Echoes” come gli echi di due donne che annientando lo spazio e il tempo si rincorrono e si raggiungono, unendosi in un unico grido di dolore contro il femminicidio. È una storia di donne e violenza: Tillie, ragazza inglese di fine Ottocento, cristiana, e Samira, commessa in un negozio di libri dei nostri giorni, musulmana. La religione e il contesto storico di appartenenza sembrano separarle, ma in realtà le loro voci continuamente si intrecciano, accomunate dal bisogno di emancipazione e ascolto.

Entrambe partono dalla stessa città, Ipswich, la prima alla volta dell’India e la seconda della Siria, seguendo i rispettivi mariti e con essi il sogno di un matrimonio felice e della realizzazione personale. Questi nobili ideali si infrangono presto in realtà crudeli di femminicidio. Tillie scoprirà come la sua cieca fede nella pietà e nella civilizzazione non siano contemplate in un mondo come quello indiano, messo in ginocchio dal potere britannico che in quel periodo raggiunge l’apice, affamato, disperato, o da un uomo come il Tenente che le impone quotidianamente la fastidiosa e presunta superiorità del Maschio. Samira, che con un’amica parte per Raqqa, indignata per le stragi di civili siriani e l’ondata di profughi allo sbando, e diventa una moglie della Jihad, sarà costretta ad aprire gli occhi su una quotidianità fatta di sangue, polvere, paura. Contrariamente alle sue aspettative, dettate anche dalla fede (vuole combattere i kafir, gli infedeli), la sua identità di donna viene fatta a pezzi con le percosse, gli stupri, i tradimenti.

Entrambe rimangono immobilizzate in un tunnel di violenza, costrizioni, insulti, sottomissione e si trovano a fronteggiarlo da sole. Non hanno il permesso di contraddire il proprio marito, di esprimersi, di vivere a pieno la maternità: sono considerate solo contenitori con lo scopo unico della procreazione, in silenzio e a testa bassa. Sono due anime in solitudine, circondate da uno spazio scenico vuoto: lo sfondo culturale e storico della storia è ben preciso, ma sul palco non c’è traccia di contestualizzazione. A risaltare in Echoes sono solo dei grovigli di tubo giallo che interagiscono con le attrici, a volte ingabbiandole, a volte trasformandosi in valvole di sfogo della loro frustrazione. L’artista di Echoes, Sara Patriarca, rende volutamente l’idea di un non luogo atemporale, ossia una assenza di contesto che evidenzia l’universalità di questa storia: la violenza, purtroppo, non conosce barriere storiche, spaziali, temporali.

In un crescendo disarmante di violenza, ritratto magistralmente dalla regia di Massimo di Michele e dalla intensa interpretazione di Federica Rossellini e Francesca Ciocchetti, il testo dell’inglese Henry Naylor del 2015, vincitore del Fringe Festival di Edimburgo, prende corpo e parola in prima nazionale al Teatro India di Roma.

Abbiamo incontrato il regista per parlare di Echoes.

Massimo, hai adattato al teatro un testo straniero sul tema della violenza sulle donne. Perché la scelta ricade proprio su Henry Naylor e i suoi “Arabian Nightmares”? Come si prospetta la situazione all’estero?   

«In Europa, in particolare In Spagna e in Italia, secondo dati statistici, il tasso di femminicidio raggiunge numeri altissimi, e sull’argomento ho trovato il testo di Naylor interessante perché richiama l’attenzione anche su un confronto religioso. Gli “echi” sono quelli di una donna di fine Ottocento e una dei nostri giorni che subiscono un atto di privazione. Sì, perché femminicidio è privazione non soltanto della libertà fisica, ma anche della parola, della scelta. Ho voluto rendere la vicenda non attraverso due monologhi, bensì con un dialogo tra queste giovani donne che volutamente rimangono indefinite, sembrando a tratti quasi dei fantasmi. Ecco, senza alcuna retorica o vittimismo che spesso si sfiorano nel ritrarre figure di questo genere, ho trasformato il luogo in un non-luogo, universalizzando la storia e lasciando allo spettatore la libertà di prendere posizione in merito alla questione. Ho lasciato spiccare i fatti nudi e crudi, eliminando allestimenti scenici ingombranti.»

