Non fu un leghista, o un ex missino, ma Luciano Violante, già parlamentare torinese del Pci, eletto nel 1996 presidente della Camera, a invitare gli antifascisti a non utilizzare il 25 aprile come una ricorrenza contro gli avversari politici. Disse Violante: “Senza indulgere a un revisionismo falsificante, bisogna cercare di conoscere le ragioni, per le quali molte migliaia di ragazzi, e soprattutto di ragazze, quando ormai tutto era perduto, passarono alla Repubblica di Salò piuttosto che dalla parte della libertà e della democrazia. Del resto, nella storia d’Italia, più volte frammenti delle giovani generazioni hanno scelto la strada della violenza”.

E, qualche anno dopo, fu un giornalista e storico di sinistra, Giampaolo Pansa, a distinguere tra i settori, minoritari, della Resistenza al fascismo e lo schieramento maggioritario, formato da comunisti, socialisti, radicali azionisti. Pansa vergò pagine drammatiche per narrare le esecuzioni di migliaia di fascisti e di presunti “traditori”. Dunque, sì al ricordo della Liberazione del Paese dai nazifascisti come una pagina di dignità e fierezza. No al 25 aprile, che torni a dividere gli italiani e venga utilizzato come una clava per colpire gli avversari politici: ieri Berlusconi, oggi Salvini.
Pietro Mancini

Le sue premesse sono tutte argomentate, ma la frase finale apre un interrogativo serio: sono stati gli avversari politici che hanno utilizzato il 25 aprile per colpire Salvini, o è il ministro dell’Interno che ha dissotterrato una clava oramai in disuso? La festa del 25 aprile - istituita nel 1949, quando al governo c’era un anticomunista come Alcide De Gasperi, talora cavalcata dal Pci per legittimarsi e ogni tanto politicizzata dall’Anpi – vive un potente disgelo negli anni Novanta. Nelle tesi del congresso di scioglimento dell’Msi è scritto: «L’antifascismo è stato il momento essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva abolito». L’ex comunista Luciano Violante va incontro alle “ragioni” dei “ragazzi di Salò”. E così, anche sulla scorta degli studi dello storico Renzo De Felice, di fatto si arriva a un minimo comun denominatore concettuale: il fascismo conquistò il potere con la violenza squadrista, fu uno Stato totalitario, avviò una legislazione sociale ma conobbe pagine atroci come leggi razziali, guerra e Salò, anche se in tanti, giovani e anziani, avevano coltivato l’idealità primigenia dei Fasci di combattimento, che via via andò perduta. Da una ventina di anni si era stabilita una coesistenza pacifica tra opposti, ma la tregua l’hanno rotta Giorgia Meloni e Matteo Salvini, aprendo un fronte polemico contro un nemico – il comunismo italiano – che è stato potente e influente, ma di fatto non esiste più. Né in Parlamento, né nel Paese.

Fabio Martini, inviato de “La Stampa”, segue la politica italiana. Ha scritto per le riviste del Mulino saggi sulla natura “tifosa” dei giornalisti italiani. Autore, tra gli altri, di “L’opposizione al governo Berlusconi” (Laterza) e “La fabbrica delle verità” (Marsilio). Insegna Giornalismo politico a Tor Vergata.

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