In una parete della stanza per i giochi, tra palloni e tappetini colorati, è appesa una grande cartina dell’Europa. Ricorda ai bambini che stanno scorrazzando il luogo in cui sono arrivati. Dopo sofferenze e odissee. In un Paese, la Bulgaria, in cui coesistono un muro al confine con la Turchia e un campo profughi che diventa modello contro l’odio e le «porte chiuse» a chi fugge da guerre e povertà. Qui, nel centro «Vrazhdebna», ieri è venuto in visita papa Francesco, che ha sentenziato: «Oggi il mondo dei migranti e dei rifugiati è una croce dell’umanità», dopo avere lanciato il giorno prima un appello alle autorità: «A voi, che conoscete il dramma dell’emigrazione, mi permetto di suggerire di aprire gli occhi, la mano e le porte».

Varchiamo la cancellata grigia e un po’ arrugginita, tutt’altro che invalicabile, ed entriamo in questa ex scuola in mezzo alla campagna attorno a Sofia. C’è un grande cortile, con uno spazio per giocare a calcio, uno con un po’ di scivoli, uno con il ping-pong. Campeggiano tre bandiere: europea, bulgara e dell’ente statale locale per i rifugiati.

Questa struttura «ha una capacità di 370 posti ma oggi ospita 60 persone, di cui 38 bambini», spiega il direttore Plamen Penov. 25 famiglie di immigrati «perlopiù arrivati da Siria e Iraq». Ma anche dall’Algeria, come Dalila (nome di fantasia), 12 anni. Ha gli occhi che sorridono, pieni di energia. Non perde l’allegria e la curiosità di incontrarci neanche quando le chiediamo, tramite l’interprete, perché è qui da tre anni: «Non lo so», alza le spalle, come se avesse risposto a una domanda qualsiasi. Sa «solo» che ha dovuto affrontare un viaggio tremendo, ed è giunta qui «a piedi dalla Turchia», superando quel filo spinato apparentemente insuperabile. Dalila si gira verso la mamma, che invece non riesce a parlare: il suo sguardo si fa terreo, l’interprete ci spiega che ricordare ciò che le è successo è ogni volta un trauma psicologico insopportabile.

Anche Dalila è tra i bambini che qualche ora prima hanno cantato per il Pontefice. Si trovano ancora i foglietti delle canzoni-filastrocca, una dice così: «Cicogna colorata, perché non resti qui, come noi facciamo a casa?». A casa loro non hanno potuto restare, né Dalila né gli altri piccoli che ci raggiungono e iniziano a eseguire il loro «incarico» di bambini: giocare. Tranne una, Sara, avrà 6 anni: cerca protezione aggrappandosi a un braccio di Dalila. E smentisce l’aria di timidezza: tra la sua lingua madre e il bulgaro, sfoggia un bel «ciao!». Poi anche lei si unisce agli amichetti, in questa sala con palchetto in legno, dignitosa, addolcita da tanti disegni, simili a quelli che hanno regalato al Papa. Sono tutti molto curati e colorati, con il sole, il mare, le spiagge e gli alberi. Gridano il bisogno di serenità. Di una vita migliore.

Come quella che sogna la donna afghana che è qui da cinque anni, sola: la sua famiglia è negli Stati Uniti. O un’irachena con sette figli e il marito ammalato. Ecco, i mariti. Mentre i bambini giocano, le mamme hanno il viso angosciato ma forte, gli uomini sono quelli più impenetrabili, nella durezza dei loro volti, nel distacco che tengono da noi. Nella disperazione, come quella del 42enne Taha Saber Ismael, padre di sei figli, curdo iracheno di Mosul, che ha preparato una lettera in inglese per Bergoglio chiedendo aiuto per la sua famiglia, qui da tre anni.

I responsabili e i volontari fanno il possibile perché chi arriva qui si senta comunque a proprio agio. E soprattutto non senta la mancanza di un futuro. La via è una sola: l’integrazione. Il Centro è animato da un progetto della Caritas, intitolato «Giochiamo e impariamo». I bambini frequentano le scuole della città. Sanno il bulgaro perfettamente, «lo imparano in sei mesi», ci assicura una volontaria. E i profughi, prevalentemente musulmani, «possono andare a pregare nella moschea di Sofia». Anche tra gli operatori Caritas ci sono immigrati. Musulmani. Come Silsila. Viene dall’Afghanistan. Racconta ciò che fanno: «Li aiutiamo a capire il nostro ambiente culturale, facciamo delle gite, organizziamo lezioni di bulgaro e inglese». Anche sport e danza. E allestiscono «degli atelier art». Papa Francesco è venuto qui in piena campagna elettorale europea, nell’est segnato dai molti muri. E qui ha sottolineato il dramma di questa «gente che soffre». Però, tra sedie e tavoli del refettorio di questo campo profughi, ha anche esclamato: «C’è speranza».

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