Nell’attesa di una “photo week” da aggiungere all’elenco delle settimane a tema (moda, design, musica…) che scandiscono il calendario culturale milanese – l’auspicio è condiviso da molti, e l’impressione è che potrebbe davvero diventare realtà –, gli appassionati della cosiddetta “ottava arte” possono deliziarsi in questi giorni con un paio di concomitanti appuntamenti di rilievo.

Negli spazi del Superstudio Maxi di via Moncucco 35 si sta tenendo – fino a domenica 26 – la dodicesima edizione di MIA – Milan Image Art Fair, fiera ormai “storica” interamente dedicata all’immagine fotografica: un centinaio i poli espositivi, tra gallerie (80, il 30 per cento delle quali provenienti dall’estero), editori di settore e progetti speciali. Dal punto di vista organizzativo, si tratta dell’edizione che segue l’acquisizione della rassegna da parte del gruppo Fiere di Parma, ambito nel quale MIA ha mosso i primi passi come evento collaterale di Mercanteinfiera, la kermesse dedicata ad antiquariato, modernariato e collezionismo.

(foto: Giulia Selvaggia Virgara)

 

Si tratta, anche, dell’edizione che segna il tramonto – diciamo così – della direzione di Fabio Castelli, il padre/fondatore dell’evento: al suo posto, dal prossimo anno, Francesca Malgara, già elemento di spicco dello staff nel ruolo di Vip Relation Manager. Ed era particolarmente emozionato, Castelli, alla presentazione di mercoledì. «È stata una cavalcata lunga 12 anni, un lavoro che non mi faceva dormire la notte, ma anche il più bello fatto in vita mia. Lo scopo è stato sempre quello di diffondere il verbo della fotografia, un linguaggio dell’arte contemporanea che può essere impiegato in tanti modi per parlare di tutto e di più, dalla moda alle neuroscienze. Ogni anno, ne abbiamo presentato nuove e diverse declinazioni, analizzando per esempio l’impiego dell’intelligenza artificiale, come facciamo in questa edizione. Ora MIA deve prendere definitivamente il volo e diventare un grande appuntamento internazionale».

Quattro le sezioni espositive: “Main Section”, “Beyond Photography – Dialogue”, “Reportage Beyond Reportage” e “Underskin. Stories from Iran”, racconto di artisti e artiste dedicato alla condizione politica e sociale in cui versa il Paese asiatico. Ed è proprio iraniano il nome che si è aggiudicato il Premio BNL BNP Paribas, sponsor principale della manifestazione fin dalla sua prima edizione: Shadi Ghadirian con l’opera “Miss Butterfly”, presentata dalla Galleria Podbielski Contemporary di Milano.

Dalla zona Famagosta di MIA ci si può spostare a Palazzo Reale, in piazza Duomo, per “Helmut Newton. Legacy”, retrospettiva antologica ideata in occasione del centenario della nascita del grande fotografo tedesco (1920-2004) e posticipata a causa del Covid. La mostra (dal 24 marzo al 25 giugno) arriva poco tempo dopo l’omaggio a un altro gigante del campo, Richard Avedon, che si è chiuso qui alla fine di gennaio.

L’esposizione (prodotta con il supporto di Marsilio Arte) è curata da Matthias Harder, a capo della Helmut Newton Foundation (la fondazione berlinese istituita dal fotografo stesso pochi mesi prima di morire, sul finire del 2003) e da Denis Curti, direttore artistico de Le Stanze della Fotografie (d’imminente apertura a Venezia alla Fondazione Cini, iniziativa che prosegue l’esperienza culturale della Casa dei Tre Oci) e ripercorre attraverso 250 fotografie (e riviste, documenti, video) la carriera di uno dei maestri dell’obiettivo più amati di sempre, e spesso criticato per il suo supposto voyeurismo pornografico.

Helmut Newton. "Machine Age", Thierry Mugler, American Vogue. Monte Carlo, 1995 (© Helmut Newton Foundation)

 

Accanto alle immagini iconiche e ai celebri “nudi”, un nucleo di scatti inediti presentati per la prima volta in Italia svela aspetti meno noti della sua opera. La mostra è in tournée internazionale: sarà in Italia fino all’estate 2024, e dopo Milano toccherà Roma e Venezia. L’esposizione si apre con due grandi stampe: un suo autoritratto, con sigaretta in bocca e Rolleiflex tra le mani, affiancato al volto della moglie June, anch’essa fotografa, scomparsa nel 2021.

Dai primi lavori per British Vogue agli ultimi scatti, realizzati quando era ormai ottuagenario, ma ancora connotati da un immediato impatto spirituale e visivo: se in passato sono state allestite mostre sulla sua produzione, mai nessuna ha avuto un respiro così ampio. «Abbiamo adottato un criterio espositivo semplice, tranquillo e onesto: quello della successione cronologica, funzionale allo studio di un grande artista qual è stato Newton – ha spiegato Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale –. Grazie a lui, la fotografia di moda esce dal proprio ambito e arriva al grande pubblico e ai musei, così come è lui il maggiore artefice di un cambiamento fondamentale: l’attenzione che passa dal vestito al corpo, o meglio dal “corpo vestito” al “vestito corporeizzato”».

Potremmo quasi parlare di paradosso, a pensarci: Newton sempre un passo avanti rispetto alle epoche che ha attraversato, ma sempre capace di un’eleganza atemporale. Racconta Denis Curti: «Deve confrontarsi da un lato con colleghi formidabili come William Klein e Avedon, dall’altro con il predominio del reportage e della street photography. Ma lui emerge. La fotografia di moda smette di essere descrittiva, e diventa aspirazionale. Lo scandalo dei “nudi”, poi, va interpretato. Sono donne svestite, sì, ma vestite di fierezza, di consapevolezza; sono donne potenti di cui Newton vuole celebrare l’autonomia. Sfidano l’osservatore per quello che sono, nella loro bellezza eterna. È un artista che erotizza tutto, mai non è mai volgare ed è lontanissimo dalla pornografia: quello che fa è raccontare le sue e le nostre ossessioni».

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