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Rassegna stampa di Federico Fellini

Federico Fellini è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 20 gennaio 1920 a Rimini (Italia) ed è morto il 31 ottobre 1993 all'età di 73 anni a Roma (Italia).

PINO FARINOTTI
MYmovies.it

Primi passi di Federico
La leggenda narra che Federico Fellini sia nato su un treno che correva tra Viserba e Riccione il 20 gennaio del 1920. Qualcuno che si prese la briga di controllare scoprì che proprio quel giorno era in atto uno sciopero dei ferrovieri.
Una fatica che il diligente ricercatore poteva risparmiarsi. La vita di Fellini è talmente sospesa fra realtà e leggenda che nulla sarebbe cambiato. Per una volta, pur in una biografia che dovrebbe recare fatti esatti, il sogno vale esattamente come la realtà, anzi, forse vale di più. Perché c'è di mezzo Fellini.

DANIELE DI UBALDO
MYmovies.it

Federico Fellini è un regista dotato di una capacità visionaria che ha saputo conquistare il pubblico di tutto il mondo. Eppure, dietro i suoi film si avverte la Rimini della sua infanzia (con la rigida educazione religiosa ricevuta in un collegio di frati, l'occhio del provinciale che arriva a Roma, grande metropoli, ma anche quel gusto sarcastico che aveva coltivato collaborando a giornali umoristici dell'epoca, come il "Marc'Aurelio").
L'esordio alla regia arriva con Luci del varietà (1951), firmato insieme ad Alberto Lattuada che, dietro la storia di un gruppo di attori di avanspettacolo alla ricerca di espedienti per sopravvivere, disegna una metafora della condizione italiana del dopoguerra.
Personaggio parallelo all'attore di avanspettacolo è il vuoto eroe da fotoromanzo, alla cui ricerca si muove una giovane sposina arrivata a Roma in occasione dell'Anno Santo ne Lo sceicco bianco (1952), dove la capacità caricaturale di Fellini, trova libero sfogo non solo nel personaggio principale, ma in tutto l'universo, umano e di cose, che gli si muove intorno: i tristi alberghi in cui gli sposini soggiornano, le strade percorse da bersaglieri vistosamente piumati, l'atmosfera fumettistica delle riprese del fotoromanzo sulla spiaggia di Fregene. Si tratta, insomma, di un piccolo concentrato di retorica piccolo-borghese completamente inedito per gli schermi italiani.

