Strana davvero la vita delle super star, della musica come del cinema poco importa. Più degli altri, attraversano fasi e momenti all'insegna degli eccessi sotto più forme e modi, trasformandosi, ricreandosi - nel look, nel genere di musica o di film da interpretare, nella famiglia (matrimonio, divorzio, nuovi flirt, ancora matrimonio, tradimento, ancora divorzio e così via), nel posto in cui vivere – insomma, rinascendo di nuovo (per chi ci riesce), più e più volte. Su tutti, Madonna può esserne l'emblema, ma il suo esempio come l'elenco di tante e tanti altri è così lungo da annoiare persino la classe più attenta del Christ Church o del Magdalen, due tra i college di Oxford con la più alta concentrazione di nerd. Uno come Bradley Cooper, attore, produttore, oggi anche regista grazie al suo primo film dietro la macchina da presa, A star is born, 42 milioni di dollari incassati solo ai botteghini Usa nel primo week end di programmazione, non è da meno.

In tutte le interviste, parla sempre con grande orgoglio della sua infanzia in un sobborgo di Filadelfia, così come delle difficoltà incontrate nel sostenere i primi provini, delle tante porte in faccia ricevute, dei sacrifici, dei momenti no, delle insicurezze come della dipendenza dalle droghe, superata dopo un preciso percorso in uno dei migliori rehab del Texas, ma in quest'ultimo caso – però – il successo era già arrivato ed era già ricco. La famiglia è sempre stata per lui un punto fermo, dalla madre di origini italiane al padre broker morto di cancro - a cui era legatissimo (grazie a lui scoprì David Lynch e il suo The Elephant Man, interpretato per mesi all'Heymarket Theater di Londra) – a quella attuale che ha formato con la modella Irina Shayk, da cui ha avuto una figlia, Lea. In mezzo, un numero non esagerato di fidanzamenti (per tre anni con Renée Zellweger, all'epoca più famosa di lui) e un matrimonio (con l'attrice Jennifer Esposito). Solo i più attenti lo ricorderanno in uno degli episodi della serie tv Sex and the City e in ruoli minori in filmetti commerciali inutili come le bacche di goji col pollo.

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In ogni caso, Hollywood si accorse di lui col film corale La verità è che non gli piaci abbastanza - (ma più che Bradley Cooper, a restare nella memoria erano Scarlett Johansson, Jennifer Anistyon e Ben Affleck) in Yes Man con Jim Carey e in A proposito di Steve con Sandra Bullock, ma la popolarità vera bussò alla sua porta nel 2009 con Una notte da leoni, l'esilarante film di Todd Phillips. Cooper era uno dei tre protagonisti, vittima/carnefice delle avventure/disavventure in un week end di addio al nubilato a Las Vegas solo tra maschi (si fa per dire), con conseguenze niente affatto scontate. Il film ebbe così successo che ne seguirono altri due e lui – che nel film compare spesso senza vestiti o semplicemente a torso nudo – fu notato da quelli di People (e non solo da lui) ed eletto, nel 2011, Uomo più sexy dell'anno con tanto di copertina ed annuncio globale.

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“Da quel momento, la mia vita è cambiata completamente perché tutto o quasi ha cominciato a girare in maniera diversa”, ci ha confidato lui stesso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. Di film, quasi tutti di grande successo al botteghino, ne ha fatti molti, come Limitless e Il lato positivo (Silver Linings Playbook, tratto dall'omonimo bestseller di Matthew Quick) di David O. Russel, che gli valse una prima candidatura all'Oscar. Con quella storia, riuscì a caricarsi sulle spalle il peso di una consapevolezza capace di rendere il film più amaro e più vero. Interpretava Pat, un uomo appena uscito dall'ospedale psichiatrico dopo otto mesi di trattamento con l'idea di riuscire a riconquistare la moglie, ma all'improvviso la sua vita veniva sconvolta dall'incontro con una giovane vedova di nome Tiffany dipendente da psicofarmaci.

