Udin&Jazz, seconda parte

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Avishai Cohen Group, foto Angelo Salvin

Udine, Teatro Palamostre, 4-5 luglio

 Il programma della terza serata di Udin&Jazz era stato concepito per documentare alcune aperture del jazz contemporaneo verso alcune forme della popular music attraverso i concerti del quartetto FORQ e del nuovo gruppo del contrabbassista Avishai Cohen. Se è vero che per sua stessa natura il jazz ha assorbito elementi da altre culture e altri generi, è altrettanto innegabile che certi odierni tentativi di captare stimoli da musiche altre appaiono come delle operazioni finalizzate a intercettare un pubblico eterogeneo o magari stimolare i giovani a un diverso tipo di ascolto. Sta di fatto che poi tali iniziative finiscono inevitabilmente coll’annacquare o perdere certi contenuti essenziali del jazz sotto il triplice aspetto ritmico, armonico e improvvisativo.

FORQ è composto da quattro brillanti musicisti. Tra questi figurano due componenti dell’orchestra Snarky Puppy: il chitarrista Chris McQueen (anche membro di Bokanté) e il batterista Jason Thomas, che vanta collaborazioni con Marcus Miller e Roy Hargrove. Completano il quartetto il tastierista Henry Hey e il bassista Kevin Scott: il primo già collaboratore di David Bowie, George Michael e Rod Stewart, il secondo di Colonel Bruce Hampton e Wayne Krantz. I quattro privilegiano una miscela, eseguita con freschezza e convinzione, di rock (sia vintage che indie) e funk, con alcuni tratti progressive e vaghe reminiscenze del jazz elettrico post-davisiano. La caratterizzano ingegnose costruzioni ritmiche con frequenti variazioni metriche e corposi assolo, contrapposti a groove ripetitivi e temi oggettivamente scarni. Tutto molto ben fatto e gradevole, ma non sono queste le nuove possibili direzioni.

FORQ, foto Angelo Salvin

Risulta sinceramente poco comprensibile l’attuale strategia di Avishai Cohen. Il recente «1970» (Sony) testimonia, pur tra alti e bassi, la scelta del contrabbassista di ricollegarsi alla musica degli anni Settanta ascoltata voracemente durante l’adolescenza. Presupposto intellettualmente onesto, ma in parte smentito da uno show confezionato nei minimi dettagli (per inciso, penalizzato da alcuni problemi tecnici) e decisamente orientato verso la canzone. Per la precisione, verso un pop sofisticato ma appiattito, a tratti appesantito da estenuanti groove e reminiscenze di Ofra Haza. I momenti migliori coincidono con l’innesto di elementi ebraici – di matrice segnatamente sefardita – sotto gli aspetti melodico, modale e ritmico. D’ror Yikra, inno composto nella Spagna del X secolo, ne è un esempio esauriente, mentre Alon Basela perde un po’ della suggestione della versione originale, incisa su «Aurora» (2009). Del resto sostituire oud, piano e percussioni – fra i tratti distintivi del suo sestetto Eastern Unit – o il violoncello presente in «Almah» (2013) e in alcuni brani dello stesso «1970» con tastiere (Shai Bachar), chitarra (Marc Kakon) e batteria (Noam David) non fa altro che spersonalizzare e impoverire certi contenuti timbrici e dinamici. In questo contesto anche la cantante Karen Malka, storica collaboratrice del bassista, è confinata a un ruolo marginale, per eseguire i controcanti e gli impasti con la voce del leader. Quanto al Cohen bassista, solo in alcuni episodi emergono il fluido e possente pizzicato o i suggestivi passaggi con l’arco profusi a piene mani nei suoi trii, nonché l’indubbia perizia sullo strumento elettrico, in una certa misura debitore di Jaco Pastorius. Un concerto che ha comunque suscitato entusiasmo tra le frange meno esigenti del pubblico ed è culminato in una coinvolgente versione di Vamonos pa ‘l monte di Eddie Palmieri, a testimonianza dell’interesse di Cohen per il patrimonio latino-americano.