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Dalla fine della guerra la borghesia italiana aspettava il suo interprete. Federico Fellini nel 1953, con I vitelloni, dimostrò di volerlo essere: e con una tale precisione e tale una dichiarata intenzione, da imporsi subito all'attenzione non solo della critica ma anche del pubblico; un interprete malinconico e nostalgico naturalmente come malinconica e nostalgica, appunto, è la nostra borghesia, ma anche un interprete cui non dispacciono l'ironia e la beffa, chè anzi puntualmente se ne vale ogni qualvolta malinconia e nostalgia sembrano portarlo troppo in là, verso le soglie pericolose del sentimentalismo e della retorica.
I personaggi dei Vitelloni riflettono il suo stesso animo, il suo identico, ragionato oscillare fra i due opposti sentimenti di allegria e di tristezza: si chiamano « vitelloni » perché così son definiti quei giovani di buona famiglia che, in provincia, passano le loro giornate nell'ozio più completo, dividendo le ore fra il caffè, il biliardo, la passeggiata e la piccola festa mondana. La vita monotona di provincia ha steso su di loro una coltre opaca di noia, li ha velati di un'inconscia tristezza da cui solo emergono per qualche gioco più vago. In genere non sono ancora sposati (il matrimonio trasforma necessariamente il disutile in un uomo su cui pesano responsabilità più precise) è i loro amori hanno sempre il sapore dell'avventura che non lascia tracce, salvo non accada qualcosa di serio. Fellini ce le descrive le loro fisionomie tutte ìn modo definitivo e preciso e -- pur sotto l'eguale angolo visivo dei « vitelloni » - nettamente distinguendole le une dalle altre; un calore umano profondo emana così dai loro casi, una poesia sottilissima e dolce si libra sulle loro vite, viste sempre con una partecipazione commossa che attraverso l'ironia, se non addirittura la satira, sa mutarsi in critica di costume (una critica fraterna, però, che non riprova, ma solamente propone).
Non ci sono scompensi nel racconto e nel ritmo che limpidamente ne dosa l'ampio respiro; né scompensi rivela la regia perché non c'è un solo elemento narrativo - anche il più difficile, anche il più scabroso, anche il più comune - che non sappia esprimere con estrema delicatezza; e con un così vivo pudore (pudore della retorica, delle lacrime, della stonatura, del riso) che ogni qualvolta la misura di una scena o quella di un personaggio sembrano smarrirsi per eccesso, c'è sempre una brusca sterzata in senso contrario a ricostruire l'equilibrio che stava per infrangersi.
E tutto questo in un clima - che è quello cittadino e borghese della provincia italiana - che giunge quasi ad assumere rango fra i personaggi per l'incisività dei suoi termini e la precisione di ogni suo elemento, sia che si tratti di case e piazze notturne o di un veglione di carnevale o di un'alba di Quaresima o di un caffè fuori moda o di un treno che parte o di una spiaggia o di un teatro di terz'ordine.
L'anno dopo, però, ecco Fellini approdare a mete più decisamente poetiche con La strada, un film che, superando la contingenza di un'osservazione realistica, si avviava decisamente e sicuramente verso i regni della fantasia e del simbolo. Gelsomina, infatti, la protagonista, è una ragazzetta incantata, timida e sognatrice che vive tutta chiusa in un mondo dove le « cose che non si vedono » sono per lei più concrete e reali di quelle che si vedono. Un giorno essa diventa la compagna di lavoro di un saltimbanco girovago, Zampanò, che è esattamente il suo opposto: lui crede solo a quello che vede, e in modo animalesco e brutale. Fra quei due esseri, che pure passano le giornate uno vicino all'altro, su un carrozzone di zingari, non è possibile alcuna comprensione; un muro li divide, il muro della materia bruta in cui lo spirito non riesce a far breccia. Gelsomina, però, non si rassegna facilmente al silenzio dell'anima di Zampanò, lei che dietro la faccia d'ogni cosa sente cantare la voce di ben più misteriose realtà, e tenta di comunicare all'altro il suo mondo più vero, ma le sue fatiche sono vane e un giorno sarebbe sul punto di rinunciare a tutto se un altro girovago, uno spiritato funambolo soprannominato « Il Matto », non le rivelasse l'unico segreto che lei ancora non conosceva, quello di se stessa. Come ogni creatura su questa terra, anche lei « serve » a qualcosa - le dice il Matto - e per lei « servire a qualcosa » significa restare vicino a Zampanò, anche se non ne capisce più le ragioni. Gelsomina si fa convincere e rimane, accesa di nuove speranze, ma ecco che di lì a qualche tempo Zampanò, durante una rissa, uccide il Matto. La ragazza crede all'improvviso di perdere la chiave dei suoi mondi segreti e diventa pazza. Zampanò, che non è mai stato colpito dalla saggezza di Gelsomina, è scosso ora dalla sua follia; ne è terrorizzato, anzi a tal segno che a un certo punto scappa via, tutto solo, col suo carrozzone.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Federico Fellini, nell'anno dei suoi settant'anni, ha fatto qualcosa di unico: s'è battuto come nessun altro (e come mai era accaduto prima nella sua vita) nella battaglia per impedire che venisse per legge confermato ufficialmente, definitivamente, inappellabilmente, il diritto da parte delle reti televisive di interrompere con spot pubblicitari i film mandati in onda, e ha perduto; ha raccontato come nessun altro l'Italia contemporanea nel suo film La voce della luna; ha accolto la vecchiaia con elegante malinconia.
Nella sua casa a Roma, in via Margutta, nella mattinata di sole del venti gennaio 1990, arrivavano rose e gigli bianchi troppo profumati, arrivavano telegrammi, telefonate, messaggi, messaggeri. Fellini era seduto nell'angolo del divano, un p0' acciaccato per una piccola malattia, con un plaid sulle ginocchia, diviso tra insofferenza, compiacimento e incredulo divertimento. "Eterni fanciulli, noi corriamo...", diceva il telegramma di Giorgio Strehler, e lui: " Ma non ha due anni più di me?" Festeggiamenti, auguri, biografie, inviti a trarre bilanci d'una esistenza meravigliosamente creativa e dei venti suoi film (più tre film brevi e una co-regia), interviste televisive, complimenti da tutto il mondo, vecchie fotografie e nuovi apprezzamenti, domande, cerimonie anche affettuose mettevano in imbarazzo "le légendaire septuagenaire", come scrivevano i francesi: non per pudore né per la minaccia dell'invecchiare, soltanto perché il suo sentimento del tempo restava l'incredulità.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

