Federico Fellini è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 20 gennaio 1920 a Rimini (Italia) ed è morto il 31 ottobre 1993 all'età di 73 anni a Roma (Italia).
Primi passi di Federico
La leggenda narra che Federico Fellini sia nato su un treno che correva tra Viserba e Riccione il 20 gennaio del 1920. Qualcuno che si prese la briga di controllare scoprì che proprio quel giorno era in atto uno sciopero dei ferrovieri.
Una fatica che il diligente ricercatore poteva risparmiarsi. La vita di Fellini è talmente sospesa fra realtà e leggenda che nulla sarebbe cambiato. Per una volta, pur in una biografia che dovrebbe recare fatti esatti, il sogno vale esattamente come la realtà, anzi, forse vale di più. Perché c'è di mezzo Fellini.
La madre, Ida Barbiani, sta in casa; il padre, Urbano, (rappresentante, di commercio, tratta un po' di tutto, dai laterizi agli alimentari). Poco più tardi nascerà il fratello, Riccardo, e poi, nel 1929, Maddalena. Come si dice, la famiglia sta bene", in casa non manca nulla. La vita di Federico, fin primi anni, naturalmente, non è di grandi stenti. C'è la percezione che il papà non c'è quasi mai, è in giro per lavoro. Presente e, invece, la mamma, per fortuna, si direbbe a posteriori. E poi c'è la nonna, che Federico definirà sempre la sua "vera eroina".
La mamma è fantasiosa, è lei che insegna a Federico come usare la matita e i pastelli. Le prime sensazioni, diciamo, artistiche nascono grazie ai fumetti. Rapporto assolutamente decisivo, se è vero che la matrice principale dei personaggi dei film futuri è proprio quella. I grandi riferimenti del piccolo Federico sono Little Nemo, disegno americano, un trasformista che poteva essere altissimo e minuscolo, accompagnato da uno Zulu vestito da poliziotto, gran fumatore di sigaro, e Flash Gordon. Fellini ha sempre detto: "Da ragazzo Hash era il mio eroe, ed e sempre rimasto tale".
Un ragazzo di provincia
A sette anni Federico viene portato al circo. Ed è una vera esplosione d'amore. Un anno dopo il bambino segue la compagnia di un circo e passa un'intera giornata con i clown. Quando viene riportato a casa si aspetta un rimprovero, ma la mamma sembra capire. Federico quella sera si vede assegnare una specie di lasciapassare artistico da sua madre che adora. Il circo, dunque, la fantasia saranno liberi di far parte della stia vita.
Erano quelli gli anni del fascismo che imponeva alcune regole famigliari fatte apposta per essere rifiutate dal pur piccolo Federico: la scuola, la chiesa e la casa. Tutto appiattito, programmato, senza fantasia. Lui ama i film, il circo, la cucina. A scuola non è bravissimo. Al liceo arranca, ha idee troppo personali, si adegua dolorosamente a quelle degli insegnanti.
Un altro incontro fondamentale, anzi decisivo ed esclusivo, è quello col Fulgor, la sala cinematografica. E lì naturalmente Fellini scopre il suo mondo, e con esso la voglia di lavorare con la fantasia e la voglia di fuggire. L'agosto del 1936 è un'altra data molto importante, quella del primo, visibile suggello artistico. Federico ha disegnato alcune caricature di amici al campeggio di Verrucchio, che vengono successivamente pubblicate su un giornalino giovanile di Rimini. È la prima "firma" di Fellini.
Un artista ha bisogno di riconoscersi. E quei disegni rappresentano davvero, per Federico, il primo dato di esistenza: ha fatto qualcosa. E succede anche che qualcuno si accorga di lui: ed è il secondo passo, importante quasi come il primo.
Il proprietario del cinema Fulgor, un altro personaggio che troverà un posto importante nella memoria artistica del futuro regista.
Federico Fellini è un regista dotato di una capacità visionaria che ha saputo conquistare il pubblico di tutto il mondo. Eppure, dietro i suoi film si avverte la Rimini della sua infanzia (con la rigida educazione religiosa ricevuta in un collegio di frati, l'occhio del provinciale che arriva a Roma, grande metropoli, ma anche quel gusto sarcastico che aveva coltivato collaborando a giornali umoristici dell'epoca, come il "Marc'Aurelio").
L'esordio alla regia arriva con Luci del varietà (1951), firmato insieme ad Alberto Lattuada che, dietro la storia di un gruppo di attori di avanspettacolo alla ricerca di espedienti per sopravvivere, disegna una metafora della condizione italiana del dopoguerra.
Personaggio parallelo all'attore di avanspettacolo è il vuoto eroe da fotoromanzo, alla cui ricerca si muove una giovane sposina arrivata a Roma in occasione dell'Anno Santo ne Lo sceicco bianco (1952), dove la capacità caricaturale di Fellini, trova libero sfogo non solo nel personaggio principale, ma in tutto l'universo, umano e di cose, che gli si muove intorno: i tristi alberghi in cui gli sposini soggiornano, le strade percorse da bersaglieri vistosamente piumati, l'atmosfera fumettistica delle riprese del fotoromanzo sulla spiaggia di Fregene. Si tratta, insomma, di un piccolo concentrato di retorica piccolo-borghese completamente inedito per gli schermi italiani.
Nel film successivo, I vitelloni, Fellini torna a Rimini per farne l'immagine simbolo della provincia italiana della metà degli anni Cinquanta, dove la vita si consuma in piccoli riti che hanno sempre i soliti scenari: il bar, la spiaggia, il biliardo, il piccolo cinema. L'impianto narrativo, strutturato sull'indagine parallela di cinque personaggi, sembra studiato per rimarcare il distacco - doloroso ma necessario - dalla realtà descritta. L'epilogo del film chiarisce il perché: Moraldo, quello che rappresenta nel gruppo di "vitelloni" l'anima cosciente, alla fine, senza saluti o giustificazioni, prende un treno alla volta di una destinazione ignota. Quel contesto provinciale capace di uccidere ogni velleità e aspirazione, è troppo stretto per esprimersi, per uscire dalla routine. Costringe a fuggire, per arrivare in un luogo dal quale il paesaggio lasciato, sarà il regno della memoria e della fantasia. Il luogo di Amarcord (1973), il territorio fantastico dove Fellini torna per riconciliarsi con quel mondo lontano. É in questa dimensione indistinta - le "manine" che annunciano l'arrivo della primavera o la copiosa nevicata che segna l'inizio della stagione fredda, il ricordo della "Mille Miglia" tutto appoggiato sui rumori delle macchine sfreccianti, il passaggio del Rex o l'apparizione improvvisa di un pavone - che l'autore trova il suo registro migliore, che è quello del tempo perduto, dell'infanzia sparita, della riappacificazione con la terra natia. Quando Fellini va oltre questo seminato, quando in modo innaturale rispetto alla sua indole, si avventura nella contestualizzazione storica - gli anni Trenta, quelli del regime - appare meno convincente.
La grandezza di Fellini infatti non risiede nell'analisi della società. Anche le sue ultime apparizioni lo confermano: La voce della luna (1991), geniale nella capacità di inventare personaggi fantastici che si muovono in ambienti perduti, mostra alcuni limiti nel fissare in immagini i pericoli d'invadenza che a questo "piccolo mondo antico", arrivano da una società chiassosa e materialista. Il contrasto, infatti, viene espresso in maniera retorica: il simbolo di questo nuovo che avanza è sintetizzato con l'immagine delle luci accecanti e dei rumori assordanti di una discoteca all'aperto, che appare all'improvviso sotto gli occhi sconcertati dei due protagonisti che vagano in una buia pianura.
Le immagini più belle e toccanti, Fellini le costruisce quando guarda dentro di sè, per descrivere ansie, crisi d'ispirazione, per cogliere lo specchio della realtà, riflesso dalla sua fantasia surrealista. Non è un caso allora, che il suo capolavoro sia 8 e mezzo (1963), dove per la prima volta, senza lo schermo di personaggi autobiografici, si mette direttamente in scena, svuotando anche gli angoli più nascosti della sua fantasia, in una carrellata senza sosta di immagini, volti, apparizioni, che uniscono in una sola dimensione il livello reale con quello onirico. L'espediente narrativo è la raffigurazione del dubbio che angustia un regista cinematografico alla ricerca, davanti alla nuova opera da realizzare, degli errori del passato: le inibizioni dell'infanzia, il rapporto poco dialettico con il padre, la rigidità dell'educazione cattolica, le idealizzazioni fantastiche. Questo universo è anche ciò che il protagonista-regista vorrebbe mettere in scena nel suo prossimo film e che non riesce ad organizzare. Si assiste in pratica alla storia di una difficoltà, quella di realizzare un film come si vorrebbe. E in questo gioco di specchi, di film nel film, di realtà che assume le sembianze della finzione, c'è tutta la magia di8 e mezzo.
Se con questa pellicola il nome di Fellini divenne sinonimo di cinema incomprensibile, la popolarità e la fama il regista riminese l'aveva già raggiunta qualche anno prima, nel 1960, con La dolce vita con cui egli si introduce negli ambienti che contano della capitale, "miracolati" dal boom economico, per descrivere il vuoto lasciato dal crollo di vecchi ideali a contatto con l'euforia del benessere.
Fellini tornerà a guardare Roma in altre due occasioni. Prima nel 1969 con Satyricon, dove cerca di ricostruire le radici di alcuni modi comportamentali contemporanei attraverso gli stili di vita di epoche lontane. Poi nel 1972 con Roma, album di ricordi e appunti, anche molto distanti tra loro. C'è l'immagine della città eterna, sede della cristianità, c'è la magniloquenza esagerata del fascismo, gli "anni ruggenti" con le case chiuse, oppure la grazia di una casa dell'antica Roma venuta alla luce durante i lavori di scavo per la costruzione della metropolitana, o infine le immagini di traffico, di invivibilità della situazione attuale, dove spuntano (è la scena finale) figure violente che, in abiti di pelle, sfrecciano nella notte su moto potenti. Malgrado questo respiro paradossalmente realistico - che chiarisce la realtà deformandola vistosamente - il film è tutto girato in studio, con l'uso di enormi scenografie di cartapesta. Una scelta questa che diverrà caratteristica del cinema di Fellini degli anni Settanta e Ottanta, quando fondali e metafore debordanti servono a nascondere, insieme ad una narrazione visionaria, le sensazioni e soprattutto le paure che riserva l'attualità. Un'immagine emblematica di queste visioni preoccupanti è presente ne L'intervista (1986) quando, un'intera troupe cinematografica, regista compreso (interpretato dallo stesso Fellini), rimane vittima di una sorta di assalto "alla diligenza", dove però gli invasori sono armati di antenne televisive.
