Diritti

Razzismo: ecco il primo chatbot che supporta le donne aborigene

Maya Cares offre un aiuto a chi subisce episodi di discriminazione razziale, indirizzando le utenti verso oltre 100 risorse. L’obiettivo è capire come segnalarli e affrontarli insieme a esperti
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Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
23 marzo 2023 Aggiornato alle 13:00

“Siete state vittime di razzismo? Il sostegno è qui”, dice la Big Sis Maya, la “sorella maggiore digitale” ideata da Priyanka Ashraf, direttrice e fondatrice di The Creative Co-Operative, la prima impresa sociale australiana al 100% di proprietà, direzione e gestione di donne migranti Bipoc e con sede a Naarm (il nome indigeno dell’area conosciuta come Melbourne). Maya Cares è una piattaforma che punta a dare un supporto emotivo e non solo alle donne aborigene e delle isole dello Stretto di Torres, nere e appartenenti ad altre minoranze etniche, per rispondere al razzismo.

Chi si rivolge a quello che è il primo chatbot con lo scopo di gestire e combattere episodi di discriminazione razziale di cui sono vittime le donne “of colour”, può farlo “in qualsiasi momento, ovunque e in qualsiasi modo tu voglia”.

Alla progettazione e allo sviluppo di Maya hanno contribuito più di 250 donne esposte a questo genere di intolleranze: il software che simula ed elabora conversazioni con un essere umano pone alle utenti che interagiscono alcune domande relative all’episodio vissuto, offrendo opzioni su come segnalarlo e denunciarlo, richiedere una consulenza riguardo l’accaduto agli esperti e cercare risorse per saperne di più. Maya “vi ascolterà e vi darà spazio per individuare i passi successivi adatti al vostro percorso di guarigione”, spiega il team sulla pagina Instagram dedicata.

Accedendo alla piattaforma, Maya si presenta e spiega che la chiacchierata “si concentrerà sul razzismo”. Chiede di continuare “con calma” o di tornare “quando sei pronta”. E noi procediamo: “Cosa descrive meglio la tua situazione?”. Qui ci sono una serie di possibilità tra cui “Non sono sicura di aver subito o assistito a un episodio di razzismo”, oppure “Voglio segnalare un episodio”, o ancora “Chi è Maya?”. Scegliamo la prima e il chatbot risponde che “l’incertezza è comune. Circa l’80% delle persone del nostro sondaggio (che ha coinvolto 150 donne Bipoc, ndr) non era sicuro che un episodio corrispondesse a una forma di razzismo”.

Poi compaiono i consigli della dottoressa Kathomi Gatwiri di Healing Together, servizio che offre supporto personale o professionale: spiegano che spesso capita di confondere le discriminazioni con episodi scherzosi, o viene detto di essere troppo sensibili. “Vedere storie di esperienze di altre persone può aiutarti a sentirti più convalidato. Imparare a conoscere diversi tipi di razzismo può anche aiutarti a darti le parole per parlare della tua esperienza”.

Ce ne sono 3: quello “diretto/esplicito”, che si traduce in insulti, aggressioni fisiche, minacce o trattamenti ingiusti; “indiretto/sottile/microaggressivo” che comprende commenti e azioni che derivano da stereotipi e a volte possono risultare innocui (“Da dove vieni veramente?” è l’esempio calzante che offre Maya); e infine il razzismo “strutturale/sistemico”, che include azioni discriminatorie da parte delle istituzioni, che vanno a bloccare l’accesso di determinate persone a beni, servizi, alloggi, lavoro in base alla loro etnia. Maya Cares propone alcuni esempi fornendo gli strumenti per acquisire consapevolezza riguardo quanto accade attorno a noi.

«Se non dai un nome a ciò che è, come puoi fare qualcosa?», si è chiesta l’avvocata Priyanka Ashraf in un’intervista all’emittente australiana Abc News. L’ispirazione per creare Maya Cares le è venuta dopo una discriminazione provata sulla propria pelle in piena pandemia: si trovava in un supermercato quando qualcuno le ha detto di «riportare il suo virus del Covid da dove era venuto».

Nonostante la sua preparazione in ambito legale, si è resa conto di non sapere quali fossero le sue opzioni se avesse voluto agire in qualche modo: «Se non sapevo come denunciarlo, evidentemente le persone che hanno meno accesso a queste informazioni [incontrano] ancora più ostacoli».

Come spiega la piattaforma Women’s Agenda, secondo il rapporto del Victorian Department of Health and Human Services gli adulti dello stato della Victoria che sperimentano frequentemente il razzismo hanno quasi 5 volte più probabilità di avere una cattiva salute mentale rispetto a quelli che non lo sperimentano, oltre a una probabilità 2,5 volte maggiore di avere una cattiva salute fisica.

La pandemia non ha fatto altro che esacerbare questo fenomeno, spostando l’attenzione sulle donne che, secondo il report preliminare riguardo il razzismo contro gli asiatici in Australia (analisi realizzata da Asian Australian Alliance e Osmond Chiu, Research Fellow al Per Capita Thinktank), sono coloro che sopportano “la maggior parte del peso dell’aumento degli abusi razziali durante la pandemia di Covid-19”.

Con Maya, le utenti hanno la possibilità di raccontare anonimamente un episodio e quanto condiviso “si aggiungerà ai dati e alle prove degli episodi di razzismo che useremo (anonimamente) per sostenere l’antirazzismo con i responsabili politici”, spiega la piattaforma. Le sue domande dettagliate puntano a capire i dettagli rilevanti dell’episodio, a partire dal luogo in cui è accaduto (“sul posto di lavoro, per strada, in un negozio, a scuola, sui social media”), fino a chi l’ha compiuto (“una persona che conosci o uno sconosciuto?”).

Maya è disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e fornisce uno spazio “riservato e non giudicante”. Le donne che appartengono alle minoranze etniche “subiscono il razzismo a livelli sproporzionati e l’accesso ai servizi di salute mentale culturalmente appropriati è spesso bloccato da barriere sistemiche”, spiega The Creative Cooperative. Questa piattaforma, scrivono le creatrici, “è il nostro umile primo tentativo di creare qualcosa da noi, per noi, per rendere più accessibile la risposta e la guarigione dal razzismo”.

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