"Faccio i film perché mi piace raccontare delle bugie, inventare delle fiabe": così, nel ‘58, Federico Fellini diceva di sé come autore di La strada (1954). E però aggiungeva: "E dire le cose che ho visto e le persone che ho incontrato". Come poi sia possibile conciliare le due cose - abbandonarsi al gusto "fantastico" della bugia e insieme coltivare quello "realistico" dell’esperienza vissuta - è questione attorno alla quale si potrebbe forse ricostruire la poetica felliniana. A proposito di I vitelloni (1953) e La strada - di cui Longanesi ripubblica ora le sceneggiature, insieme con interviste e dichiarazioni dell’autore - il conflitto bugià realtà ha ben modo di manifestarsi. Persino il significato della parola "vitelloni" sfuma nell’incerto confine tra le due dimensioni. Per Ennio Flaiano - coautore della sceneggiatura, con Fellini e Tullio Pinelli -, sarebbe una corruzione di "vudellone", cioé grosso budello e, per traslato, ragazzo cresciuto e perdigiorno, buono a nulla. D’altra parte, Fellini ne dà una diversa interpretazione, ricordata da Irene Bignardi in prefazione: vitellone - cioé la via di mezzo tra manzo e vitello - in Romagna indicherebbe "chi non è più ragazzino ma non ha un’identità ben precisa, un ozioso che non sa bene cosa fare di sé ". E quanto al carattere autobiografico di I vitelloni, a lungo favoleggiato? Fellini stesso lo ha avallato in più d’una occasione: lui, Flaiano e Pinelli - dichiara per esempio in un’intervista del ‘71 - avrebbero raccontato nella più che ricordi di gioventù (soprattutto ricordi riminesi del primo e pescaresi del secondo). E però altre volte sostiene l’opposto: "Io non sono mai stato un vitellone, non posso esserlo stato, non ne ho proprio avuto il tempo. [...! Non li ho nemmeno frequentati, i vitelloni, se devo essere proprio sincero". Lo stesso, in fondo, è accaduto per La dolce vita (1960). Quel film-mito è stato osannato o rifiutato, tre decenni fa, anche in rapporto allo scandalo del suo asserito autobiografismo. Eppure, sembra che, nella via Veneto d’allora, Fellini si vedesse poco o nulla (lo hanno ricordato, nell’84, Enrico Lucherini e Matteo Spinola nel loro "pettegolo" C’era questo, c’era quello, Mondadori). Di La strada, poi, per anni si è ripetuto che rispecchiasse la complessità psicologica del suo autore. Il quale, per di più, lo ha spesso indicato come il suo film "più autobiografico". Zampanò sarebbe ora "un uomo che conobbi in un circo, quando avevo quindici anni", ora "un castraporci che calava ogni tanto su Gambettola, dove aveva casa mia nonna Franscheina, e dove io passavo le mie vacanze [...!, una specie di uomo nero, con una parannanza piena di sangue che terrorizzava le donne, e di cui le bestie per alcuni giorni presentivano l’arrivo lasciando strida altissime", ora invece un tale incontrato dalle parti di Viterbo, durante una passeggiata in auto con Giulietta Masina. E la Masina - in una versione "autentica" ancora diversa - sarebbe poi la vera origine del film: quella "favola crudele", infatti, sarebbe nata "su Giulietta, su quello che Giulietta mi suggeriva, su quello che mi ispirava e mi faceva immaginare con il suo talento di attrice comica, di clown". Una dichiarazione, questa, che almeno ha il vantaggio di legare con un’altra, analoga, relativa a I vitelloni, a questo film "autobiografico" pieno di bugie, i cui personaggi in effetti sarebbero stati per buona parte "inventati sugli attori, cuciti addosso a loro". In ogni caso, secondo la consolidata tradizione interpretativa - ricorda la Bignardi -, in La strada sarebbero state direttamente trasferite le "tre facce" di Fellini, cioé la sua "realtà interioreoneria di Gelsomina, la "bestialità " di Zampanò ". Ai fanatici cultori della fellinologia, certo, ben poca impressione può fare l’osservazione che, alla fine, il film non ha un solo autore, essendo stato scritto da Fellini più Flaiano più Pinelli. Dunque, che dire del conflitto bugia-realtà del cinema felliniano? Forse, che per la nostra intellighenzia cinematografica un autore non è tale se non "rispecchia" almeno un briciolo di realtà. Essa - per dirla con Fellini - è probabilmente vittima dell’"equivoco" che "nasce dal fatto che si pensa che il cinema sia una cinepresa piena di pellicola e una realtà, fuori, già pronta per essere fotografata". Finito il neorealismo - che da grande poetica si fece molto presto ossuta e rigida ideologia -, quell’intellighenzia andò alla ricerca di un qualche sostituto. Imbattutasi in Fellini e nel suo irrealismo, dapprima si scandalizzò. Alla mostra di Venezia - ricorda la Bignardi - La strada gli costò l’imputazione infamante di capocordata del "cinema spiritualista". Sergio Amidei lo accusò di tradire il neorealismo e Cesare Zavattini di abbandonare la realtà per inseguire "brumose e decadenti fantasticherie". E qualcuno arrivò addirittura a chiedere: "Dov’era Zampanò, mentre si combatteva la guerra partigiana?". Ma poi, di fronte alla pervicace pratica felliniana del cinema-menzogna in opposizione al cinema-verità, quella stessa intellighenzia si consolò immaginando che, almeno, si avesse a che fare con un realismo dell’anima, con un autobiografismo rassicurante. E se invece il miglior Fellini fosse proprio un "mentitore", un sublime mentitore che dalla "realtà ", anche dalla propria realtà psicologica e dalla propria memoria, si limita a trarre grezzo materiale per costruire un mondo inventato e irreale? Che davvero, per lui, il cinema non sia che "un pretesto per mettere le cose in movimento", come in un gran circo in cui si mescolano tecnica e improvvisazione, memoria e invenzione? "Il mestiere di regista - si legge nel suo Block-notes di un regista (Longanesi, 1988) - è un modo di fare concorrenza al Padreterno. Nessun altro mestiere consente di creare un mondo che assomiglia così da vicino a quello che conosci, ma anche agli altri sconosciuti, paralleli, concentrici".