Dalla fine della guerra la borghesia italiana aspettava il suo interprete. Federico Fellini nel 1953, con I vitelloni, dimostrò di volerlo essere: e con una tale precisione e tale una dichiarata intenzione, da imporsi subito all'attenzione non solo della critica ma anche del pubblico; un interprete malinconico e nostalgico naturalmente come malinconica e nostalgica, appunto, è la nostra borghesia, ma anche un interprete cui non dispacciono l'ironia e la beffa, chè anzi puntualmente se ne vale ogni qualvolta malinconia e nostalgia sembrano portarlo troppo in là, verso le soglie pericolose del sentimentalismo e della retorica.
I personaggi dei Vitelloni riflettono il suo stesso animo, il suo identico, ragionato oscillare fra i due opposti sentimenti di allegria e di tristezza: si chiamano « vitelloni » perché così son definiti quei giovani di buona famiglia che, in provincia, passano le loro giornate nell'ozio più completo, dividendo le ore fra il caffè, il biliardo, la passeggiata e la piccola festa mondana. La vita monotona di provincia ha steso su di loro una coltre opaca di noia, li ha velati di un'inconscia tristezza da cui solo emergono per qualche gioco più vago. In genere non sono ancora sposati (il matrimonio trasforma necessariamente il disutile in un uomo su cui pesano responsabilità più precise) è i loro amori hanno sempre il sapore dell'avventura che non lascia tracce, salvo non accada qualcosa di serio. Fellini ce le descrive le loro fisionomie tutte ìn modo definitivo e preciso e -- pur sotto l'eguale angolo visivo dei « vitelloni » - nettamente distinguendole le une dalle altre; un calore umano profondo emana così dai loro casi, una poesia sottilissima e dolce si libra sulle loro vite, viste sempre con una partecipazione commossa che attraverso l'ironia, se non addirittura la satira, sa mutarsi in critica di costume (una critica fraterna, però, che non riprova, ma solamente propone).
Non ci sono scompensi nel racconto e nel ritmo che limpidamente ne dosa l'ampio respiro; né scompensi rivela la regia perché non c'è un solo elemento narrativo - anche il più difficile, anche il più scabroso, anche il più comune - che non sappia esprimere con estrema delicatezza; e con un così vivo pudore (pudore della retorica, delle lacrime, della stonatura, del riso) che ogni qualvolta la misura di una scena o quella di un personaggio sembrano smarrirsi per eccesso, c'è sempre una brusca sterzata in senso contrario a ricostruire l'equilibrio che stava per infrangersi.
E tutto questo in un clima - che è quello cittadino e borghese della provincia italiana - che giunge quasi ad assumere rango fra i personaggi per l'incisività dei suoi termini e la precisione di ogni suo elemento, sia che si tratti di case e piazze notturne o di un veglione di carnevale o di un'alba di Quaresima o di un caffè fuori moda o di un treno che parte o di una spiaggia o di un teatro di terz'ordine.
L'anno dopo, però, ecco Fellini approdare a mete più decisamente poetiche con La strada, un film che, superando la contingenza di un'osservazione realistica, si avviava decisamente e sicuramente verso i regni della fantasia e del simbolo. Gelsomina, infatti, la protagonista, è una ragazzetta incantata, timida e sognatrice che vive tutta chiusa in un mondo dove le « cose che non si vedono » sono per lei più concrete e reali di quelle che si vedono. Un giorno essa diventa la compagna di lavoro di un saltimbanco girovago, Zampanò, che è esattamente il suo opposto: lui crede solo a quello che vede, e in modo animalesco e brutale. Fra quei due esseri, che pure passano le giornate uno vicino all'altro, su un carrozzone di zingari, non è possibile alcuna comprensione; un muro li divide, il muro della materia bruta in cui lo spirito non riesce a far breccia. Gelsomina, però, non si rassegna facilmente al silenzio dell'anima di Zampanò, lei che dietro la faccia d'ogni cosa sente cantare la voce di ben più misteriose realtà, e tenta di comunicare all'altro il suo mondo più vero, ma le sue fatiche sono vane e un giorno sarebbe sul punto di rinunciare a tutto se un altro girovago, uno spiritato funambolo soprannominato « Il Matto », non le rivelasse l'unico segreto che lei ancora non conosceva, quello di se stessa. Come ogni creatura su questa terra, anche lei « serve » a qualcosa - le dice il Matto - e per lei « servire a qualcosa » significa restare vicino a Zampanò, anche se non ne capisce più le ragioni. Gelsomina si fa convincere e rimane, accesa di nuove speranze, ma ecco che di lì a qualche tempo Zampanò, durante una rissa, uccide il Matto. La ragazza crede all'improvviso di perdere la chiave dei suoi mondi segreti e diventa pazza. Zampanò, che non è mai stato colpito dalla saggezza di Gelsomina, è scosso ora dalla sua follia; ne è terrorizzato, anzi a tal segno che a un certo punto scappa via, tutto solo, col suo carrozzone.
Passano gli anni e un giorno, per caso, Zampanò apprende che Gelsomina è morta; nel suo cuore quella morte fa luce su tutto: sulla vita di Gelsomina, sulle cose in cui Gelsomina credeva e che lui non aveva mai « viste ». Ora con gli occhi di Gelsomina, Zampanò « vede » tutte quelle cose, e il muro che imprigionava la sua anima crolla di schianto. La realtà, insomma, non è solo quella che si vede, ma anche (e soprattutto) l'altra che, nel mistero dell'invisibile, le dà valore, mete, significati.
Questa la conclusione cui Fellini è arrivato costruendo pazientemente, e tutto dal di dentro, il lungo e segreto travaglio dei suoi due personaggi: una conclusione che si afferma per l'altezza del suo valore morale e per le ambiziose intenzioni con cui il regista l'ha risolta sul piano poetico, senza concessioni spettacolari, in un clima in cui unicamente domina l'insolito, interpretato sempre in una chiave metà romantica e metà realistica dove il sapore incantato della favola si mescola a quello ruvido e scarno della cronaca.
Dopo due esperienze di un certo valore anche polemico, ma qua e là deludenti dal punto di vista della maturazione dello stile (Le notti di Cabiria e Il bidone), Fellini affronta i temi più attuali del nostro tempo con La dolce vita: uno dei film più singolari, più alti e a modo suo più tragici che abbia prodotto il cinema italiano, sagra di tutte le falsità, le mistificazioni, le corruzioni della nostra epoca, ritratto funebre di una società in apparenza ancora giovane e sana che, come nei dipinti medioevali, balla con la morte e non là vede, commedia umana di una crisi che, come nei disegni di Goya o nei racconti di Kafka, sta mutando gli uomini in mostri senza che gli uomini facciano in tempo ad accorgersene.
Mostri, infatti, autentici mostri sono tutti questi personaggi che il regista ci rievoca sulla scorta di taluni avvenimenti di cronaca: dal protagonista, o, meglio, da colui che serve all'autore per introdurci negli infernali gironi della nostra « dolce vita » di oggi; è un giornalista, un uomo venuto a Roma dalla provincia; ha fatto presto a dimenticarsi la casa lasciata alle spalle; si è buttato a capofitto in una professione per metà mondana che lo ha messo in poco tempo a contatto con tutti gli ambienti più in vista della capitale: i ricchi, i nobili, i cineasti, gli intellettuali, i gaudenti, ma, naturalmente, anche i poveri, gli oscuri, quelli che conoscono la notorietà solo se finiscono in mezzo a un fattaccio di cronaca. Qualcosa di buono l'ha ancora dentro di sè : una nostalgia forse, di un bene perduto, di una pulizia mai più ritrovata; ma la vita che conduce, gli ambienti che frequenta l'hanno reso ormai cinico e duro, incapace di ammettere l'amore sincero d'una donna, pronto, invece, ad accettare avventure passeggere e violente ovunque gli si presentino, e pronto ad adeguarsi al mondo in cui vive, ai vizi che lo sfiorano, ai « mostri » di cui ormai è compagno e sodale.
Tra i « mostri » quelli più vicini a lui, per esigenze di professione, sono i fotoreporters che danzano sempre un macabro e spietato balletto attorno al male, al dolore, alla cronaca nera, indifferenti a tutto fuorché al loro mestiere; altrettanto macabre, però, la danza dei ricchi e quella dei nobili, più disfatti, questi ultimi, dei loro castelli in rovina, e gli uni e gli altri, comunque, incapaci di trovare nel divertimento, nell'orgia, nel sesso quello di cui inconsciamente hanno bisogno per riempire il vuoto che incomincia a far loro paura.
Chi di questo vuoto si rende conto - un intellettuale che finora si è baloccato con le vane parole di altri suoi simili - addirittura impazzisce, uccide i suoi figli, si uccide; chi si ferma a metà della scoperta, si butta a capofitto nella carne, ma hélas, ha già letto tous les livres, e la trova triste come la sua stessa tristezza.
Alla fine di questa peregrinazione tra i « mostri », il protagonista, in una livida alba che segue a un'orgia vede affiorare su una spiaggia un mostro vero, un orrido pesce molto simile a quelli che, quando nel Medio Evo facevano la loro comparsa, si diceva annunciassero pestilenze, guerre, cataclismi; contemporaneamente, è vero, incontra anche una fanciulla pulita che sembra il frutto di una generazione diversa e che forse - sia Beatrice, sia Matelda - potrebbe fargli « correr migliori acque », ma il nostro eroe non è di quelli che sopravviveranno al diluvio, e nonostante il « segno » che gli è dato, eccolo accodarsi di nuovo ai suoi « mostri », eccolo riprendere con loro la Danza macabra di tutti i giorni in compagnia della Morte e del Diavolo.
Polemica, simbolo, allegoria, atto d'accusa? Niente di tutto questo. Fellini si è volutamente tenuto lontano dall'opera « a tesi », ha evitato rigorosamente le intonazioni
programmatiche, retoriche, moralistiche e ha preferito descrivere ai contemporanei i « mostri » di oggi con la stessa partecipazione e, diremmo, connivenza con cui Baudelaire al suo lettore (che difatti chiamava mon semblable, mon frère) descriveva les monstres glapissants, hurlants, grognants, rampants che facevano parte della ménagerie infame dei vizi del suo tempo. E lo ha fatto con una potenza drammatica, un impeto, una novità di linguaggio che, nonostante le riserve per la debolezza di taluni episodi (quando troppo insistiti, quando troppo scoperti o sgradevoli) inscrivono certamente il suo film tra le più « moderne » opere dell'arte del cinema. Fellini, infatti, si è posto al centro del disordine contemporaneo e ne ha tratto, con sconcertante pienezza, una immensa coralità. La sua narrazione rifiuta i trapassi logici, le graduazioni, i crescendi, gli effetti spettacolari nei passaggi; non ci sono mai alti e bassi, concatenazioni, raccordi; alla visione di questo nostro mondo in perenne sconvolgimento si arriva con un ritmo di continua febbre e i suoi tanti aspetti sociali e individuali vengono analizzati nel giro vorticoso, ansioso, disperato di una danza di cui tutti sono chiamati a far parte: con agghiacciante predestinazione.
