Juan Guaidò ha ordinato al suo ambasciatore negli Stati Uniti, Carlos Vecchio, di riunirsi con il Comando meridionale americano per discutere un intervento militare. Mercoledì, invece, i suoi rappresentanti hanno visto l’ambasciatore russo a Caracas, per favorire un accordo tra Washington e Mosca, che porti il Venezuela alle elezioni per una transizione pacifica. Sono i due fronti su cui si gioca adesso il futuro del Paese.

Ieri il presidente incaricato ha convocato una nuova giornata di proteste. Durante il suo comizio in piazza Alfredo Sadel, ha fatto questo annuncio: «Abbiamo istruito il nostro ambasciatore, Carlos Vecchio, affinché si riunisca immediatamente con il Comando meridionale Usa, al fine di stabilire una relazione diretta in materia di cooperazione». Lo United States Southern Command, basato in Florida e guidato dall’ammiraglio Craig Faller, gestirebbe un eventuale intervento in Venezuela. Quindi Guaidó ha aggiunto: «Non abbiamo paura di dire che abbiamo parlato con le Forze armate e con tutti coloro disposti a collaborare per mettere fine all’usurpazione, formare il governo di transizione e tenere elezioni libere. C’è una chiara spaccatura nelle Forze armate, e sono sempre più quelli che si pronunceranno».

Quindi il presidente dell’Assemblea Nazionale non ha ancora invocato l’articolo 187 della Costituzione, che gli consentirebbe di chiedere un intervento militare esterno per riportare la normalità nel Paese, ma sta ponendo le basi per farlo, definendo i potenziali piani con il Pentagono e con gli alleati regionali, come Colombia e Brasile. Ciò può servire per rimuovere davvero Maduro con la forza, magari attraverso una operazione chirurgica come quella condotta dai Navy Seal contro Osama bin Laden, oppure per mettere sotto pressione i militari venezuelani, e sollecitare la comunità internazionale a spingere per una soluzione pacifica ma rapida.

Mercoledì, a questo scopo, i collaboratori di Maduro hanno incontrato l’ambasciatore russo a Caracas, per preparare il terreno a un accordo con gli Usa. Guaidó, anche durante l’intervista rilasciata a La Stampa proprio mercoledì, ha garantito che Mosca continuerebbe ad avere un ruolo in Venezuela con il nuovo governo, e si è impegnato a rispettare tutti i contratti già in vigore. Queste assicurazioni sono servite a preparare il terreno per la missione che il segretario di Stato americano Pompeo ha in programma a partire da oggi, prima nella capitale e poi a Sochi, dove incontrerà il presidente Putin. Lo scopo è trovare un’intesa, in base alla quale il Cremlino dovrebbe favorire la transizione, in cambio di certezze sul suo ruolo futuro nel Paese sudamericano. È probabile che per dare via libera, Vladimir chieda anche un allentamento della pressione in Ucraina, e magari un riconoscimento della situazione di fatto creata dalla vittoria militare di Assad in Siria.

La minaccia dell’intervento può essere usata per sbloccare le trattative, o per condurla davvero, nel caso fallissero, anche se Trump secondo il Washington Post non sarebbe favorevole a seguire il consigliere Bolton verso l’attacco. Questa escalation complica la posizione dell’Italia. La lettera pubblicata dal premier Conte su La Stampa in risposta alla nostra intervista con Guaidó è stata accolta con soddisfazione dal presidente incaricato, e il suo portavoce l’ha pubblicata sul gruppo WhatsApp seguito da tutti i giornalisti per darle rilevanza internazionale. Il problema però è questo: se Roma non riconosce come legittima la rielezione di Maduro, ma riconosce l’Assemblea guidata da Guaidó, come può restare equidistante mentre il regime arresta i parlamentari? I tempi per un pronunciamento stringono, anche alla luce della possibile escalation verso l’intervento.

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