GAETANO AFELTRA

Con Fellini c’era una vecchia amicizia nata dalla comune attività giornalitica, poi rinsaldata negli anni d’oro dei vecchio Rizzoli, quando il Commenda, che faceva quattrini con i suoi film, lo chiamava il Gran Maestro e aveva con lui un modo di fare fra l’ironico, il paternalistico e il furbesco, un miscuglio di confidenza e di rispetto. Ma prima di arrivare a un accordo, c’era da parlare, parlare perché qualsiasi cosa si proponesse a Rizzoli la risposta era sempre: «Mi lasci riflettere». Poi c’era da fare una buona colazione insieme (in genere rigatoni saltati al pomodoro, cotoletta alla milanese, patatine e insalata, frutta e caffè) nella palazzina di fronte alla grande sede della casa editrice. Con quel suo filino di voce e la mole di gigante buono di provincia, Fellini incantava Rizzoli: gli raccontava storie, mescolava verità e bugie, fantasia e realtà, inventava. Il Commenda si divertiva. Da lui accettava tutto, anche la caricatura della sua persona. Le sue idee lo affascinavano. «Tutte cose strampalate» diceva Rizzoli. «Mi capissi minga, ma quand i vedi me piasen». Tutto questo mi tornò in mente quando feci visita a Federico Fellini malato nell’ospedale «San Giorgio» di Ferrara, un pomeriggio di fine settembre 1993 (il grande regista morirà poi a Roma, all’età di settantatré anni, il 31 ottobre dello stesso anno). Mi trovavo a Ferrara per il Premio Estense e recandomi in ospedale non pensavo neppure di poter vedere Fellini: non volevo disturbarlo, ma lasciargli solo un biglietto di augurio e di saluto. Era un sabato e dalle rare macchine che passavano si capiva che l’estate era finita: non c’erano le code per i Lidi Ferrarcsi. Attaccai a parlare con l’autista: «È un ospedale con molti reparti?» chiesi. «No. Prima era un posto per lunghe degenze, da una decina d’anni è adibito solo alla riabilitazione. Ci vengono da tutta Italia. Entrano in barella ed escono a piedi». Mi parve una bella risposta, come auspicio per Fellini. Al mio arrivo al «San Giorgio» la prima sensazione fu di un’oasi di pace. Un edificio né vecchio né moderno, gradevole, come una villa fine ‘800, a due piani, circondato da giardini fioriti e dal silenzio. Mi venne incontro una ragazza, parente della Masina, bella, gentile e minuta, Le dissi che volevo solo fare avere a Fellini un biglietto. «So che ha bisogno di tranquillità, non chiedo di vederlo. Mi dia piuttosto notizie. Come sta? Dorme, legge, si nutre volentieri? Guarda la televisione?». «Niente tivù, in camera non l’ha voluta. Ma ha voluto il telefono, Scrive soprattutto». Mi avviai per uscire, Ma un attimo dopo la parente della Masina, che doveva avergli consegnato il biglietto, mi chiamò: «Fellini dice di entrare. Stia poco, però».