Le tentazioni del dottor Antonio (dal film a episodi, in collaborazione, Boccaccio '70): una parentesi satirica, anzi addirittura farsesca. Fellini vi affronta in chiave ironica gli stessi temi che ha affrontato negli altri suoi film in modo serio e polemico. Si diverte troppo, però, forse per far troppo divertire e il breve film, così, si raccomanda soprattutto per la miracolosa levità di uno stile che ormai sa trasformare in cinema tutto quello che tocca.
Una battuta d'attesa, motivata forse dalla preparazione di una delle opere più discusse e più significative di questi ultimi anni, 8 e mezzo. Qui Fellini dopo aver temuto, con La dolce vita, di non poter separarsi dai mostri di morte che gravano sulla società contemporanea e, con Le notti di Cabiria e con Il Bidone, di non poter arrivare a vincere il peso negativo degli egoismi, degli odi, delle sopraffazioni che schiacciano e spesso distruggono gli uomini d'oggi, arriva a dichiarare che la vita è una festa e che vale la pena di essere vissuta insieme con gli altri.
Per arrivare a tanto egli ha messo a nudo se stesso, confessando pubblicamente non solo il suo tormento d'uomo, ma anche (contemporaneamente e simbolicamente) il suo travaglio di autore e, con un continuo parallelismo fra i due termini, ci ha detto di un uomo (che è anche regista di cinema) che è a tal segno sopraffatto e ossessionato dagli altri - moglie, amici, compagni di lavoro - da desiderare soltanto di star solo, lontano da tutti, incapace in pari tempo di dare un ordine alle proprie idee, alla propria ispirazione, e perciò, di creare.
Quest'uomo, Guido, si è rifugiato in una città termale per curarsi fisicamente, per riorganizzarsi moralmente ed anche per realizzare un film di cui nessuno (lui compreso), conosce bene il soggetto, nonostante la grande macchina produttiva, produttore in testa, si sia già tutta messa al suo servizio. Curandosi, meditando, tenendo a bada la gente di cinema che pretende da lui notizie, ordini, idee, e tenendo a bada nel frattempo le tante donne della sua vita che non riesce più a sopportare e che, ovviamente, non è mai riuscito a conciliare tra loro (oltre che, forse, con se stesso), Guido cerca di mettere un po' d'ordine nella sua confusione interiore, ricerca,
nelle fantasticherie, nei ricordi, nei sogni, il filo conduttore della sua esistenza (ed anche quello del suo prossimo film), si affida, ansioso, all'inseguimento dell'estro e dell'ispirazione, timoroso di averli per sempre perduti; e finalmente, annientato da una sterilità che sembra; oscurargli ogni idea, affranto dal crollo del suo rapporto con la moglie che, stanca del suo disordine, delusa dalle bugie con cui lo maschera, vuole lasciarlo, medita un istante il suicidio; poi deciso, rinuncia alla creazione, al film, al lavoro.
Ma in quell'attimo (di schianto, come il greve Zampanò sulla spiaggia, sotto le stelle), capisce tutto, si volge con animo nuovo alle persone della sua vita, ai personaggi ancora inespressi del suo film e, accogliendoli così come sono, senza cambiarli, senza cambiarsi, finalmente non se ne sente più oppresso, né respinto. « Com'è giusto accettarvi, amarvi; e com'è semplice... » dice allora; e lui che, fantasticando, era arrivato a vedersi con una rivoltella puntata alla tempia, lui che, nei suoi incubi, si sentiva sempre oppresso dagli altri, quasi sepolto in una bara costruita da un prossimo indifferente od ostile, arriva a definire la vita una festa e a chiedere con gioia a quelli che prima fuggiva di viverla insieme; senza più egoismi e menzogne (« dire la verità... solo così mi sento vivo... »).
Questa confessione che, oltre ad esser forse autobiografica, è la nitida radiografia di un processo creativo (il film infatti, che vediamo è « anche » il racconto filmato della preparazione di un film, della rinuncia a iniziarlo, della decisione di realizzarne un altro su basi umane diverse), è stata vestita da Fellini con immagini che difficilmente si dimenticheranno, dando vita a uno spettacolo che, tutto sommato, forse non è un film - nel senso corrente e conformista del termine - ma che certamente è cinema, cinema puro.
Il racconto, infatti, si costruisce costantemente su due piani diversi: quello letterale che ci propone i dubbi e la confusione di Guido, regista cinematografico; e quello simbolico, che ci prospetta i tormenti psicologici e morali di Guido, uomo tra gli uomini (e tra le donne); i due piani si svolgono di fronte a noi di pari passo, sorretti, e l'uno e l'altro, da tre differenti aspetti dell'attività del pensiero, il ricordo (soprattutto accentrato - alla Joyce, alla Proust - su temi dell'infanzia); il sogno (suscitato in genere dal peso oppressivo degli altri); la fantasticheria (visualizzazione, di solito, o dei desideri o del suo vagare alla ricerca di una ispirazione).
Per dirci di questi due diversi piani del film e per farlo sorreggere ora dal ricordo, ora dal sogno, ora dalla fantasticheria, Fellini non si è mai abbandonato alle geometriche e un po' astratte divagazioni di Resnais in Marienbad, né a quel crepuscolismo onirico così caro a certo espressionismo tedesco, ma si è, al contrario, tenuto volutamente nell'ambito di una narrazione in cui tutto scaturisce « naturalmente » di fronte allo spettatore con una chiarezza non inficiata nemmeno dalla preziosa ridondanza dell'immagine e dalla corrusca varietà dei particolari secondari. Ha posto il protagonista al centro dell'azione, ha precisato il suo stato d'animo, ha chiarito passo passo la sua evoluzione, e i modi di questa evoluzione, e ha chiesto quindi allo spettatore di non decifrare un enigma, ma di abbandonarsi alle sensazioni emotive, liriche, drammatiche che lo spettacolo ad ogni istante doviziosamente gli suggerisce, rifiutando recisamente il filosofema pirandelliano (dopo i Sei personaggi in cerca d'autore era facile giocherellare con un « Autore in cerca di personaggi ») e chiedendo solo alla poesia più dolce, più umana, più schietta di far sentire, udibile e comprensibile da tutti, la sua limpidissima voce.
Con uno stile che, solo paragonabile per certo suo lirismo ai momenti più compiuti della Strada, supera di gran lunga La dolce vita per maturità espressiva, per ricchezza visiva, per corposità di ritmo, per sapienza linguistica e tecnica. Si veda ad esempio la cornice dell'azione, quella cittadina termale con i suoi alberghi stile « Liberty » che potrebbe essere Aix-en-Provence di cinquanta anni fa se non sapessimo invece che è tutta finta (« Perché - ha detto Fellini - non volevo cadere nella trappola realistica; avevo bisogno di esattezza, ma della esattezza dei sogni »). Si vedano quei caffè di provincia, quei concertini con musiche fine secolo, ascoltati da un colorito esercito di villeggianti, e quel ritmico alternarsi delle cure, in un'atmosfera ora di balletto, ora di tregenda, tra i fumi dei soffioni, le acque, i bagni, le sorgenti (« Una specie di valle di Giosafat - è sempre Fellini che parla - con un'umanità di bianche larve, con il tempo scandito da orari... un Limbo in cui tutti si ritrovano e in cui è possibile fissare le immagini e i volti del passato... »). E si veda, qui, l'incontro con un Cardinale che a Guido, non dimentico di una certa formazione religiosa, dovrebbe dare utili consigli sulla via da seguire; un incontro ai bagni, tra il fumo, i bianchi lenzuoli, in un'atmosfera a mezza via tra la triremi romana e il convento, sostenuta, nonostante la singolarità del luogo e l'apparente irriverenza della situazione, da un quasi mistico rispetto, ieraticamente ritmato dalle gravi citazioni latine che il vecchissimo e ascetico Principe della Chiesa scandisce a Guido dopo averlo sentito esordire con un: « Eminenza, non sono felice! ».
E i ricordi? Il familiare candore di quei muri biancocalce della casa dell'infanzia (che accoglieranno poi, la pittoresca fantasticheria dell'harem dove, finalmente, tutte le donne di Guido andranno d'accordo) e il livido biancore, invece, di quelle mura del Collegio dove, tra banchi neri, neri confessionali e nere silhouettes di preti severissimi, ossessionati dall'idea del peccato della carne, il piccolo Guido si vedrà per sempre inculcata l'antinomia tra la donna-diavolo e la madre-Vergine, propria di una certa educazione cattolica.
Ogni scena, ogni sequenza hanno la loro funzione drammatica, il loro valore emotivo, il loro esatto peso figurativo: sostenuti e messi a fuoco da una costante perfezione di ogni elemento di contorno, a cominciare dalla fotografia (traslucida e volutamente troppo bianca in certe fantasticherie iniziali; nitidamente romantica nei periodi anche più tetri; allucinata nei sogni), alla musica, accesa spesso da motivi noti e non di rado piegata a introdurre puntualmente un clima (la « ninna-nanna » ad esempio, per l'infanzia), o un personaggio o una situazione decisamente ironizzanti (la Danza delle ore per una intellettualoide, Gigolette per l'amante fatua, La Cavalcata delle Walkirie per la tregenda dei bagni termali e, dopo, la rivolta delle donne nell'harem).
E la sequenza finale, con quella parata tenerissima da circo equestre che tutti i personaggi della vita di Guido, adesso vestiti di bianco, compiono attorno a lui finalmente pacificato con loro, finalmente pacificato con se stesso? Qui il simbolo, che in altri momenti forse vacilla, travalica la realtà e raggiunge il più struggente lirismo. In modo compiuto e ispirato.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
Federico Fellini, nell'anno dei suoi settant'anni, ha fatto qualcosa di unico: s'è battuto come nessun altro (e come mai era accaduto prima nella sua vita) nella battaglia per impedire che venisse per legge confermato ufficialmente, definitivamente, inappellabilmente, il diritto da parte delle reti televisive di interrompere con spot pubblicitari i film mandati in onda, e ha perduto; ha raccontato come nessun altro l'Italia contemporanea nel suo film La voce della luna; ha accolto la vecchiaia con elegante malinconia.
Nella sua casa a Roma, in via Margutta, nella mattinata di sole del venti gennaio 1990, arrivavano rose e gigli bianchi troppo profumati, arrivavano telegrammi, telefonate, messaggi, messaggeri. Fellini era seduto nell'angolo del divano, un p0' acciaccato per una piccola malattia, con un plaid sulle ginocchia, diviso tra insofferenza, compiacimento e incredulo divertimento. "Eterni fanciulli, noi corriamo...", diceva il telegramma di Giorgio Strehler, e lui: " Ma non ha due anni più di me?" Festeggiamenti, auguri, biografie, inviti a trarre bilanci d'una esistenza meravigliosamente creativa e dei venti suoi film (più tre film brevi e una co-regia), interviste televisive, complimenti da tutto il mondo, vecchie fotografie e nuovi apprezzamenti, domande, cerimonie anche affettuose mettevano in imbarazzo "le légendaire septuagenaire", come scrivevano i francesi: non per pudore né per la minaccia dell'invecchiare, soltanto perché il suo sentimento del tempo restava l'incredulità.