Le vicende di Samira e Tillie, pur essendo lontane, viaggiano parallelamente e per questo ci ricordando che la violenza sulle donne non è figlia dei nostri giorni ma viene da lontano. Cosa è cambiato, nella società odierna, nell’atteggiamento delle donne nei confronti delle ingiustizie che subiscono? In qualche modo sono state aiutate dai social?

«Purtroppo tra le donne che portano avanti la battaglia contro il femminicidio e il resto c’è ancora poco dialogo e spesso si cade in atteggiamenti anacronistici e non del tutto efficaci, complice forse un diffuso disinteresse verso la questione, come se fosse un problema soltanto femminile e solo le dirette interessate dovessero farsi carico del fardello. In realtà è un problema di tutti ed è interessante anche conoscere il punto di vista maschile in merito. I social sono un’arma a doppio taglio: da un lato aiutano enormemente le vittime nella denuncia degli abusi, incoraggiando a catena anche altre donne più timorose e silenziose. Dall’altro però stalker e uomini senza scrupoli li hanno sfruttati per seguire, insultare, demolire l’immagine e la sostanza dei loro bersagli femminili, causandone anche la morte. La società si deve scuotere, deve alzare la testa di fronte a questi orrori e secondo me il teatro ha il compito, tra i tanti, di raccontare la realtà dei fatti e sollecitare la gente, farla riflettere, offrire una occasione di crescita culturale.»

In Echoes l’unico elemento scenico presente è un tubo di gomma giallo che cattura subito l’attenzione, perché contrasta con l’atmosfera buia del palco su cui danzano le due protagoniste e anche perché man mano viene accumulato al centro della scena e forma un enorme groviglio luminoso. Qual è il valore simbolico del tubo?

«Si tratta di un chilometro e duecento metri di tubo giallo. Può avere molteplici significati: si trasforma opportunamente in una frusta, nelle viscere umane (quelle del mendicante che viene violentato barbaramente dal Tenente, marito di Tillie), nelle vene delle donne. Rappresenta i nodi che non si possono sciogliere, o quelli che vengono sbrogliati ma crudelmente ritornano a tormentare le protagoniste, sono i flussi di coscienza che dialogano oppure il tunnel che soffoca e imprigiona. Il colore non è casuale: per Van Gogh il giallo è il proprio urlo e il colore di Dio, e in qualche modo in Echoes può incarnare il grido disperato e feroce di Tillie e Samira, consapevoli che l’eco di Dio sulla Terra arriva distorto.»

La tua scelta registica in Echoes ricade non soltanto sulla centralità della parola essenziale e cruda ma anche sulla gestualità. Che significato ha il corpo come elemento fisico nella trama e nella regia?

«Il corpo e la parola hanno lo stesso peso, a mio parere. La violenza sulle donne equivale a sottrarre loro la libertà nel corpo e nella parola, e d’altronde è soprattutto l’aspetto fisico che attira i carnefici e li spinge ai soprusi fisici, verbali, psicologici. Ho lavorato insieme alla danzatrice Francesca Zaccaria, vicina alla grande Pina Bausch, su una doppia drammaturgia della parola e del gesto, prestando attenzione alla danza e agli echi tra i gesti delle attrici e le vicende della storia (ad esempio, all’inizio spesso una delle due si trova nell’atto di infilarsi una spilla tra i capelli, alla fine Samira si toglie la vita conficcandosi una spilla nelle vene).»

Come si esce dal tunnel della violenza?

«Il femminicidio, come altri mali della società che, ricordiamolo, è maschilista e profondamente patriarcale, è un fenomeno culturale. Lo scrittore Gesualdo Bufalino diceva così della mafia: “La mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari”. Allora una delle soluzioni sta nel ruolo istituzionale della scuola, ambiente dove si impara la civiltà e il rispetto del prossimo (o almeno in teoria): è necessario aprirsi al dialogo e non alzare muri, lavorare su una cultura del rispetto che renda possibile parlare di una vera emancipazione che purtroppo al giorno d’oggi non c’è.»

Arianna Saggio

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