PIETRO BIANCHI

Il successo in Francia del Bidone di Federico Fellini, successo dovuto soprattutto a una critica che in certi casi afferma essere l’ultimo film superiore alla Strada, può incoraggiare al riesame di un’opera straordinariamente interessante che non ha ottenuto in Italia, secondo noi, i consensi che meritava.
Il film è prima di tutto la storia di Augusto, un piccolo imbroglione invecchiato fra meschine truffe, ladrerie dozzinali, e intere stagioni passate col batticuore nel timore della polizia o dei possibili riconoscimenti delle vittime. Quando Il bidone ha inizio, il protagonista, in compagnia di un cinico farabutto di bell’aspetto, Roberto, e di «Picasso», un pittorello che s’arrangia per tirare avanti la famigliola, trae in inganno, con una variante della classica truffa all’americana, una famiglia di contadini. In abiti ecclesiastici, giunge in un cascinale con i compagni e si dice latore di un messaggio raccolto in confessione da un morente; scopre un falso tesoro e si fa consegnare, per le messe di suffragio della povera anima, mezzo milione.
Malgrado il successo di qualche colpo, Augusto sente tuttavia scontento di sé, scontento che si muta in disprezzo quando incontra casualmente un ex-collega, un «dritto», che s’è fatto ricco con imbrogli su grande scala. Un giorno che egli ha accompagnato al cinema la figlia adolescente che vive separata da lui con la mamma, e non sa nulla della sua sciagurata esistenza, incoccia in un tale che ha truffato e che lo fa arrestare sotto gli occhi della ragazzina sgomenta. Quando esce non trova più i vecchi amici: Roberto s’è sistemato, «Picasso», il pittorello, ha ritrovato la via dell’onestà. Ora Augusto si intruppa con altri manigoldi: per mettere in opera la solita truffa dei tesoro, capita adesso in un casolare isolato in montagna. La trappola scatta ancora una volta; ma prima di andarsene con il malloppo, Augusto viene a sapere che il denaro doveva servire per la figlia del contadino, un povero essere paralizzato. L’imbroglione subisce uno «choc», pensa alla figlia sua che deve smettere gli studi perché senza mezzi e cerca allora di tenersi per sé il denaro dei raggirati. Nasce una zuffa; con la colonna vertebrale spezzata, abbandonato come una bestia rognosa, l’infelice agonizza a lungo; ha tempo così di riflettere sui lunghi giorni di un’esistenza mal spesa.

SERGIO DONATI

(Agosto 1993) Ieri sera ho incontrato Leo Pescarolo, il produttore che avrebbe dovuto iniziare il 15 settembre la pre-produzione del prossimo progetto di Fellini. L'ho trovato molto preoccupato, e non solo per i problemi finanziari provocati dal rinvio sine die del film: il maestro sta veramente male, non dà segni di miglioramento. “Povero Federico” m'ha detto, “Sono sicuro che preferirebbe morire piuttosto che rimanere un invalido, lui così vivo, irrequieto, curioso.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Nel panorama del cinema italiano occupa una posizione centrale, simbolo di fantasia e di leggerezza, di umorismo dispettoso, di sentimentalismo. Solo lui possiede, tutte insieme, queste doti. Nasce in provincia da una famiglia borghese (padre rappresentante di commercio, madre casalinga), ha poca voglia di studiare (lo mandano dai preti), sa soltanto disegnare. Se ne va di casa, sosta a Firenze, per frequentare Aldo Palazzeschi, raggiunge Roma, disegna vignette per il settimanale satirico Marco Aurelio, evita il servizio militare e si ritrova sbandato e allegro in una città che affronta seraficamente il dopoguerra. Esegue caricature ai soldati alleati, conosce Aldo Fabrizi, lo segue in qualche giro della sua compagnia di varietà. Rossellini lo invita a partecipare alla sceneggiatura di Roma città aperta e di Paisà. Nel 1951, mettendo a frutto l'esperienza fatta con Fabrizi, offre a Lattuada il soggetto per Luci del varietà e ne diventa co-regista.