Diceva: "Mi sembra d'averli avuti sempre, settant'anni. Ho la sensazione d'essere sempre e da sempre in compagnia di me stesso, d'essere venuto al mondo a ventidue, ventitre anni, e che da allora non mi sia più successo niente. Da quando sono entrato in un teatro di posa non ne sono mai uscito, un anno è scivolato nell'altro inavvertibilmente come in un lunghissimo film che continua. Il tempo, per me, non può essere se non eterno, immobile: faccio adesso le stesse cose di quindici, venti, trent'anni fa". Al passato, diceva, non pensa mai come a un altro tempo:
"Non mi sembra d'aver avuto una vita scandita da emozioni diverse, ma d'aver vissuto sempre lo stesso interminabile giorno: tutto è fermo in un fotogramma che mostra un capannone buio, un centro illuminato con innumerevoli sagome mobili, un mare di luce sulla mia testa, e io che lavoro in questa folla, precaria ma immutabile. Di me, della mia vita, non ricordo niente. Sarà per il mio modo di gestire l'esistenza: del tutto provvisorio, contumace, in presenza-assenza. La memoria è quella che ho inventato, il resto è frammento, coriandoli. Non ho un vero ricordo. Non so su quale pellicola della mia macchina mnemonica potrebbe andare a incidersi: quanto ho immaginato nei film è più forte di quanto potrei ricordare. Ho la sensazione di non esserci, di non esserci mai stato, d'aver sempre latitato dalla mia stessa vita".
Senza alcun sentimento di colpa rispetto a se stesso, ma con qualche rimorso presente verso il suo lavoro: "A settant'anni, quello che mi fa sentire colpevole è quell'anno, quell'anno e mezzo che ci vogliono sempre per mettere in piedi la baracca d'un film, per impiantare l' "affare" Fellini. Con la Rai, a esempio: pranzi, appuntamenti da "Canova", avvocati, centinaia di telefonate, aspettiamo le elezioni, il Ferragosto, il ritorno dalle ferie, il nuovo presidente, il nuovo direttore generale, vediamo dopo Natale, a primavera, peccato che adesso c'è il ponte, partiamo tutti per il Brasile, perché non vieni anche tu, che li ti vogliono tanto bene? Prima che le diverse persone coinvolte riescano a trovare un accordo, a stabilire qual è la fetta che ciascuno può tagliarsi dalla "torta" Fellini... Il tempo passa. A fare i conti, risulta che il tempo perduto per poter fare i film è molto più lungo del tempo impiegato per realizzare i film: questo mi deprime".
Insieme con questo, la sensazione (o la constatazione) triste della decadenza sociale del cinema: il sentire che è venuto meno tra la gente il desiderio, il bisogno di certi film; che sono svaniti un ambiente, una cultura, una necessità del cinema; che un autore può non sapere più per chi lavora, a chi si rivolge, perché, può avere il sospetto di seguitare a lavorare senza veri interlocutori, può temere che tutto sia finito. L'inimicizia di Fellini verso la televisione s'è espressa in dichiarazioni, polemiche, battaglie e nei suoi ultimi film(Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna), s'è manifestata nell'anno con l'appassionata e per lui medita lotta anti-spot, in iniziative e azioni militanti sinora per lui impensabili: stesura di comunicati, raccolta di firme, visite in delegazione ai presidenti (della Repubblica, della Camera, del Senato), interventi pubblici. A nutrirla non sono un estetismo, una rivalità astratta, una paura, un tradizionalismo poco pragmatico: è invece la consapevolezza intelligente, coraggiosamente chiara, di un mutamento che non prevede l'esistenza di registi come lui e che cancella una cultura con le sue opere, dell'installarsi di un mondo diverso che può funzionare benissimo anche senza il cinema d'autore.
È una battaglia per la sopravvivenza specialmente in Italia, nell'Italia raccontata da Fellini ne La voce della luna. Trent'anni dopo La dolce vita, un film felliniano socialmente altrettanto importante traccia alla sua maniera la mappa d'un Paese scoraggiante: "Tenta di esprimere il malessere, la sconfitta della fine delle ideologie e dell'aridità del sentimento, segue i due protagonisti nel vagabondaggio lungo un itinerario soffocato, oscurato dallo sbriciolamento e dalla frammentazione della realtà che ci circonda".
Un Paese, una città artificiale e insensata, dove persino un evento assoluto e magico come la cattura della Luna diventa occasione di cialtronerie, vaniloquio, stolto dibattito televisivo rinviato nelle case dalla selva di antenne che invadono i tetti: "Non soltanto per realismo, ma per dire che la televisione è una possessione, che non esiste esorcista autorevole capace di allontanare l'invasione intossicante di milioni di immagini". Un Paese sovrappopolato, formicolante (" per esprimere l'impossibilità di isolamento, di sana solitudine"). De-realizzato nella chiacchiera ("lo srotolarsi di frasi fatte, di ovvietà che restituiscono l'impressione di una monotona litania di parole che non vogliono dire niente"). Assediato dalle automobili, percorso da cortei di persone masticanti e ruminanti, illuminato da feste paesane e da riflettori televisivi, costellato di pubblicità grottesca e d'insegne in finto inglese, affollato di venditori ambulanti africani e di turisti giapponesi, immerso nei misteri politici e criminali, caotico sino alla demenza. Che Paese è l'Italia unica di Fellini ne La voce della luna: senza testa, e senza cuore.
Courtesy of La Stampa
"Faccio i film perché mi piace raccontare delle bugie, inventare delle fiabe": così, nel ‘58, Federico Fellini diceva di sé come autore di La strada (1954). E però aggiungeva: "E dire le cose che ho visto e le persone che ho incontrato". Come poi sia possibile conciliare le due cose - abbandonarsi al gusto "fantastico" della bugia e insieme coltivare quello "realistico" dell’esperienza vissuta - è questione attorno alla quale si potrebbe forse ricostruire la poetica felliniana. A proposito di I vitelloni (1953) e La strada - di cui Longanesi ripubblica ora le sceneggiature, insieme con interviste e dichiarazioni dell’autore - il conflitto bugià realtà ha ben modo di manifestarsi. Persino il significato della parola "vitelloni" sfuma nell’incerto confine tra le due dimensioni. Per Ennio Flaiano - coautore della sceneggiatura, con Fellini e Tullio Pinelli -, sarebbe una corruzione di "vudellone", cioé grosso budello e, per traslato, ragazzo cresciuto e perdigiorno, buono a nulla. D’altra parte, Fellini ne dà una diversa interpretazione, ricordata da Irene Bignardi in prefazione: vitellone - cioé la via di mezzo tra manzo e vitello - in Romagna indicherebbe "chi non è più ragazzino ma non ha un’identità ben precisa, un ozioso che non sa bene cosa fare di sé ". E quanto al carattere autobiografico di I vitelloni, a lungo favoleggiato? Fellini stesso lo ha avallato in più d’una occasione: lui, Flaiano e Pinelli - dichiara per esempio in un’intervista del ‘71 - avrebbero raccontato nella più che ricordi di gioventù (soprattutto ricordi riminesi del primo e pescaresi del secondo). E però altre volte sostiene l’opposto: "Io non sono mai stato un vitellone, non posso esserlo stato, non ne ho proprio avuto il tempo. [...! Non li ho nemmeno frequentati, i vitelloni, se devo essere proprio sincero". Lo stesso, in fondo, è accaduto per La dolce vita (1960). Quel film-mito è stato osannato o rifiutato, tre decenni fa, anche in rapporto allo scandalo del suo asserito autobiografismo. Eppure, sembra che, nella via Veneto d’allora, Fellini si vedesse poco o nulla (lo hanno ricordato, nell’84, Enrico Lucherini e Matteo Spinola nel loro "pettegolo" C’era questo, c’era quello, Mondadori). Di La strada, poi, per anni si è ripetuto che rispecchiasse la complessità psicologica del suo autore. Il quale, per di più, lo ha spesso indicato come il suo film "più autobiografico". Zampanò sarebbe ora "un uomo che conobbi in un circo, quando avevo quindici anni", ora "un castraporci che calava ogni tanto su Gambettola, dove aveva casa mia nonna Franscheina, e dove io passavo le mie vacanze [...!, una specie di uomo nero, con una parannanza piena di sangue che terrorizzava le donne, e di cui le bestie per alcuni giorni presentivano l’arrivo lasciando strida altissime", ora invece un tale incontrato dalle parti di Viterbo, durante una passeggiata in auto con Giulietta Masina. E la Masina - in una versione "autentica" ancora diversa - sarebbe poi la vera origine del film: quella "favola crudele", infatti, sarebbe nata "su Giulietta, su quello che Giulietta mi suggeriva, su quello che mi ispirava e mi faceva immaginare con il suo talento di attrice comica, di clown". Una dichiarazione, questa, che almeno ha il vantaggio di legare con un’altra, analoga, relativa a I vitelloni, a questo film "autobiografico" pieno di bugie, i cui personaggi in effetti sarebbero stati per buona parte "inventati sugli attori, cuciti addosso a loro". In ogni caso, secondo la consolidata tradizione interpretativa - ricorda la Bignardi -, in La strada sarebbero state direttamente trasferite le "tre facce" di Fellini, cioé la sua "realtà interioreoneria di Gelsomina, la "bestialità " di Zampanò ". Ai fanatici cultori della fellinologia, certo, ben poca impressione può fare l’osservazione che, alla fine, il film non ha un solo autore, essendo stato scritto da Fellini più Flaiano più Pinelli. Dunque, che dire del conflitto bugia-realtà del cinema felliniano? Forse, che per la nostra intellighenzia cinematografica un autore non è tale se non "rispecchia" almeno un briciolo di realtà. Essa - per dirla con Fellini - è probabilmente vittima dell’"equivoco" che "nasce dal fatto che si pensa che il cinema sia una cinepresa piena di pellicola e una realtà, fuori, già pronta per essere fotografata". Finito il neorealismo - che da grande poetica si fece molto presto ossuta e rigida ideologia -, quell’intellighenzia andò alla ricerca di un qualche sostituto. Imbattutasi in Fellini e nel suo irrealismo, dapprima si scandalizzò. Alla mostra di Venezia - ricorda la Bignardi - La strada gli costò l’imputazione infamante di capocordata del "cinema spiritualista". Sergio Amidei lo accusò di tradire il neorealismo e Cesare Zavattini di abbandonare la realtà per inseguire "brumose e decadenti fantasticherie". E qualcuno arrivò addirittura a chiedere: "Dov’era Zampanò, mentre si combatteva la guerra partigiana?". Ma poi, di fronte alla pervicace pratica felliniana del cinema-menzogna in opposizione al cinema-verità, quella stessa intellighenzia si consolò immaginando che, almeno, si avesse a che fare con un realismo dell’anima, con un autobiografismo rassicurante. E se invece il miglior Fellini fosse proprio un "mentitore", un sublime mentitore che dalla "realtà ", anche dalla propria realtà psicologica e dalla propria memoria, si limita a trarre grezzo materiale per costruire un mondo inventato e irreale? Che davvero, per lui, il cinema non sia che "un pretesto per mettere le cose in movimento", come in un gran circo in cui si mescolano tecnica e improvvisazione, memoria e invenzione? "Il mestiere di regista - si legge nel suo Block-notes di un regista (Longanesi, 1988) - è un modo di fare concorrenza al Padreterno. Nessun altro mestiere consente di creare un mondo che assomiglia così da vicino a quello che conosci, ma anche agli altri sconosciuti, paralleli, concentrici".
