Monsignor Bruno Forte, perché questo libro su Gerusalemme, cosa apporta di nuovo?

«Questo libro è un atto di amore alla Città santa per eccellenza, al popolo che la abita, al Signore Gesù, che lì è morto crocifisso e da lì risorto è asceso al cielo, allo Spirito che lì è disceso a Pentecoste e alla Chiesa che, inondata dalla Sua luce, da lì è partita per portare al mondo intero la buona novella. Gerusalemme è bella e regale, tutta d’oro (Yerushalayimshelzahav), sempre nuova col suo cielo terso e purissimo e la sua luce dorata, crocevia di passioni, destini, speranze… Perciò è sempre importante parlare di Gerusalemme…».

Quale immagine di Dio si può scoprire frequentando Gerusalemme oggigiorno e perché permette questa grande diversità religiosa, secondo Lei? 

«Luogo unico al mondo, perché in nessun altro posto dolore e amore, sofferenza e attesa, si mescolano come qui, nella città dei patriarchi e dei profeti, del Calvario e dell’Anàstasis, della croce e della resurrezione, “ombelico del mondo”, Gerusalemme riflette il mistero di Dio eterno amore, che porta in sé da sempre il dolore dell’uomo e nel Figlio venuto fra noi lo redime. Un detto rabbinico afferma: “Quando Dio creò il mondo, di dieci misure di bellezza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo. Di dieci misure di sapienza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo. Di dieci misure di dolore, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo”. Incrocio di destini, crocevia di lingue, di fedi e di culture, Gerusalemme è, perciò, la cifra del mondo, il luogo in cui tutti siamo nati e dove tutti rinasceremo: “Si dirà di Sion: L’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda… E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti” (Salmo 87, 5-7)».

 

Come giudica lo straordinario fenomeno dei pellegrinaggi a Gerusalemme, dove da due o tre anni tutti gli hotel sono pieni? Si tratta dell'espressione di una sete spirituale in un mondo laicizzato al massimo, di un’esigenza di ritrovare Cristo, la fonte, al di là dei dogmi ecclesiastici?

«Tutti portiamo in cuore la nostalgia del Totalmente Altro, di una Bellezza che salvi il dolore del mondo. E la città futura a cui aneliamo non potrà brillare d’altra luce che di quella di Gerusalemme, come fa capire l’Apocalisse: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova… e la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse, 21,1-2). Questa futura città della pace non sarà frutto delle nostre mani: verrà dall’alto, come dono da invocare e a cui aprirsi. Edè a Gerusalemme, per la sua storia e il suo destino millenario, che si leva al cielo la preghiera più efficace per la pace, appello al cuore divino e alla coscienza di tutti, nessuno escluso. Chi va a Gerusalemme ci deve andare come pellegrino di obbedienza a Dio e di accoglienza per tutti, perché il Dio dell’Alleanza ha sempre chiesto a Israele di rispettare lo straniero che vivesse nel suo seno».

Politicamente la situazione è complessa a Gerusalemme, Lei condivide l’opinione del cardinale Martini che affermava che la pace nel mondo verrà conquistata soltanto quando la pace regnerà in Terra Santa?

«Certamente. Realizzando però tre condizioni: l’umiltà di non voler essere soli a costruire la pace, di aver anzi bisogno assoluto dell’altro, fosse pure avversario o nemico; il perdono da chiedere e offrire da parte di tutti, nessuno escluso, perché tutti siamo colpevoli del conflitto, dovunque esso regni, e tutti responsabili verso la pace, dovunque si voglia tesserne il patto; una fede autentica, che lungi dall’essere strumento alienante o fonte di scontro, si riconosca chiamata ad essere fonte ispiratrice della pace che l’unico Dio vuole per tutti i suoi figli. Il dialogo portato avanti con umiltà, la disponibilità a chiedere e offrire riconciliazione, la preghiera all’Eterno, Re della pace, e il quotidiano impegno a tessere dovunque legami di accoglienza, di rispetto e di fraternità, sono i passi da compiere per essere costruttori di pace».

Cosa pensa di coloro che consigliano al popolo palestinese l’autonomia e non l’indipendenza, sul modello della regione autonoma italiana Trentino-Alto Adige? Lei ritiene che la soluzione di due Stati particolarmente sostenuta dalla Santa Sede sia ancora possibile? 

«Sappiamo bene che il popolo palestinese sperimenta una grande prova. A volte il dolore deriva dal pensare che un popolo come quello ebraico, che ha conosciuto tanta sofferenza, oggi in parte la infligge a un altro popolo come quello palestinese, che vive a Gaza e nei territori come in una prigione a cielo aperto. Siamo di fronte a qualcosa che va al di là del semplice conflitto tra due nazioni, che prima o poi possono mettersi d’accordo: si tratta di una storia di millenni di dolore, che spinge gli ebrei alla difesa di sé; si tratta nel caso dei palestinesi di un popolo che si sente usurpato della terra dei suoi padri, perché per secoli sono stati i popoli arabi, cristiani e musulmani, ad abitarla, gli stessi che oggi si sentono in una condizione di inferiorità. Ecco perché il conflitto potrà solo essere aiutato da figure profetiche, da uomini di pace, dall’una e dall’altra parte, che considerino l’obbedienza a Dio e la pace più importanti dei calcoli umani di successo, ma dovranno comunque fare i conti con il realismo tragico di una carica immane di paura e di odio che rimonta a secoli di storia. La soluzione da anni proposta dalla Santa Sede dei due Stati e di Gerusalemme capitale di entrambi con uno statuto speciale mi pare una via possibile a cui un dialogo di pace sincero potrà portare per avere risultati duraturi».

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