Così la camorra disse di no all'Isis: «Volevano cinque kalashnikov, i clan non glieli diedero»

Così la camorra disse di no all'Isis: «Volevano cinque kalashnikov, i clan non glieli diedero»
Anche i camorristi hanno un cuore: riconobbe sui giornali quell'extracomunitario arrestato per falsificazione di documenti e poi scarcerato, intuì che i cinque kalashnikov che l'uomo gli aveva chiesto sarebbero potuti finire nelle mani dell'Isis e decise di non darglieli. È quanto l'ex capozona del clan dei Casalesi Salvatore Orabona, ora collaboratore di giustizia, riferì agli inquirenti appositamente fatti convocare per parlare di Mohamed Kamel Edine Khemiri, il tunisino di 43 anni condannato lo scorso giugno a 8 anni di reclusione per terrorismo di matrice islamica.



Dopo avere visto la sua foto sui giornali Orabona decise di conferire con i magistrati. L'episodio risale all'agosto del 2016. Ai magistrati disse di avergli venduto solo alcune vetture. Null'altro. Dichiarazioni che, comunque, finora non hanno trovato alcun riscontro. Khemiri, approdato in Italia attraverso le rotte dell'immigrazione clandestina, venne arrestato e poi processato. La Corte di Assise di Napoli lo ha ritenuto colpevole di proselitismo e indottrinamento via web alla più radicale delle ideologice terroristiche islamiche. Di essere, quindi, un attivo sostenitore dell'Isis.



Salvatore Orabona, 36 anni, ex capozona del clan dei Casalesi tra Aversa e Trentola Ducenta, nel Casertano, conosceva i segreti della cosca mafiosa. Si è occupato dei suoi affari e sapeva dove erano nascoste le armi. Dopo il «pentimento» si è conquistato la fiducia degli investigatori rivelando i nascondigli degli arsenali. Ma per Giuseppe Setola, il killer più spietato del clan e braccio destro del boss Francesco Bidognetti, era un nemico. Infatti tentò di ucciderlo in un drammatico agguato scattato il 12 dicembre del 2008, quando la cosiddetta stagione del terrore inaugurata proprio da Setola (che in quel periodo aveva già assassinato 18 persone) volgeva al termine.



Il terribile raid contro Orabona, con decine di colpi di ak47, e contro un altro affiliato ritenuto suo nemico, Pietro Falcone fu registrato in diretta dalle forze dell'ordine che avevano installato una cimice nella vettura usata dal commando.
L'audio dell'agguato fece il giro del mondo. Colpi di mitra furono esplosi mentre i sicari, forse ubriachi e drogati, intonavano canzoni neomelodiche: prima contro l'abitazione di Orabona e poi contro quella che credevano fosse la casa di Falcone, sempre a Trentola. I due obiettivi rimasero illesi. Ne fece le spese invece una donna innocente, che rimase gravemente ferita. La collaborazione di Orabona con la giustizia ha anche consentito di fare luce sulle collusioni tra la fazione Zagaria del Clan dei Casalesi, l'imprenditoria e la politica locale, nell'ambito del cosiddetto processo Medea.

Ultimo aggiornamento: Mercoledì 26 Settembre 2018, 19:57
© RIPRODUZIONE RISERVATA