Da Il Sole 24 Ore, 11 Giugno 1989
Con Fellini c’era una vecchia amicizia nata dalla comune attività giornalitica, poi rinsaldata negli anni d’oro dei vecchio Rizzoli, quando il Commenda, che faceva quattrini con i suoi film, lo chiamava il Gran Maestro e aveva con lui un modo di fare fra l’ironico, il paternalistico e il furbesco, un miscuglio di confidenza e di rispetto. Ma prima di arrivare a un accordo, c’era da parlare, parlare perché qualsiasi cosa si proponesse a Rizzoli la risposta era sempre: «Mi lasci riflettere». Poi c’era da fare una buona colazione insieme (in genere rigatoni saltati al pomodoro, cotoletta alla milanese, patatine e insalata, frutta e caffè) nella palazzina di fronte alla grande sede della casa editrice. Con quel suo filino di voce e la mole di gigante buono di provincia, Fellini incantava Rizzoli: gli raccontava storie, mescolava verità e bugie, fantasia e realtà, inventava. Il Commenda si divertiva. Da lui accettava tutto, anche la caricatura della sua persona. Le sue idee lo affascinavano. «Tutte cose strampalate» diceva Rizzoli. «Mi capissi minga, ma quand i vedi me piasen». Tutto questo mi tornò in mente quando feci visita a Federico Fellini malato nell’ospedale «San Giorgio» di Ferrara, un pomeriggio di fine settembre 1993 (il grande regista morirà poi a Roma, all’età di settantatré anni, il 31 ottobre dello stesso anno). Mi trovavo a Ferrara per il Premio Estense e recandomi in ospedale non pensavo neppure di poter vedere Fellini: non volevo disturbarlo, ma lasciargli solo un biglietto di augurio e di saluto. Era un sabato e dalle rare macchine che passavano si capiva che l’estate era finita: non c’erano le code per i Lidi Ferrarcsi. Attaccai a parlare con l’autista: «È un ospedale con molti reparti?» chiesi. «No. Prima era un posto per lunghe degenze, da una decina d’anni è adibito solo alla riabilitazione. Ci vengono da tutta Italia. Entrano in barella ed escono a piedi». Mi parve una bella risposta, come auspicio per Fellini. Al mio arrivo al «San Giorgio» la prima sensazione fu di un’oasi di pace. Un edificio né vecchio né moderno, gradevole, come una villa fine ‘800, a due piani, circondato da giardini fioriti e dal silenzio. Mi venne incontro una ragazza, parente della Masina, bella, gentile e minuta, Le dissi che volevo solo fare avere a Fellini un biglietto. «So che ha bisogno di tranquillità, non chiedo di vederlo. Mi dia piuttosto notizie. Come sta? Dorme, legge, si nutre volentieri? Guarda la televisione?». «Niente tivù, in camera non l’ha voluta. Ma ha voluto il telefono, Scrive soprattutto». Mi avviai per uscire, Ma un attimo dopo la parente della Masina, che doveva avergli consegnato il biglietto, mi chiamò: «Fellini dice di entrare. Stia poco, però».
Federico stava in poltrona ma con un ottimo aspetto. Per rompere l’emozione gli dissi: «Passerà anche questa». Mi strinse la mano. «È stata una brutta botta» e mi tirò a sé. L’abbracciai e lui con la destra mi cinse la spalla. Sembrava davvero contento di vedermi. Il suo viso era disteso, senza la smorfia di fatica dei primi giorni. Gli dissi che sarei rimasto solo pochi minuti, che non volevo interrompere la sua quiete. Poi continuai: «Pensa, Federico, che l’autista che mi ha accompagnato ha detto: «Qui vengono da tutta Italia. Entrano in barella ed escono a piedi» e ho pensato a te».
Lui sorrise: ah, come sorrise. Un sorriso però che non cancellava la piega della malinconia che gli aveva già segnato il volto. A un certo punto mi chiese: «Ma tu hai la fede? Tu credi?». «Federico, io ho la religione dell’amicizia. E tu non sai in quanti pregano per te, per la tua guarigione, proprio nel nome di questa fede. Tutti ti voglio-no bene, non solo per quello che hai fatto, ma perché sei un uomo vero e hai il dono dell’umiltà».
Mi guardai intorno: lo sguardo mi cadde su molti fogli scritti che aveva sul tavolo vicino e sulla tavoletta sistemata sopra pra le ginocchia, per farlo scrivere con agio. Non ebbi il coraggio di chiedergli nulla. Erano scritti a matita, credo appunti, immagini e pensieri, schegge di poesia, note fuggevoli, ogni riga un’idea. Mentre gli parlavo non riuscivo a staccare lo sguardo da quei fogli nei quali Fellini aveva forse riversato tutto il suo futuro, riuscendo, nella solitudine dell’ospedale, a sopportare medici ed esercizi. «Ecome sta Indro? Lo vedi? Salutamelo». «Sì, lo vedo e glielo dirò». Non volevo protrarre la visita. Mi alzai di scatto, per non stancarlo oltre. «Aspetta». «Te l’ho detto, volevo solo salutarti». Al momento del congedo, mentre stavamo per abbracciarci, Fellini ripeté: «Vorrei che tu credessi al grande piacere che mi hai fatto venendo qui». Si commosse, mi commossi anch’io e mentre lo abbracciavo per nascondere l’emozione, mi voltai per andare via. Risposi solo: «Sì, Federico, ciao». Incerti momenti non si sa più parlare. Il giorno dopo, raccontai a Montanelli che ero andato a trovare Fellini e gli dissi: «Mi ha chiesto se ti vedevo e di salutarti». Montanelli rimase commosso, volle sapere tutto e mi esortò a tornarci insieme. Concludo con un ricordo che indica la modestia dell’uomo; a un amico che gli riferiva che Enzo Biagi si era rivolto al presidente Scalfaro per chiedere per lui la nomina di senatore a vita, Fellini rispose: «Avrebbe, fatto piacere a mia madre, perché avrei avuto finalmente uno stipendio tutti i mesi». Ecco cos’è la gloria di un genio in Italia: aver bisogno di uno stipendio.
Da Il Corriere della Sera, 16 ottobre 2003
Il successo in Francia del Bidone di Federico Fellini, successo dovuto soprattutto a una critica che in certi casi afferma essere l’ultimo film superiore alla Strada, può incoraggiare al riesame di un’opera straordinariamente interessante che non ha ottenuto in Italia, secondo noi, i consensi che meritava.
Il film è prima di tutto la storia di Augusto, un piccolo imbroglione invecchiato fra meschine truffe, ladrerie dozzinali, e intere stagioni passate col batticuore nel timore della polizia o dei possibili riconoscimenti delle vittime. Quando Il bidone ha inizio, il protagonista, in compagnia di un cinico farabutto di bell’aspetto, Roberto, e di «Picasso», un pittorello che s’arrangia per tirare avanti la famigliola, trae in inganno, con una variante della classica truffa all’americana, una famiglia di contadini. In abiti ecclesiastici, giunge in un cascinale con i compagni e si dice latore di un messaggio raccolto in confessione da un morente; scopre un falso tesoro e si fa consegnare, per le messe di suffragio della povera anima, mezzo milione.
Malgrado il successo di qualche colpo, Augusto sente tuttavia scontento di sé, scontento che si muta in disprezzo quando incontra casualmente un ex-collega, un «dritto», che s’è fatto ricco con imbrogli su grande scala. Un giorno che egli ha accompagnato al cinema la figlia adolescente che vive separata da lui con la mamma, e non sa nulla della sua sciagurata esistenza, incoccia in un tale che ha truffato e che lo fa arrestare sotto gli occhi della ragazzina sgomenta. Quando esce non trova più i vecchi amici: Roberto s’è sistemato, «Picasso», il pittorello, ha ritrovato la via dell’onestà. Ora Augusto si intruppa con altri manigoldi: per mettere in opera la solita truffa dei tesoro, capita adesso in un casolare isolato in montagna. La trappola scatta ancora una volta; ma prima di andarsene con il malloppo, Augusto viene a sapere che il denaro doveva servire per la figlia del contadino, un povero essere paralizzato. L’imbroglione subisce uno «choc», pensa alla figlia sua che deve smettere gli studi perché senza mezzi e cerca allora di tenersi per sé il denaro dei raggirati. Nasce una zuffa; con la colonna vertebrale spezzata, abbandonato come una bestia rognosa, l’infelice agonizza a lungo; ha tempo così di riflettere sui lunghi giorni di un’esistenza mal spesa.
Molto più de La strada, a cui s’apparenta, Il bidone è un «cocktail» nel quale si mescolano una ribalda festosità degna del «Satyricon» e quella vena disperata ed amara da cui sgorgò l’indimenticabile Zampanò. Non sempre, diciamolo subito, i due filoni espressivi si fondono perfettamente: si avverte qualche salto di ispirazione, un certo rallentamento del ritmo narrativo e anche qualche insistenza. Non v’è l’arcana poesia de La strada data dal paesaggio indifferente e maestoso, dal passaggio lento delle stagioni estranee alla pena e alla solitudine dell’uomo. In compenso Il bidone è più complesso, ha un’orchestrazione più elaborata. Il tema felliniano dei conti da rendere a qualcuno che ci trascende è meno univoco, più clamoroso, quasi gravido di presenze impalpabili ma certe perché meno metafisiche, più legate a ciò che risulta semplicemente umano.