Avishai Cohen, foto Angelo Salvin

L’apertura della quarta serata prevedeva la presentazione del doppio Cd «Opposites» (Incipit) dei Quintorigo. Al nucleo originale – Andrea Costa (violino), Gionata Costa (violoncello), Stefano Ricci (contrabbasso), Valentino Bianchi (sax tenore e soprano) – si sono aggiunti Gianluca Nanni alla batteria e, in alcuni brani, Alessio Velliscig alla voce. La formazione romagnola conferma la decisa inclinazione onnivora con cui vengono affrontati con tratto leggero materiali disparati (caratteristica, questa, riscontrabile anche in diversi brani originali). L’interesse per il jazz emerge dal 9/8 di Blue Rondo à la Turk di Dave Brubeck, dalle sedici sinuose battute – originate da un blues in Do minore – di Stolen Moments di Oliver Nelson, dalle asimmetrie di Monk (Well You Needn’t intersecata con Think Of One) e dalla voce di un tenore che evoca ora Coleman Hawkins e Johnny Griffin, ora Illinois Jacquet e altri solisti più vicini al rhythm’n’blues. La propensione verso il rock si evidenzia in una Alabama Song di Weill in cui la voce di Velliscig si allontana dal rischioso modello di Jim Morrison assumendo quasi coloriture alla Tom Waits; da una Space Oddity di David Bowie un po’ pedissequa; addirittura da una corrosiva Killing In The Name dei Rage Against The Machine. Oltre alla flessibilità della ritmica e alle timbriche distorte, hendrixiane, del violoncello, spiccano la gamma espressiva, l’estensione e la presenza scenica del giovane cantante. Da questi contrasti fra opposti trapela però il dubbio che dietro all’approccio poliedrico del gruppo si nasconda anche la mancanza di un indirizzo preciso.

Quintorigo, foto Angelo Salvin

«The Source» è l’ultimo lavoro di Tony Allen, pubblicato per la Blue Note. Titolo esplicativo, sintomatico, perché se l’intendimento del 78enne batterista nigeriano era attingere a una fonte (source, appunto), l’obiettivo sembra essere stato pienamente raggiunto. Una fonte – quella dei poliritmi e degli schemi chiamata-risposta tipici della musica africana – che si coniuga con le passate esperienze al fianco di Fela Kuti e, dato non trascurabile, con costruzioni e improvvisazioni di matrice jazzistica. Spesso le esecuzioni si sviluppano sulla base degli ostinato del contrabbassista Mathias Allamane, contrastati dalle figurazioni discrete di Allen, sostenuti dal lavoro ritmico-armonico di Jean Philippe Dary (piano e tastiera) e Jeff Kellner (chitarra). Un terreno fertile per Nicolas Giraud (tromba) e Yann Jankielewicz (sax tenore), che tratteggiano potenti linee melodiche in sezione e si ritagliano spazio per assolo concisi ma incisivi. Ne risulta un disegno coerente e compiuto in cui è comunque la coralità del collettivo a prevalere. Una concezione democratica della musica che per associazione evoca, oltre al già menzionato Kuti, lo spirito dei grandi sudafricani espatriati in Inghilterra negli anni Sessanta: Dudu Pukwana, Mongesi Feza, Harry Miller, Johnny Dyani, Chris McGregor, Louis Moholo. Musica come ricerca di libertà.

Tony Allen, foto Angelo Salvin

Dunque, si può trarre un bilancio molto positivo per la 28esima edizione di Udin&Jazz, in virtù della partecipazione di un pubblico piuttosto numeroso e variegato – complice anche la gratuità di molti concerti – e dell’interesse riscosso dagli eventi collaterali. L’edizione 2019 si svolgerà con ogni probabilità in altra località della regione, come annunciato già alcune settimane fa dal direttore artistico Giancarlo Velliscig. Il cambio di amministrazione comunale, a guida leghista con il supporto di CasaPound, rende a suo giudizio impossibile la prosecuzione della manifestazione in una città insignita della medaglia d’oro per la Resistenza.

Enzo Boddi

Tony Allen Group, foto Angelo Salvin