MARIO SOLDATI

Non ho ancora visto il film di Fellini. Perché? Ebbene, lo confesso: per invidia: perché ho paura che mi piaccia troppo, che sia troppo bello.
D'altra parte, pochi sentimenti mi amareggiano e mi avviliscono come l'invidia. So benissimo che cosa mi capiterà quando lo vedrò. Ho già fatto l'esperienza in casi simili. Quando lo vedrò, non capirò niente: non del film, ma di me stesso, delle mie reazioni al film. Non riuscirò a dirmi se mi piace o non mi piace. Non riuscirò ad accorgermi se mi diverto o se mi annoio. E dirò poi a tutti (non soltanto a Fellini) che è meraviglioso, che è sublime, che mi sono commosso, che ho pianto, che ho urlato di gioia, eccetera. E farò tutte queste lodi non per ipocrisia, no, lo giuro! Ma soltanto per colmare nel mio cuore il vuoto angoscioso che temo vi possa scavare l'invidia.
L'unico modo, infatti, di non invidiare (e quindi di non soffrire) è di lodare: sì, lodare il rivale, lodarlo, ammirarlo senza limiti, addirittura amarlo! Se poi, col passar degli anni, questo entusiasmo resiste, tanto meglio: avevamo avuto occhio e avevamo avuto cuore. Se invece crolla, tanto meglio lo stesso: il rivale non meritava le nostre lodi, non avevamo avuto occhio, ma un cuore ancora più grande!
Dirò che 8 e mezzo è bellissimo per paura che l'invidia me ne abbia celato l'eventuale o probabile bellezza. Tra colleghi o tra affini è impossibile essere sereni. E del resto, non farò che imitare, dopo tanti anni, lo stesso Fellini; il quale, un giorno lontano, quando non era ancora regista ma soltanto apprendista-sceneggiatore, dopo aver letto un mio copione (di un film che poi non feci), mi abbracciò e mi baciò e pianse sulle mie spalle. Era sincero? Certo che lo era. Qualunque cosa; ma il morso dell'invidia, no.
[…] L'anno scorso, quando 8 e mezzo uscì, scrissi che esitavo ad andarlo a vedere e che la causa di questa esitazione era l'invidia, o, piuttosto, la paura dell'invidia.
Che cos'è l'invidia? È la tristezza o il dolore che provano alcuni al vedere l'altrui bene, l'altrui felicità. Invidia è anche il rallegrarsi dell'altrui male. Nell'uno e nell'altro caso, non esiste per me al mondo sentimento più melanconico, più vergognoso. Ogni volta che sono sfiorato dall'ala fredda e vellutata dell'invidia, provo un brivido: mi sembra quasi di accartocciarmi su me stesso: mi sento debole, impotente, sconfitto: mi riconosco sciocco e presuntuoso per avere creduto di essere molto maggiore di quanto in realtà non sono, per avere sperato, illudendomi, di firmare un giorno opere completamente al di là della mia capacità creativa. A questo brivido gelido e morbido succede, un istante dopo (solo un istante: ma ben distinto, ben separato!), una sensazione contraria, che compensa e consola: qualcosa di tepido, solido e scabro: il piacere di constatare (o di credere di constatare) che il bene altrui, da cui il primo momento mi ero escluso, in realtà non esiste, oppure non è quel gran bene che immaginavo. E godo, allora... godo, no: sto per godere del male altrui, o dell'altrui minor bene: se non che, a un terzo istante (anche questo ben distinto e separato dal secondo e dal primo), mi dico che tale godimento sarebbe artificiale, falso, miserabile: simile in tutto alla povera pace e alla sconsolata voluttà degli stupefacenti, cui è vergognoso ricorrere a meno che il nostro organismo non possa più sopportare un dolore.