In fondo, diciamolo chiaramente, ciò che attira in Fellini è questa sua capacità di stringere in un unico sguardo il cielo e la terra; è il suo un platonismo memore delle cose di quaggiù, incapace di scordare i legami affettuosi, le memorie, le contemplazioni, le battaglie combattute insieme, la sofferenza, non giustificata, dei buoni, dei semplici, di donne e uomini di buona volontà. È vero che anche nel Bidone i personaggi principali sono raffigurati dal regista con sanguigna potenza: i tre birbanti, e la fungaia dei minori colleghi, vivono con una intensità vitalistica ad alto regime, sono «fusti» che vigoreggiano per merito della serena vita dell’arte. Ma è anche vero che, all’apparenza umili larve, coloro che per colpa dei «bidonisti» hanno a soffrire (la moglie di «Picasso», la figlia di Augusto, la giovane paralitica) hanno un evidente rilievo, pur se la loro presenza nel racconto ha poco peso temporale.
L’interpretazione appare bellissima da parte di tutti. Meraviglia poi come gli «hollywoodiani» Broderick Crawford e Richard Basehart abbiano potuto così felicemente far «mente locale», identificarsi con così superba aderenza con la pittoresca folla degli autoctoni imbroglioni. L’internazionalità della canaglia è evidentemente non meno operante e concreta di quella della gente perbene.
Il solo fatto che Il bidone pone ai commentatori problemi insoliti è, a nostro avviso, il segno più certo del suo valore. Mentre sui difetti si è tutti concordi (il poeticismo che è il «péché mignon» del nostro, quindi, nel caso del Bidone, buona parte delle immagini dedicate al personaggio di «Picasso» con quell’insistenza nei minuti affetti familiari che ricorda il trito verismo, ai margini della limacciosa ma più robusta correntia francese, di Giacosa e compagni) è difficile trovarsi d’accordo sul «valore» della storia e dei personaggi. Si è osservato che il protagonista è spiacevole, che il mondo evocato dal regista è squallido e moralmente ripugnante. Vecchie osservazioni che avrebbero però una maggiore consistenza se il loro peso risultasse efficace anche per i fatti della letteratura: per «Madame Bovary», per esempio, o per «La romana».
La denuncia di una condizione spirituale tra le più derelitte induce sempre nel narratore (che sia romanziere o regista poco importa) un che di polemico: a un certo punto appare ozioso chiedere a un’opera proprio ciò che essa non aveva nessuna intenzione di offrire. Forse ha nuociuto alla giusta intelligenza del film il titolo picaresco e l’esposizione di truffe più ingegnose che veramente criminali. Abituati ad accettare da Fellini le brillanti variazioni umoresche de I vitelloni o la linea univoca de La strada, molti in buona fede (degli altri non vale la pena di occuparsi) si son trovati fuori dalle acque territoriali scoprendo un oceano infido. Erano andati per divertirsi, e si son trovati davanti a un’opera più amara ed esasperata di Umberto D., a un’opera senza redenzione.
Mentre è normale che lo spettatore comune senta un qualche disagio perché il cinema è accettato come un divertimento, un’evasione dai crucci o dalla noia quotidiana, il «non accetto» degli intellettuali appare di rara incongruenza. Ecco un regista che ha osato affrontare un problema «duro», per nulla amabile, e quelli cui si rivolge in principal modo trovano che è fuori tema. Fellini può dire che Augusto è lui stesso: in parole povere la proiezione più agghiacciante, perché più meschina, di un «io» evocato, solo dagli incubi.
Ecco perché Il bidone si ricollega con una tematica tanto più forte allo Sceicco bianco; con la differenza che lo Sceicco era la parte critica, da «dizionario delle idee ricevute», e non la parte sentimentale dell’artista. Del resto non si finirebbe mai di scrivere sul Bidone, la cui vitalità è denunziata dalle stesse reazioni che suscita. Fuori di ogni diatriba dovrebbe essere almeno chiaro che Augusto è un personaggio di eccezionale concretezza e che sono sufficienti scene come quella d’attacco e la festa in casa del «bidoni-sta» ricco per confermare le doti di un regista tra i più vivi e «diversi» dell’ultima generazione.
Forse quest’ultimo film di Fellini giunge opportuno per alcune osservazioni circa il diverso comportamento della critica verso la nuovissima arte. A un amore disinteressato, e forse un tantino snobistico, dei primi tempi, quando si levavano inni alle comiche del primo Chaplin, alle avventure di Douglas e alle potenti evocazioni di Murnau (che, a nostro avviso, è il precursore, con Aurora, Nostro pane quotidiano e Tabù, di molte pellicole psicologiche d’oggi), è successa da parte degli intellettuali un’attitudine di sospetto che sfiora il disdegno. Da un lato la crisi della produzione di Hollywood (ma molti hanno imparato a distinguere gli Stevens, gli Aldrich, i Ray dal gregge), dall’altro l’incomprensione programmatica dei polemisti «proletari»: ecco le due ragioni per le quali si riscontra una sordità, troppo continuata per essere solo fenomenica, anche da parte di commentatori che dovrebbero essere liberi da pregiudizi.
(Agosto 1993) Ieri sera ho incontrato Leo Pescarolo, il produttore che avrebbe dovuto iniziare il 15 settembre la pre-produzione del prossimo progetto di Fellini. L'ho trovato molto preoccupato, e non solo per i problemi finanziari provocati dal rinvio sine die del film: il maestro sta veramente male, non dà segni di miglioramento. “Povero Federico” m'ha detto, “Sono sicuro che preferirebbe morire piuttosto che rimanere un invalido, lui così vivo, irrequieto, curioso.
“E poi” ha aggiunto, “pensa te, passare il resto della vita in una poltrona a rotelle, con Giulietta che non ti molla un minuto...”.
Nel panorama del cinema italiano occupa una posizione centrale, simbolo di fantasia e di leggerezza, di umorismo dispettoso, di sentimentalismo. Solo lui possiede, tutte insieme, queste doti. Nasce in provincia da una famiglia borghese (padre rappresentante di commercio, madre casalinga), ha poca voglia di studiare (lo mandano dai preti), sa soltanto disegnare. Se ne va di casa, sosta a Firenze, per frequentare Aldo Palazzeschi, raggiunge Roma, disegna vignette per il settimanale satirico Marco Aurelio, evita il servizio militare e si ritrova sbandato e allegro in una città che affronta seraficamente il dopoguerra. Esegue caricature ai soldati alleati, conosce Aldo Fabrizi, lo segue in qualche giro della sua compagnia di varietà. Rossellini lo invita a partecipare alla sceneggiatura di Roma città aperta e di Paisà. Nel 1951, mettendo a frutto l'esperienza fatta con Fabrizi, offre a Lattuada il soggetto per Luci del varietà e ne diventa co-regista.
Il suo primo film è Lo sceicco bianco (1952) con Alberto Sordi nei panni di un eroe di fotoromanzo. Grazioso. Con I vitelloni (1953), Leone d'argento a Venezia, tutti si accorgono del nuovo autore, ironico e graffiante oltreché patetico. Ma è verso l'intenerimento che Fellini - dimentico dello «scherzo» interpretato per Rossellini nel secondo episodio di Amore (1948) - mostra di voler procedere. La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957) grondano malinconia e strazio (meno, Il bidone del '55 che sta fra i due e non risparmia sarcasmi agli arricchiti del dopoguerra). Solo con La dolce vita (1959), clamoroso successo mondiale, Palma d'oro a Cannes - è il primo dei molti premi importanti che il regista raccoglierà, fra Oscar, Leoni e coppe - Fellini trova l'equilibrio fra il sentimento, l'umorismo, il dramma, la provocazione, la satira. E in 8 ½ riesce a penetrare dietro le quinte del suo mondo, affondando le mani e lo sguardo, non senza pena, nella biografia di un uomo inquieto: è il suo secondo capolavoro.
Il resto è illustrazione sfavillante spesso (talvolta smorta) del già detto. Giulietta degli spiriti (1965), Amarcord (1973), Casanova(1976), il prezioso e angosciato E la nave va (1973) sono le tappe maggiori di una lunga stagione che vedrà ancora lo stanco Ginger e Fred (1985), il patetico Intervista (1987), lo scombinato La voce della luna (1990). Di questo periodo è uno dei gioielli felliniani, il feroce Prova d'orchestra (1979): ritratto come gli altri, ma migliore di altri (esclusi i capolavori), dell'Italia sospesa fra vecchio e nuovo, tremante e sbruffona.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Non ho ancora visto il film di Fellini. Perché? Ebbene, lo confesso: per invidia: perché ho paura che mi piaccia troppo, che sia troppo bello.
D'altra parte, pochi sentimenti mi amareggiano e mi avviliscono come l'invidia. So benissimo che cosa mi capiterà quando lo vedrò. Ho già fatto l'esperienza in casi simili. Quando lo vedrò, non capirò niente: non del film, ma di me stesso, delle mie reazioni al film. Non riuscirò a dirmi se mi piace o non mi piace. Non riuscirò ad accorgermi se mi diverto o se mi annoio. E dirò poi a tutti (non soltanto a Fellini) che è meraviglioso, che è sublime, che mi sono commosso, che ho pianto, che ho urlato di gioia, eccetera. E farò tutte queste lodi non per ipocrisia, no, lo giuro! Ma soltanto per colmare nel mio cuore il vuoto angoscioso che temo vi possa scavare l'invidia.
L'unico modo, infatti, di non invidiare (e quindi di non soffrire) è di lodare: sì, lodare il rivale, lodarlo, ammirarlo senza limiti, addirittura amarlo! Se poi, col passar degli anni, questo entusiasmo resiste, tanto meglio: avevamo avuto occhio e avevamo avuto cuore. Se invece crolla, tanto meglio lo stesso: il rivale non meritava le nostre lodi, non avevamo avuto occhio, ma un cuore ancora più grande!
Dirò che 8 e mezzo è bellissimo per paura che l'invidia me ne abbia celato l'eventuale o probabile bellezza. Tra colleghi o tra affini è impossibile essere sereni. E del resto, non farò che imitare, dopo tanti anni, lo stesso Fellini; il quale, un giorno lontano, quando non era ancora regista ma soltanto apprendista-sceneggiatore, dopo aver letto un mio copione (di un film che poi non feci), mi abbracciò e mi baciò e pianse sulle mie spalle. Era sincero? Certo che lo era. Qualunque cosa; ma il morso dell'invidia, no.
[…] L'anno scorso, quando 8 e mezzo uscì, scrissi che esitavo ad andarlo a vedere e che la causa di questa esitazione era l'invidia, o, piuttosto, la paura dell'invidia.
