontificato, di «chiedere perdono per le atrocità commesse dalle potenze coloniali».

In un quadro composito ed eterogeneo, non nuovo a spinte di violenza intercomunitaria, non è stato difficile per i militanti dello Stato Islamico, che da diversi anni hanno rivolto l’attenzione alle comunità islamiche asiatiche, quelle «a Oriente del Califfo», sfruttare il malcontento dei musulmani locali per instillare la propaganda di odio e indurre atti di violenza tanto barbara e disumana.

Proprio perché la propaganda dell’odio religioso precede, alimenta e spiega gli attacchi sui cristiani srilankesi – la comunità storicamente meno coinvolta in episodi di violenza – è lì che si deve agire per disinnescare la radice dell’intolleranza e promuovere la pacifica convivenza e il pluralismo che considera l’altro, anche di diversa fede, non un nemico da combattere ma un fratello da accogliere. Non per nulla la parola che Papa Francesco lasciò in eredità ai battezzati sull’isola, quattro anni fa, fu «riconciliazione». La strada per i cattolici n Sri Lanka è tracciata.

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