GIAN PIERO BRUNETTA

«Al di là di un'unità certo indiscutibile, che gli viene dall'enorme e singolare personalità creatrice del suo autore, l'opera di Federico Fellini, considerata oggi, presenta al centro una rottura non meno indiscutibile». L'osservazione di Amengual ci consente di riprendere il discorso su Fellini dalla Dolce vita, ponendoci il problema dell'identità, dell'analogia e della differenza nel suo sistema espressivo. La rottura significa per il regista possibilità improvvisa di scoprire, con assoluta libertà e felicità inventiva, un tipo di cinema finora appena intuito e comunque represso dalla produzione.
Il discorso critico non riesce, neppure in minima parte, a dar ragione del clima trascinante ed esaltante, dell'avventura irripetibile vissuta dal regista e dalla troupe nel periodo che, a giudizio pressoché unanime, appare come il più creativo di tutta la carriera felliniana. D'altra parte non si vuole qui aggiungere nulla a quanto già detto in un capitolo precedente, ma solo partire da osservazioni marginali per ristabilire il contatto con l'autore.
Diciamo pure che, con La dolce vita, Fellini scopre e inventa una forma di epica cinematografica di cui, in seguito, apparirà come il cantore più imitato e difficilmente ripetibile. Da un momento all'altro egli si sente liberato dai complessi nei confronti del super ego della critica, per cui si lascia guidare dal proprio immaginario, armando tutte le vele, che per anni era stato costretto a orzare per la miopia dei produttori. La sua navigazione assume subito un andamento maestoso.
Quello che è certo e subito palese alla critica è che il modello e l'idea di cinema, verso cui Fellini punta, sono situati in un emisfero posto agli antipodi del cinema neorealista, ancora considerato, come si è detto, punto fondamentale d'orientamento.
Da qui una ripresa di vis polemica ad ampio spettro che vale la pena di rievocare anche per restituire, sia pure con frammenti minimi, le condizioni in cui l'opera di Fellini si muove sia nei confronti dell'accoglienza italiana che di quella internazionale. Scandagliare la critica felliniana dagli anni Cinquanta agli anni Novanta o anche semplicemente soffermarsi sulle reazioni a questo film, può dare risultati imprevedibili, comparabili con quelli di un esame spettrografico a organi che presiedono a funzioni morali, estetiche, ideologiche, sociali, politiche e avere l'effetto di un viaggio doloroso di scoperta di connessioni tra voci in apparenza distanti e difformi, di utilizzazioni nella concorde azione destmens di comuni procedimenti retorici, forme lessicali, sintagmi che imprevedibilmente, ahimè, affratellano nella stessa vis polemica e volontà distruttiva, nella stessa ottusità visiva, e nella stessa indignazione morale o ideologica, sia pure a fini diversi, i giudizi di un grande italianista come Luigi Russo e quelli di un poeta e letterato come Franco Fortini, quelli dell'onorevole Macrì, che risponde a un'indignata interrogazione alla Camera dei deputati, con quelli del Centro Cattolico Cinematografico o del critico del giornale di parrocchia, con le lettere che incitano gli organi giudiziari a intervenire ravvisando più situazioni suscettibili di denuncia e oltraggi alla religione e a varie autorità.

GIAN PIERO BRUNETTA

Dopo il 1960, come osserva in un capitolo fondamentale del suo studio su Fellini Peter Bondanella, il regista abbandona ogni reale interesse per la rappresentazione mimetica della vita quotidiana e decide di entrare più decisamente nel proprio mondo interiore inserendo degli elementi onirici all'interno di una struttura metacinematografica. Da questo momento uno dei fondamenti della poetica neorealistica, la tendenza a far coincidere il reale con il visibile, viene tranquillamente superato: il visibile si può aprire a dimensioni molto più vaste del reale e la macchina da presa si situa sulla linea di confine della realtà tentando sconfinamenti sempre più regolari.
Il suo cinema - più di quello di qualsiasi altro regista italiano - è biologicamente legato alla sua esistenza, ne segue i ritmi e le trasformazioni. La dolce vita e (1963) ne rappresentano la fase esistenziale e creativa solare e meridiana, mentre, a partire da Toby Dammit (1967), breve episodio tratto da una novella di Edgar Allan Poe, fa la sua prima apparizione la morte, evento casuale, ma possibile, da cominciare a iscrivere nel cerchio narrativo e a ospitare in maniera sempre più ricorrente.
Intanto, a partire dalla Dolce vita e in misura maggiore con , nonostante la critica tenti in vario modo e da varie parti di ridurne il ruolo e di ridimensionarlo, smascherandone la falsità, i limiti culturali e ideologici, ecc., la fama del regista cresce e si consolida in tutto il mondo, dal Giappone all'Australia, dagli Stati Uniti alla Patagonia. Le monografie pubblicate nel mondo su di lui non si contano, eppure la sua opera continua a dar l'impressione di attraversare la storia del cinema contemporaneo come un unidentified object. C'è, nel suo lavoro, un margine di senso che cresce spontaneamente a contatto col pubblico e che nessun altro regista è capace di produrre in maniera analoga. Ciò che resta oscuro non è dunque tanto il senso dei suoi messaggi quanto la produzione del senso nei confronti dei destinatari. Le stesse reazioni della critica sono sempre sottodimensionate, ma sembra quasi impossibile assumere un punto di vista neutro o equidistante. Fellini è un narratore che affida il racconto ai personaggi, eppure non resta mai in ombra: la sua presenza è implicita così come forse altrettanto implicita è la presenza del destinatario, che può riconoscersi e identificarsi in qualsiasi ruolo all'interno del film.
Il lavoro di Fellini, pur così individualistico, ha necessariamente a che fare con fenomeni tuttora non indagati nella memoria collettiva: questa potrebbe essere una linea di ricerca e di indagine possibile delle ragioni del suo successo.
Nell'ultima fase della sua produzione, che inizia alla fine degli anni Sessanta, giunge per lui il tempo dei bilanci, delle sintesi di vita e di una interrogazione nuova sul significato dell'esistenza. Il tema, dai margini del discorso, occupa il centro della scena in Casanova e nella Città delle donne. L'autore e l'eroe e soggetto dell'azione del film, in genere suo alter ego, o suo doppio, tirano le fila e redigono i primi bilanci, a partire dal momento in cui si sentono abbandonare dai flussi vitali.
L'immagine felliniana, negli ultimi decenni, si è venuta incupendo poco alla volta, riempiendosi di paesaggi nebbiosi, notturni, di apparizioni spettrali, di senso di disfacimento di tutte le apparenze del visibile. Il disfacimento osservato nella Dolce vita era, in qualche modo, mascherato da un'apparenza di giovinezza e fisicità ancora integra. Già nel Satyricon il sistema è rovesciato: sotto la maschera dei personaggi, i volti di gesso, il regista rintraccia le zone più oscure e i personaggi si immettono, direttamente e senza possibilità di equivoco, in un mondo in pieno sfacelo, alle soglie dell'apocalisse.
L'opera chiave di tutta questa fase è : Fellini vi definisce una struttura, raggiunge un ritmo e organizza i diversi piani in un perfetto equilibrio reciproco interno, con un procedere progressivo verso il caos e il massimo di entropia e con l'improvvisa e quasi magica capacità di riordinare gli elementi e trovare la chiave per ricongiungere i fili sparsi e incomprensibili del reale e del vissuto.