Che cos'è l'invidia? È la tristezza o il dolore che provano alcuni al vedere l'altrui bene, l'altrui felicità. Invidia è anche il rallegrarsi dell'altrui male. Nell'uno e nell'altro caso, non esiste per me al mondo sentimento più melanconico, più vergognoso. Ogni volta che sono sfiorato dall'ala fredda e vellutata dell'invidia, provo un brivido: mi sembra quasi di accartocciarmi su me stesso: mi sento debole, impotente, sconfitto: mi riconosco sciocco e presuntuoso per avere creduto di essere molto maggiore di quanto in realtà non sono, per avere sperato, illudendomi, di firmare un giorno opere completamente al di là della mia capacità creativa. A questo brivido gelido e morbido succede, un istante dopo (solo un istante: ma ben distinto, ben separato!), una sensazione contraria, che compensa e consola: qualcosa di tepido, solido e scabro: il piacere di constatare (o di credere di constatare) che il bene altrui, da cui il primo momento mi ero escluso, in realtà non esiste, oppure non è quel gran bene che immaginavo. E godo, allora... godo, no: sto per godere del male altrui, o dell'altrui minor bene: se non che, a un terzo istante (anche questo ben distinto e separato dal secondo e dal primo), mi dico che tale godimento sarebbe artificiale, falso, miserabile: simile in tutto alla povera pace e alla sconsolata voluttà degli stupefacenti, cui è vergognoso ricorrere a meno che il nostro organismo non possa più sopportare un dolore.
Esistono, però, un quarto e un quinto istante dell'invidia. E di questi, confesserò, ho fatto parecchie volte l'esperienza. Perché non confessare? Forse che, tacendo, sono in grado di mutare la realtà? Tanto vale essere sincero, vi pare?
Quarto istante. Per paura di essere invidioso... Badate bene: non per paura di parere invidioso agli altri: evidentemente, non sarebbe una soluzione, ma soltanto un trucco... No, per paura di essere invidioso, dentro di me, taglio corto: ammiro e lodo, lodo e ammiro a tutto spiano. E mi sento, così, a posto, sussurrando a me stesso: «Sarò superiore a ciò che ammiro e lodo, sarò inferiore, in ogni caso non ho la grettezza di non riconoscere il bene altrui, non cedo all'invidia!».
Quinto istante. Avverto, nell'indiscriminato e rapido giudizio del quarto istante, ancora il soffio sottile dell'invidia. E il sussurro si precisa: «Ma sì, parlane bene, fai più presto, e soffri meno!». E ancora uno stupefacente, non c'è dubbio: il più elegante degli stupefacenti: forse non il meno nocivo. Quando, perciò, corre voce che il film o il romanzo di un collega sia bello, risolvo, nel quinto istante, di non andarlo a vedere o di non leggerlo. E la scusa non ha l'aria ignobile. Tanto è vero che non mi sono vergognato di scrivere, e pubblicare, così che anche Fellini potesse esserne informato. «Credo che non andrò, caro Federico, a vedere 8 e mezzo, perché temo che il timore dell'invidia mi costringa a lodarlo forse esageratamente, forse ingiustamente: temo, cioè, di non essere in grado di vederlo davvero con serenità. E preferisco questa confessione al morso dell'invidia».
Il quinto istante fu lungo. Dopo qualche tempo, l'ano scorso, i cinema di prima visione finalmente tolsero 8 e mezzo dal cartellone. I mesi passavano. Qualche volta, percorrendo in macchina l'Aurelia, alla Spezia, a Grosseto, vedevo che lo davano: e pensavo che avrei potuto fermarmi ed entrare nel cinema, quasi di nascosto da me stesso: o come se, così, avessi potuto assistere al film e poi ricordarmene soltanto se mi fosse parso brutto, ma dimenticarmene se invece mi fosse parso bello. Lo stesso mi accadeva, a Milano, a Torino, a Roma, se girando per le vie scorgevo 8 e mezzo annunciato in qualche cinema di seconda, o se, sfogliando un quotidiano cittadino, alla pagina degli spettacoli il mio occhio, fulmineo ed inesorabile esecutore di un rimorso, distingueva subito 8 e mezzo nella lista, sovente stampata a minutissimi caratteri, dei film di seconda.
Finalmente, 8 e mezzo scomparve dalla circolazione: e io cominciavo a dimenticarmi di non averlo visto: allorché, in questi giorni, gli Oscar lo riportano ai primi cinema e mi svelano una volta per sempre che neppure col quinto momento avevo superato l'invidia: neppure la nobile ammissione di non voler vedere il film per paura di lodarlo troppo aveva medicato la profonda e amara ferita: e che dovevo, per forza, affrontare il sesto istante, vedere, cioè il film e cercare di giudicarlo con tutta la serenità e la giustizia e l'amore di cui ero capace. Amore dell'arte: non amore di un'opera e di una persona.
Così, ho fatto. E sono andato. E l'ho visto. E il destino mi ha punito dei miei cinque istanti dell'invidia. Perché, nella sala pienissima, trovai un solo posto, ottimo e centrale, ma che presentava l'inconveniente eccezionale di esporre il mio udito alle continue osservazioni ad alta voce di due signore milanesi che erano sedute dietro di me. Parlavano in un modo così irritante, che, contrariamente alla mia natura e alla mia abitudine, non provai nessuna curiosità di vedere che faccia avessero: e non mi voltai nemmeno una volta. Oppure, era, ancora, l'invidia che mi rodeva e mi deformava. Perché le due signore, a ogni scena, a ogni inquadratura, a ogni battuta, a ogni gesto, mi infliggevano un esasperante contrappunto di lodi. Erano lodi sciocche, senza dubbio. A dritto e a rovescio, nei momenti meno prevedibili, con instancabile fede dicevano: «Hai visto com'è bello? Ma come è fatto bene! Che fantasia! Ah, ma è straordinario! Meraviglioso! Stupendo! Com'è bravo! È il tormento, capisci? il tormento dell'artista, del regista! Che profondità!». E dall'accento monotono, insistente, lievemente lamentoso di questo loro basso (o contralto) continuo, si deduceva che, dentro di loro, le due poverette non capivano niente, non ammiravano niente, e, spaventate di essere escluse da un'opera che per quasi generale consenso dell'intellighentia dei critici è ritenuta un capolavoro, un film con quattro o cinque stelle, si affrettavano a professarsene adoratrici. Un fenomeno di snobismo, insomma.
Terribilmente infastidito da questo continuo, dico continuo commento elogiativo, pensai che avrei avuto il diritto di protestare e di esigere il silenzio. Non osai, tuttavia. Avevo la coda di paglia. Provavo ancora il morso dell'invidia: mentre assistevo al film e mi abbandonavo alle sue bellezze e scorgevo i suoi difetti, temevo ancora, se avessi zittito le due signore, di zittirle non perché mi disturbavano, ma perché lodavano Fellini. Non volevo, insomma, passare per invidioso di fronte a me stesso. A un certo momento, perfino, pensai che le due signore mi avessero riconosciuto (la mia immagine, neanche a farlo apposta, era apparsa prima del film, per qualche attimo, nel documentario) e proprio per questo si ostinassero così implacabilmente a lodare il film: forse avevano letto il mio pezzo dell'anno scorso, dove dicevo dell'invidia, e adesso mi castigavano, mi prendevano in giro. Mah!
Se devo riassumere il mio giudizio su 8 e mezzo, dirò, ora, che si tratta, pur con tutti gli errori di intellettualismo snobismo fumismo, del film migliore di Pelimi insieme a I vitelloni. Due film in cui, più che in ogni altro, compresa La dolce vita, Fellini cerca di essere sincero: ossia fedele alla propria ispirazione. E qual è l'ispirazione di Fellini?
Non c'è dubbio: è un'ispirazione modernissima: astratta, esistenziale, informale: è la facilità di visione presa per se stessa: l'accoglimento del mondo quale si presenta ai suoi occhi, gremito di contraddizioni soprassalti confusioni, privo della capacità di registrare le tradizionali distinzioni logiche etiche estetiche, e quasi disgregato: un mondo alle soglie del magico. Negli altri precedenti film, a questa ispirazione Fellini aveva creduto, in buona fede, che fosse suo dovere sovrapporre, di volta in volta, un'ideologia qualunque, prendendola d'accatto senza esitare da cliché letterari vecchiotti e sentimentali (La strada, Le notti di Cabiria): senza esitare: tanto, ciò che a lui importava era altro: era un balletto, una fantasmagoria della disgregazione in cui si sentiva divampare come in un falò che brucia tutto quanto. Nella Dolce vita, era l'ideologia, anche questa vecchissima, dell'erotismo. Fra tutti gli altri film, I vitelloni, nonostante l'apparenza, è il più simile a 8 e mezzo: e quindi, fra gli altri, il più bello. Dove il senso dell'insulso o del nulla, a cui i giovani della cittadina adriatica giungono naturalmente durante i
lunghi mesi dell'inerzia invernale, è molto simile alla decomposizione mentale e morale del grande regista arrivato e che (è una battuta di 8 e mezzo) sa di non aver niente da dire se non, appunto, questo: che non ha niente da dire. Così che 8 e mezzo è difettoso tutte le volte che si allontana da questo assioma del niente da dire: tutte le volte che Fellini si crede in obbligo di fornire un significato, un simbolo, un sentimento, un rimorso, un'aspirazione che non sia contenuta in quella fondamentale verità. Ho telefonato a Fellini dicendogli che il continuo confondere realtà e sogno è, forse, la bellezza più viva di tutto il film. «Stupendo!», gridavo al telefono. «Dopo aver rifiutato tutte le altre distinzioni che ho detto, tu rifiuti anche questa, elementare e sostanziale, tra ciò che accade e ciò che uno immagina!». E gli ho anche detto che, se avessi visto il film prima dell'ultimo mixage, gli avrei addirittura consigliato di ridoppiare tutti i discorsi troppo sensati e riflessivi (specialmente quelli di Mastroianni: quelli che sembrano racchiudere una qualunque ideologia, o accennarvi), ridoppiarli in una lingua inesistente e incomprensibile, o coprirli di rumori e di musiche. Allora, il meraviglioso nonsenso dell'insieme sarebbe stato più chiaro: e si sarebbe evitata l'insopportabile lamentosità filosofeggiante di tanti passi, la simbologia ammiccante, l'intenerimento misticheggiante...
A parte questi difetti: bello, però, bellissimo. Quando la bellezza mi fu chiara senza più possibilità di dubbi, cioè verso i tre quarti del film, mi sentii, vivaddio! guarito dall'invidia. La sincera ammirazione, il sincero amore di un'opera produce sempre questo riposante effetto. Le due signore, pur dando qualche segno di stanchezza, continuavano a lodare: accesi un toscano e feci in modo da mandare il fumo alle mie spalle, verso di loro. Dopo qualche minuto, protestarono. Allora mi voltai e dissi: «Spengo subito il sigaro, ma alla condizione che loro stiano zitte, per piacere».
