Israele e USA fanno a gara in una guerra che è in procinto di scardinare quel minimo di decenza umanitaria che è rimasta (solo teoricamente) imbavagliata nelle Carte comunitarie o nel buco nero degli innumerevoli colloqui di pace.

Prescindendo da diacroniche analisi sulla questione palestinese, l’odierna situazione poggia sul rapporto di forza che Israele e gli USA hanno instaurato non solo con gli abitanti della Striscia di Gaza (costretti a muoversi e vivere nello spazio carcerario di 300 km quadrati come dei topi in trappola) ma anche sul tavolo decisionale mediorientale (destabilizzando ulteriormente i rapporti con Turchia, Giordania, Siria, Libano).

Il 15 maggio è stato l’anniversario del Yawm al-Nakba (Giorno della Nakba), ovvero il memorial del giorno in cui ebbe inizio l’esodo dei palestinesi: il giorno in cui iniziò il dominio diretto d’Israele e la frantumazione del sogno di ottenere uno Stato di Palestina. Questa ricorrenza è indelebile e sacra per la memoria palestinese, ma non per il Knesset che nel 2010 ha varato una legge che vieta ai palestinesi di manifestare lutto o dolore in questa data.

La più recente provocazione, datata 14 maggio 2018 (guarda caso in corrispondenza con la Nakba), è stata lo spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Gerusalemme ha grande valenza simbolica e pratica per la Palestina, sia perché la città è storicamente contesa tra i due Paesi per questioni religiose, sia perché è un chiaro messaggio di abbandonare le speranze di creazione di uno Stato palestinese con l’agognata capitale Gerusalemme Est, sia perché essa si colloca sulla cosiddetta Green Line: ergo, un affronto ravvicinato.

Mentre Netanyahu e Trump brindano per l’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, a breve distanza dalla cerimonia gli israeliani uccidono 63 palestinesi e ne feriscono 2700 in un giorno. Una strage, quella palestinese, denominata questione sui libri di storia: ma questione deriva dal latino quaerere, ovvero chiedere, e tutto ci si è chiesti tranne che un efficace piano di risoluzione, tutto ci si è chiesti tranne se si è veramente intenzionati a porre fine a questa strage. Uno status quo che prosegue da anni e per anni coperto da campagne mediatiche, frasi di circostanza come «La pace è in pericolo, chiediamo a Israele un gesto coraggioso verso i palestinesi» (Macron), «Non basta riconoscere la Palestina, bisogna lavorare per l’esistenza effettiva dello Stato» (Mogherini), «Le liti non aiutano la pace» (Merkel).

Una mossa azzardata, quella degli USA, che potrebbe degenerare in una reazione a catena da parte di altri Stati. L’alleanza della discordia: fatta di strette di mano, scambi di favori e civili morti. Come si rimescolano in fretta le carte: solo 25 anni fa la stretta di mano ci fu tra Rabin (primo ministro israeliano) e Arafat (leader dell’OLP) a Washington con la benedizione del Presidente USA Bill Clinton. Oggi cos’è rimasto degli Accordi di Oslo?

Le conseguenze di questo spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme appaiono per ora solo simboliche: la Palestina continuerà a manifestare (come del resto sta facendo assiduamente da anni), sarà incrementata la vigilanza sulla frontiera, ma la rabbia di un popolo stremato non riuscirà a capovolgere un Paese come Israele, almeno non da sola. Sul fronte mediorientale difficilmente qualcuno agirà in difesa della Palestina gratuitamente, essendo una zona su cui non gravano interessi economici. L’Arabia Saudita guarda di buon occhio quest’alleanza, d’altronde è uno dei Paesi interessato a far saltare l’accordo sul nucleare. L’unico Paese arabo da cui ci si potrebbe aspettare una risposta forte è l’Iran, alleato con la Russia. Gli altri Paesi satellite come Siria e Yemen, analogamente alla Palestina si adattano alle vicende. Per questioni di potenza economica e stabilità politica, s’intende.

Sul fronte europeo, nel contempo, si tentenna per il riconoscimento unanime di uno Stato della Palestina (solo 8 Paesi europei lo riconoscono: Svezia, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Polonia e Romania). La stessa Unione Europea, che adora il linguaggio della vaselina, che modera eufemisticamente gli aggettivi destinati ad Israele, che per anni ha sostenuto la democraticità israeliana e solo dopo 15mila morti palestinesi si sta ricredendo sulla verginità di Israele, che ha paura di chiamare criminale uno Stato criminale. 

Nel frattempo come si vive in Palestina? Democrazia, libertà, alleanze, accordi commerciali sono termini avulsi dal territorio palestinese, si pensa a sopravvivere più che a spiegare analiticamente lo stato di cose. Si vive la realtà nuda e cruda (e l’unica rilevante): vittime civili che muoiono continuamente, stato d’assedio, bombardamenti, fughe dagli attacchi e preghiere. Al di là del ginepraio fatto di rancori storici, interessi economici e strette di mano ciò che conta è il massacro quotidiano in quell’Inferno chiamato Gaza.

La Palestina è sull’orlo di una nuova Intifada, i cecchini israeliani continuano ad esercitarsi sui civili come se la Palestina fosse il loro grande poligono privato: till the bitter end (fino alla fine amara) o la precarietà della Storia porterà uno sconvolgimento dei nuovi equilibri (o squilibri)? Per ripulire il sangue versato ci vorrà tempo, ma se il mondo volesse la pace isolerebbe il criminale e non si renderebbe complice.

Se lo scacchiere internazionale ha seguito sempre le stesse regole, provocando morte e dolore, l’unico appiglio per la salvezza è un deus ex machina che ribalti il tavolo.

Melissa Bonafiglia

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