Tra un impegno e l'altro - immancabili i milionari spot pubblicitari - Cooper ha doppiato anche il personaggio Marvel, Rocket Raccon ne I Guardiani della Galassia, ma prima si è fatto ricordare per ruoli pop – come in Joy, sempre con la Lawrence, e ne Il sapore del successo con Sienna Miller, ma impossibile non averlo in mente, per chi li ha visto, nei panni di un truffatore costretto a collaborare con l'FBI per risolvere alcuni casi di corruzione di pubblici ufficiale in American Hustle - altra candidatura, ma come non protagonista - e in quelli del cecchino Chris Kyle in American Sniper di Clint Eastwood, anche qui candidato per la migliore interpretazione maschile, ma anche come produttore della pellicola. Con Eastwood, tra l'altro, lo vedremo presto in The Mule, dove non sarà il protagonista, ma reciterà accanto al Premio Oscar per Gli spietati e Million Dollar Baby che sarà un veterano della Seconda Guerra Mondiale trasformatosi in spacciatore di droga negli anni Ottanta. In questi giorni, invece, Bradley Cooper è tornato sulla bocca di tutti per il suo esordio alla regia. In A star is born lo ritroviamo anche come protagonista principale nei panni della rock star Jack che dopo un suo concerto, sente cantare La vie en rose da una ragazza in un locale di drag queen ed è subito amore a prima vista. Lei si chiama Ally ed è interpretata da Lady Gaga, autentica conferma (aveva recitato anche in American Horror Story ricevendo un Golden Globe) acclamata sin dal suo arrivo al Lido con una mise sobria e una rosa in bocca, e poi sul red carpet con un'abito di piume rosa di Valentino, a dir poco ipnotico.

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Cooper compare sin da subito sulla scena, ma poco gira attorno a lui, perché ha voluto valorizzare – giustamente o no – la sua compagna di scena, cucendole addosso un personaggio tagliato a misura del suo straordinario carisma di donna di spettacolo. Ally/Gaga finisce, come era prevedibile, con l'offuscarlo, soprattutto quando canta e quando si esibiscono insieme ai Festival di Coachella e Glastonbury (quelle scene sono state girate proprio lì), l'attenzione è solo per lei. Lei sale e lui precipita nei cocktail continui di alcol e droghe, tra figuracce in pubblico mentre lei è premiata agli Emmy a defaillances in privato. Così per 135 minuti, che non sono affatto pochi per un film del genere se già non piace il genere. L'attesa è stata tanta, soprattutto tra i membri dell'Academy che ne decideranno le eventuali candidature all'Oscar. La prima proiezione a loro riservata è stata presa d'assalto e molti non sono riusciti neanche a vederlo in quell'occasione.

Poco importa, dunque, se si tratta dell'ennesimo (il quarto per l'esattezza) remake di È nata una stella, dopo quello del 1937 con Janet Gaynor e Norman Maine (la sceneggiatura, però, era di Dorothy Parker), quello del 1954 con Judy Garland diretta da George Cukor (ma niente Oscar per lei, perché ebbe la meglio Grace Kelly) e quello del 1976 con Barbra Streisand accanto a Kris Kristofferson (ma lei avrebbe voluto Elvis Priesley). Gli stessi bookmaker, inglesi e americani, lo danno poi come titolo su cui puntare per la prossima notte delle stelle a febbraio al pari del Leone d'Oro ricevuto da Alfonso Cuaron con Roma. Quindi prevedibilità su prevedibilità di vittoria. Ma sarà davvero così? Davvero si vuole premiare un film come tanti, davvero si vuole premiare una storiella che sa di déjà-vu con un protagonista maschile decisamente poco adatto in quel ruolo e con verità più nelle musiche (la colonna sonora è di Willie Nelson) che nei dialoghi? Staremo a vedere. Per ora, al mattino o in palestra in pausa pranzo, ci ascoltiamo nelle cuffie Shallow, ma se poi stiamo bene e carichi, beh, il merito è solo di Lady Gaga.