Trento
Ognissanti, Vescovo Lauro: «La morte accomuna tutti, e annulla ogni diversità»
“La morte accomuna tutti, e annulla ogni diversità. Va al di là delle identità e dello stato sociale. Ci costringe a uscire dalle zone d’ombra dell’odio e della competizione per abbracciare percorsi di comunione, la luce calda della fraternità, come stiamo sperimentando anche in questi tragici giorni”.
E’ un passaggio dell’omelia dell’arcivescovo di Trento Lauro Tisi nella s. Messa per la solennità di Tutti i Santi, oggi pomeriggio (inizio ore 14.30) al cimitero di Trento.
Molti i fedeli presenti.
Monsignor Tisi invita a considerare la lezione di “vita vissuta pienamente” anche da chi muore in giovane età, storie – rileva – che tuttavia “rischiano di finire sepolte sotto il flusso incalzante delle nostre cronache quotidiane”.
E sottolinea: “La morte riscrive il codice esistenziale di ciascuno di noi. Rimette in ordine la scala delle priorità. Paradossalmente, restituisce senso alla vita stessa”. “In questi giorni – aggiunge – , in cui andiamo a rivedere i volti dei nostri cari, abbiamo la grande opportunità di riconciliarci con la vita, dando ragione all’apostolo Paolo quando scrive che l’Amore non passerà”.
Citando, infine, l’Apocalisse, conclude: “Il nostro non è un Dio che fa selezione in base al colore della pelle e all’appartenenza religiosa. E’ il padre proprio di tutti, a cominciare dai poveri, dagli ultimi, dai senza nome”
L’OMELIA DEL VESCOVO LAURO TISI – La morte dei propri cari – soprattutto la morte prematura, come quelle anche recenti di giovani stroncati nel fiore dell’età – fa emergere laceranti domande sulla vita e sulla sua possibilità di regalarci gioia.
Al contempo, mette in luce pagine di grande dignità, in cui anche l’assenza di spiragli di speranza non incattivisce l’animo, ma lo lascia incredibilmente sereno. “Nonostante tutto, non cambierei in nulla la mia vita”, ha scritto un giovane ormai vinto dal calvario della malattia. Che lezione di vita vissuta pienamente, anche se appena agli inizi.
La morte riscrive il codice esistenziale di ciascuno di noi. Rimette in ordine la scala delle priorità. Paradossalmente, restituisce senso alla vita stessa.
Queste pagine altissime di uomini e donne che con il loro modo di morire ci aprono scenari inediti di futuro, squarciando il buio insondabile della morte, fatichiamo però a vederle. Esse ci sono, ma rischiano di finire sepolte sotto il flusso incalzante delle nostre cronache quotidiane.
In questi giorni, in cui andiamo a rivedere i volti dei nostri cari, abbiamo la grande opportunità di riconciliarci con la vita, dando ragione all’apostolo Paolo quando scrive che l’Amore non passerà.
Se, dunque, il morire dei volti amati apre alla speranza, mi permetto di offrire, accanto al loro, il morire di Gesù di Nazareth. Quel morire che ha suscitato la reazione del centurione: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I tratti di quel morire li ritroviamo nella pagina delle Beatitudini, non a caso vera autobiografia di Gesù di Nazareth. Muore libero da se stesso, è lui il “povero in Spirito per eccellenza”; prende su di sé l’intera violenza del mondo e, da vero uomo di pace, la immerge nell’abbraccio di una misericordia senza limiti. In quella morte innocente l’uomo può toccare la gratuità assoluta dell’amore.
Ai piedi del Cristo crocifisso, prendiamo atto che la morte accomuna tutti, e annulla ogni diversità. Va al di là delle identità e dello stato sociale. Ci costringe a uscire dalle zone d’ombra dell’odio e della competizione per abbracciare percorsi di comunione, la luce calda della fraternità, come stiamo sperimentando anche in questi tragici giorni.
In questa linea, vorrei invitarvi a fermare lo sguardo sulla moltitudine immensa, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua che sta in piedi davanti all’Agnello, di cui ci ha parlato l’Apocalisse, per ricordare ancora una volta che il nostro Dio non è il Dio di alcuni, ma il Dio di tutti i popoli. Non è un Dio che fa selezione in base al colore della pelle e all’appartenenza religiosa. E’ il padre proprio di tutti, a cominciare dai poveri, dagli ultimi, dai senza nome.
La santità cristiana, allora, è alzarsi ogni giorno provando a pensare e trattare gli altri semplicemente come fratelli e sorelle.
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