Uiguri, “educati” da Pechino nel silenzio del mondo

 

“Educati” per essere silenziati. Gli Uiguri sono vittime di un processo di sinizzazione da parte del Partito Comunista Cinese (PCC) nella regione dello Xinjiang. Pechino sta attuando infatti una linea dura per frenare lo spirito indipendentista e per combattere un movimento da anni ostile al potere centrale e alla penetrazione degli han, la maggioranza dei cinesi.

Sono proprio la cultura e la religione a essere finite nel mirino di Pechino. Dal 2017 è emerso che è in atto una repressione verso tutte le minoranze musulmane residenti nello Xinjiang: non solo gli uiguri, anche i cinesi di etnia kazaka e kirghisa.

 

Il pretesto sono gli attentati terroristici che dal 2008 hanno colpito lo Xinjiang e diverse città della Cina, rivendicati dagli estremisti musulmani del Movimento Islamico del Turkistan Orientale.

Secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di uiguri e persone appartenenti ad altre minoranze turcofone sono detenute arbitrariamente nei centri dello Xinjiang: prigioni a cielo aperto dove i carcerati ogni giorno si alzano intonando l’inno nazionale, imparano la lingua cinese, promettono fedeltà al Partito Comunista; inoltre, sono condannati ai lavori forzati e non possono osservare i precetti della religione musulmana.

Le organizzazioni Human Rights Watch, Amnesty International, la Uyghur Rights Watch e alcuni senatori americani, tra cui il repubblicano Marco Rubio, denunciano un “grave abuso dei diritti umani” e hanno accusato la Cina di impegnarsi in una campagna di pulizia etnica.

Sebbene ad agosto 2018 il governo cinese avesse negato l’esistenza dei centri di detenzione, nei mesi successivi ha fatto dietrofront affermando che esistono “centri di educazione vocazionale”, dove sono accolti bambini e adulti che desiderano avvicinarsi alla cultura cinese.

Tuttavia, una legge emanata a ottobre 2018 dal Comitato permanente dell’Assemblea del popolo di Urumqi, capitale dello Xinjiang, autorizza “le autorità sopra il livello di contea a istituire organizzazioni di educazione e trasformazione attraverso dipartimenti di supervisione, come centri di addestramento professionale, per persone influenzate dall’estremismo”.

A gennaio una delegazione dell’Ue è stata accolta dalle autorità cinesi in un centro dello Xinjiang per avere una “comprensione obiettiva” della campagna di antiterrorismo cinese. Il gruppo europeo ha però denunciato una manipolazione dell’ispezione durante la visita, mostrando una realtà costruita dal Partito. Ora le organizzazioni dei diritti umani chiedono alle Nazioni Unite di farne ulteriori.

La tesi di Pechino stride anche con le testimonianze dei parenti dei detenuti o di chi è stato rilasciato. Chi pratica il ramadan, indossa lo hijab, legge il Corano o ha atteggiamenti che rientrano nei “75 indicatori comportamentali di estremismo religioso”, ha molta probabilità di finire nei campi, senza ottenere una protezione legale e senza avere la possibilità di avere un processo giudiziario.

Secondo un rapporto della Human Rights Watch, i detenuti nei centri sono malnutriti e maltrattati psicologicamente e fisicamente. Ma le testimonianze forniscono ulteriori dettagli: come racconta a LumsaNews l’attivista uiguro naturalizzato finlandese, Halmurat Harri, i cui genitori sono ora agli arresti domiciliari dopo aver trascorso 18 mesi in un centro, il governo cinese impedisce qualsiasi contatto con i parenti durante i mesi di detenzione.

Il sistema di videosorveglianza e il controllo della polizia consente anche di monitorare ogni visita straniera e, in particolare, sorvegliare coloro che hanno legami all’estero, osservando chi ha collegamenti con i “26 Paesi sensibili”.

 

Hulmarat, che non torna in Cina per timore di essere internato nei centri, ci ha spiegato che i detenuti con gravi patologie non ricevono l’assistenza medica: è difficile quindi calcolare quante persone escano vive dai centri.

La notizia iniziata a circolare l’8 febbraio sulla presunta morte del musicista uiguro Abdurehim Heyit, detenuto dal 2017, sta divenendo un caso diplomatico. La Turchia, che accoglie la diaspora uigura, sul caso ha assunto una posizione dura. Con un comunicato rilasciato il 9 febbraio, il ministro degli Esteri di Ankara ha definito i centri nello Xinjiang “una vergogna per l’umanità”, chiedendone la chiusura immediata.

Fino a oggi, la maggior parte delle nazioni islamiche ha preferito ignorare la questione per non compromettere i rapporti con il gigante asiatico. La Turchia, nonostante i 3,6 miliardi di investimenti cinesi in infrastrutture per il suo ruolo di ponte tra Europa e Africa per la BRI, ha deciso di rianimare l’indignazione generale, come quella della Malesia che ha rifiutato di estradare i rifugiati uiguri in Cina.

Molti Paesi però preferiscono rimanere nella sfera economica della Cina per uscire dalle proprie lacune finanziarie: pesano infatti i 1000 miliardi di dollari di investimenti cinesi che rientrano nell’Iniziativa BRI, la mastodontica rete di progetti infrastrutturali, finanziata dalla Cina e dall’Aiib (Asian Infrastructure Investment Bank), che intende unire Pechino a oltre 68 Paesi attraverso tre vie, terrestre, marittima e polare.

Dopo la Rivoluzione Culturale, politici ed economisti occidentali avevano affermato che l’apertura dei mercati cinesi avrebbe determinato una società più libera.

La realtà conferma altro e dimostra come ci sia ancora bisogno di far conoscere al mondo quanto sta accadendo nello Xinjiang per mano di Pechino. Ce lo chiede Halmurat Harri, che recentemente ha lanciato una campagna globale sui social. Hashtag: #MetooUyghur.