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Flussi migratori: quello che manca è la programmazione

Il cambio di politiche del 2011

Il nostro recente articolo in cui sollecitavamo un approccio meno ideologico sull’immigrazione ha suscitato alcuni commenti, di cui ringraziamo i lettori, che però evidenziano come non sia sempre facile un ragionamento distaccato sull’argomento.
Il tema di fondo non è tanto se l’immigrazione sia in assoluto un bene o un male. Volevamo invece puntare il dito contro la (cronica) mancanza di programmazione delle politiche migratorie in Italia.
Fino al 2011, la politica migratoria si basava sui decreti flussi annuali e su periodiche “sanatorie”, ovvero sull’ammissione di una presenza irregolare gestibile solo a posteriori. Da allora, anche a seguito della crisi economica, si sono di fatto azzerati i flussi regolari annuali. Dato che i numeri degli sbarchi erano complessivamente simili rispetto agli arrivi regolari di prima, sorge il dubbio che il canale umanitario sia stato utilizzato per molti migranti economici, a seguito della chiusura dei canali legali.

È improbabile che nel 2011 sia stata effettuata una scelta politica consapevole. La concomitanza della guerra civile in Siria e delle primavere arabe in Egitto e Tunisia ha determinato una soluzione che poteva apparire logica, ma si è mostrata gravida di conseguenze. Certo ha pesato la solita difficoltà a spiegare all’opinione pubblica quanto siano difficili i rimpatri. In un certo senso, il livello tecnico può avere forzato la mano a quello politico, nella speranza che l’Europa si sarebbe fatta carico in qualche modo di una parte degli arrivi.
Sicuramente sono stati sottovalutati i tempi tecnici necessari per l’esame delle domande d’asilo, anche se va riconosciuto che il Viminale ha aumentato considerevolmente il numero delle commissioni preposte e moltiplicato i posti in ambito Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

Il punto, a nostro avviso, non è stabilire se “i muri funzionano”: il vero problema non è “come” chiudere le frontiere, ma “perché” vogliamo farlo. Siamo sicuri di non aver bisogno di manodopera? Nell’articolo abbiamo tentato di dimostrare il contrario, evidenziando ragioni demografiche, sociali ed economiche. La stessa Australia, a cui abbiamo dedicato un articolo la scorsa estate, non propone solo “No way”: parallelamente alla chiusura verso i profughi, attua una seria e rigorosa politica di arrivi “regolari”, per studio e per lavoro, selezionando gli ingressi in base alle esigenze del mercato interno.

Quali sono i costi

Anche il tema della “concorrenza al ribasso” nel mercato del lavoro andrebbe approfondito maggiormente. Come abbiamo più volte tentato di dimostrare, in un paese che invecchia e in cui i giovani (giustamente) ambiscono a professioni qualificate e in linea con gli studi sostenuti, è normale che i lavori manuali siano svolti dalla componente immigrata. Una tendenza solo italiana? A noi pare di no. Cercheremo in futuro di ritornare su questi aspetti.

Infine, quando si parla di quattro miliardi di costi sostenuti negli ultimi anni per l’accoglienza, ci si riferisce solo a richiedenti asilo e rifugiati. I costi complessivi per il sistema di welfare che riguarda 5 milioni di immigrati sono maggiori (comprendendo sanità, istruzione, casa, servizi sociali e altro) Tuttavia, risultano inferiori rispetto al contributo economico degli immigrati regolari (tasse e contributi previdenziali), come dimostrato annualmente anche all’interno del Dossier statistico immigrazione. Già da alcuni anni dedichiamo attenzione a questo tipo di calcoli.

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Quanti luoghi comuni sulle analisi costi-benefici

  1. Riccardo

    Ringrazio gli autori per gli articoli che periodicamente scrivono sull’immigrazione.
    Un tema interessante da approfondire sarebbe quello del capitale sociale dei migranti. Come viene anche ricordato nell’articolo l’immigrazione non è tutta uguale, e tra un dottore con laurea in medicina (che magari scappa da una guerra oppure non gli è permesso di esercitare nel suo paese causa di discriminazioni etnico/religiose) e una persona neanche in grado di leggere e scrivere passa una differenza grandissima.
    Queste considerazioni portano dritte alla proposta di un sistema di quote, come canale legale per l’immigrazione in Italia, legato al capitale sociale di chi vorrebbe emigrare e alle necessità della nostra economia.

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