UGO CASIRAGHI

Dieci anni fa, esattamente il 10 dicembre del 1976, Il Casanova di Federico Fellini (tale il suo titolo completo) iniziava il suo cammino nelle sale cinematografiche italiane. Il successo di pubblico non risultò pari alle attese (così più tardi in Europa e soprattutto in America) e la critica si divise ovunque nelle valutazioni. Fu una delle opere più controverse di Fellini, ma in genere i dissensi sopravanzarono gli entusiasmi. A noi personalmente li Casanova piacque allora e continua a piacere anche oggi. Vale forse la pena di ripresentarlo ai lettori come se fosse una novità.
I film troppo chiacchierati dall'autore rischiano sovente di apparire diversi allo spettatore. A Fellini piace sempre scherzare e bisogna stare attenti a non prenderlo in parola. In questo caso egli ha voluto accreditare l'immagine di un Casanova che visceralmente e moralmente gli ripugnasse, di un uomo provvisto di tutti i vizi e i difetti dell'italiano medio qualunquista e cialtrone, di uno scrittore noioso, millantatore e illeggibile.
Bene, è venuta fuori un'altra cosa o, meglio, due cose: un personaggio inserito nel suo tempo storico più di quanto fosse lecito attendersi dall'artefice di un film come il Satyricon, e insieme un personaggio proiettato emblematicamente nell'oggi, come dal racconto che cercheremo di fare delle sue avventure cinematografiche, sarà forse possibile arguire.
Tra questi due aspetti c'è probabilmente più contrasto che saldatura; e come sempre accade di fronte a un film di Fellini affetto da gigantismo, può darsi che lo spettatore ne esca più sbalordito che illuminato, più frastornato anche in senso ammirativo, che convinto. In ogni caso l'antipatia conclamata e la presunta insofferenza si sono trasformate, sullo schermo, in comprensione e in plastica resa, tanto che Donald Sutherland nei panni dell'eroe è ben lontano dall'esibizione, tutto sommato monocorde, che aveva dato del fascista in Novecento di Bertolucci; e bisogna pur dire che se il Casanova non è autobiografico come altri film di Fellini, poco ci manca, perché non soltanto vi si ritrovano molti dei suoi motivi (e come sarebbe possibile altrimenti?), ma si ha perfino una sorta di identificazione, necessaria al suo stesso stile, sulla quale tenteremo di gettare qualche luce. Ma intanto crediamo sia utile sapere con precisione che cosa racconta questo Casanova e anche, almeno nei limiti del possibile, «come» lo racconta.
Mai come in quest'opera tra le sue più costose, un regista quale Fellini ne ha stravolto la rutilante impalcatura miliardaria in una «visionarietà stralunata» (la definizione è di suo pugno, e questa volta corrisponde al vero), la quale si trasfigura in una serie virulenta e delirante di quadri eccessivi, quale più e quale meno riuscito, legati da un filo tenuissimo, ma che tutti insieme conducono a una sublimazione magari anche sgangherata, eppure quasi sempre potente e spesso geniale, del personaggio e della sua cornice, intendendo per questa e per quello non soltanto il Settecento, che è evidentemente una metafora, ma i tempi nostri e un archetipo nostrano.

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