Arrivai, così, nella più perfetta ammirazione, senza più essere disturbato, né dal di fuori né dall'interno di me, alla deliziosa passerella finale, alla esaltante marcetta del mio Nino Rota, al momento indimenticabile e travolgente del piccolo collegiale tutto bianco che dirige la banda dei clowns: una manina tiene il piffero, l'altra batte il tempo con prodigiosa energia, con trionfale autorità. E mi tornarono a mente le famose pagine di Fromentin sulla Ronda di notte di Rembrandt: in particolar modo quella sulla figura chiara, quasi fosforescente della fanciulletta che marcia insieme ai grandi e scuri armati. Tutti si chiedevano, sempre, chi fosse quella figurina bizzarra, che cosa significasse. Fromentin esamina e scarta le varie ipotesi, e, finalmente, «a tutte queste domande un po' vane del perché di tante cose che probabilmente non hanno perché», così immagina che Rembrandt stesso risponda: «Quella fanciulletta, è un capriccio non meno bizzarro e altrettanto plausibile di parecchi altri della mia opera di incisore o di pittore. L'ho collocata come una stretta luce dentro grandi masse di ombra, perché la sua esiguità la rendeva più vibrante e perché mi è convenuto svegliare con un lampo uno degli angoli scuri del mio
quadro... Amo ciò che sfavilla, e per questo l'ho rivestita di una materia sfavillante...».
Il collegiale bianco di 8 e mezzo è un'evidente spiri-tualizzazione del collegiale nero che abbiamo visto prima nel corso del film: è Vanimula del regista Guido, ossia di Fellini stesso (almeno in quanto il regista Guido è la trasposizione di Fellini). Così, difatti, Fellini risponde a chi lo interroghi sulla figuretta del collegiale bianco.
Invece, io vorrei che Fellini potesse rispondere come Rembrandt. Allora la sua arte non avrebbe i limiti che ha. Come Rembrandt è, tutto, pittura pura: così lui sarebbe puro cinema, e niente altro.
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 200
«Al di là di un'unità certo indiscutibile, che gli viene dall'enorme e singolare personalità creatrice del suo autore, l'opera di Federico Fellini, considerata oggi, presenta al centro una rottura non meno indiscutibile». L'osservazione di Amengual ci consente di riprendere il discorso su Fellini dalla Dolce vita, ponendoci il problema dell'identità, dell'analogia e della differenza nel suo sistema espressivo. La rottura significa per il regista possibilità improvvisa di scoprire, con assoluta libertà e felicità inventiva, un tipo di cinema finora appena intuito e comunque represso dalla produzione.
Il discorso critico non riesce, neppure in minima parte, a dar ragione del clima trascinante ed esaltante, dell'avventura irripetibile vissuta dal regista e dalla troupe nel periodo che, a giudizio pressoché unanime, appare come il più creativo di tutta la carriera felliniana. D'altra parte non si vuole qui aggiungere nulla a quanto già detto in un capitolo precedente, ma solo partire da osservazioni marginali per ristabilire il contatto con l'autore.
Diciamo pure che, con La dolce vita, Fellini scopre e inventa una forma di epica cinematografica di cui, in seguito, apparirà come il cantore più imitato e difficilmente ripetibile. Da un momento all'altro egli si sente liberato dai complessi nei confronti del super ego della critica, per cui si lascia guidare dal proprio immaginario, armando tutte le vele, che per anni era stato costretto a orzare per la miopia dei produttori. La sua navigazione assume subito un andamento maestoso.
Quello che è certo e subito palese alla critica è che il modello e l'idea di cinema, verso cui Fellini punta, sono situati in un emisfero posto agli antipodi del cinema neorealista, ancora considerato, come si è detto, punto fondamentale d'orientamento.
Da qui una ripresa di vis polemica ad ampio spettro che vale la pena di rievocare anche per restituire, sia pure con frammenti minimi, le condizioni in cui l'opera di Fellini si muove sia nei confronti dell'accoglienza italiana che di quella internazionale. Scandagliare la critica felliniana dagli anni Cinquanta agli anni Novanta o anche semplicemente soffermarsi sulle reazioni a questo film, può dare risultati imprevedibili, comparabili con quelli di un esame spettrografico a organi che presiedono a funzioni morali, estetiche, ideologiche, sociali, politiche e avere l'effetto di un viaggio doloroso di scoperta di connessioni tra voci in apparenza distanti e difformi, di utilizzazioni nella concorde azione destmens di comuni procedimenti retorici, forme lessicali, sintagmi che imprevedibilmente, ahimè, affratellano nella stessa vis polemica e volontà distruttiva, nella stessa ottusità visiva, e nella stessa indignazione morale o ideologica, sia pure a fini diversi, i giudizi di un grande italianista come Luigi Russo e quelli di un poeta e letterato come Franco Fortini, quelli dell'onorevole Macrì, che risponde a un'indignata interrogazione alla Camera dei deputati, con quelli del Centro Cattolico Cinematografico o del critico del giornale di parrocchia, con le lettere che incitano gli organi giudiziari a intervenire ravvisando più situazioni suscettibili di denuncia e oltraggi alla religione e a varie autorità.
Come per L'amour fou, il cinema di Fellini produce dei moti di dérèglement de tous le sens nella critica e nel pubblico, creando stati confusionali, reazioni isteriche, perdita di percezione dei confini tra dimensioni irrazionali e razionali. Curiosamente sono proprio gli alfieri della visione laica e razionale ad avere le reazioni più irrazionali.
Molti autori in ogni caso sentiranno soprattutto di fronte alla Dolce vita una minaccia mortale anzitutto per il neorealismo (ormai di fatto già defunto da qualche tempo), ma anche per la religione, il comune senso del pudore, l'unità della famiglia e, via via allargando il campo, la Cultura, la Poesia, l'Arte, il Teatro, la Letteratura, l'Ideologia, l'Umanità, la tradizione del pensiero occidentale, l'ortodossia psicanalitica, i grandi Valori...
Sono anni - come abbiamo visto - in cui la battaglia delle idee è ancora particolarmente vivace o cruenta, eppure Fellini fa saltare allegramente le trincee ideologiche e porta le schiere dei critici di destra e sinistra a unirsi e a tenersi per mano, come in un finale di un suo film, nel condannarlo o sminuirne i risultati ora per ragioni religiose, ora narrative, ora morali, ora ideologiche. Il corpo felliniano è destinato a diventare, dopo la consacrazione della Dolce vita, una sorta di corpo mistico attorno a cui si celebra un'agape ipertrofica, e soprattutto un corpo di cui tutto il cinema della modernità non potrà fare a meno (Benigni ha detto che è come una grande quercia alla quale tutti si sono alimentati, e Woody Allen: «Ci sono casi nella storia del cinema in cui la fortuna ha baciato il genio - Chaplin, Fellini, Kurosawa, Keaton»). Un corpo però che per la critica si presta prima di tutto a una lapidazione esemplare, con bordate sparate da grossi calibri della cultura e della critica e con fiondate o stilettate che mirano a ferire La dolce vita con giudizi di questo tipo: «Noia spaventosa [...] con questo film Fellini si è rovinato come regista» Flora Volpini su «Paese Sera» dell'11 febbraio 1960, o il giudizio di Carlo Laurenzi: «Come documento di costume [...] è un film interessante, ma non valido: gli impediscono di acquisire validità, a mio parere, l'inconsistenza stilistica, l'affanno del racconto, la grossolanità non giustificata né riscattata. È amaro che Flaiano non sia riuscito a sollevare il tono dell'opera» («Avanti!», 13 febbraio 1960).
In perfetta controparte è da collocare una considerevole parte della critica internazionale che non esita a riconoscere la genialità di Fellini e a laurearlo con il massimo dei voti in tutto il mondo, ma soprattutto a manifestare, anche nei casi di delusione, un senso di amore totale e incondizionato.
In Francia certo si possono trovare le più intelligenti e generose recensioni al cinema di Fellini, recensioni straordinarie per la capacità di reazione immediata, disposizione e disponibilità a capire, prima di giudicare e volontà e capacità di contestualizzare in maniera intelligente il film nel quadro della creatività italiana del dopoguerra. E sempre - come valore aggiunto - un flusso d'affettività che non teme, a ogni uscita di un nuovo film, di dichiararsi individualmente o in forma corale, di esaltare le caratteristiche del singolo autore, ma anche i caratteri di uno spirito nazionale che si ama e si ammira. C'è una circolazione di energia positiva che circonda il cinema di Fellini all'estero che non si registra mai in maniera analoga in Italia.
Si può dire comunque che La dolce vita produce degli effetti «clessidra» nella critica italiana e internazionale.
Il film suscita, dall'indomani della sua uscita e poi del suo trionfo a Cannes, in tutto il mondo discussioni e giudizi contrastanti: vale la pena accostare subito alle parole entusiastiche di Simenon, che definisce il film «uno dei pilastri del cinema» e che ne è stato letteralmente fulminato alla prima visione contribuendo in maniera determinante a far conferire la Palma d'oro proprio a Cannes in quanto presidente della giuria, il giudizio sprezzante del grande italianista Luigi Russo in una delle sue mitiche Noterelle e schermaglie su «Belfagor»: «II successo del film - scrive Russo - per me non è dovuto granché alle qualità innegabili di Fellini, perché in esso si tratta, in tutti i casi, di episodi in un certo senso scontati [...]. Il film è tutto ispirato al cattolicesimo, come ha visto bene il Pasolini, ma aggiungo io per rispetto alla religione dei padri, a un cattolicesimo putrefatto, cioè ateo. Che i cattolici dell'"Osservatore romano" ne dicano male questo non significa nulla. Si aggiunga l'ispirazione radicaleggiante e massoneggiante, che irride a un cattolicesimo troppo utilitario per essere cattolicesimo genuino [...] da cattolico ateo egli [Fellini] 'mercifica' per dirla con neologismo recente, anche la religione [...]. Siamo dolenti di dover dare questo giudizio molto severo su Fellini, perché egli era uno dei registi che più apprezzavamo [...]. Il film ha avuto un grande successo specialmente presso la gente ingenua e inesperta [...]. Per me si tratta di un film che si compiace e gavazza nella putredine, come certi peccatori dell'Inferno dantesco, in una certa melma che non dico [...]. Il Fellini lo chiamerei il Guido da Verona della cinematografia: ricordo sempre le file di sartine che facevano la coda alla libreria Treves vicino alla libreria Umberto quando fu pubblicato Sciogli le trecce Maria Maddalena».
Il grande italianista vede schierarsi al suo fianco con ragioni simili, ma non identiche, anche Franco Fortini, che sulle pagine dell'«Avanti!», dopo aver constatato come primo limite della Dolce vita «l'assenza del donde e del dove», enumera le sue reazioni emotive, ideali e ideologiche in questo modo: «II primo moto è d'ira per il ripugnante esistenzial-cattolicesimo di sfondo tanto meno giustificato che nella Strada e in altri film del medesimo autore [...]. La seconda impressione, la più durevole è quella di un grosso, molto grosso e grave fatto politico e d'opinione, considerando che il film non sarebbe mai stato né finanziato né proiettato senza l'ausilio di qualche eminenza [...]. Ma considerando poi il film a mente fredda, mi è parso chiaro che i richiami alla Grazia e alla Santità vi siano tanto tenui e l'adesione al mondo della Dissipazione tanto ben equilibrata con la ripugnanza che il film è ateo nel senso volgare».
Sembra far eco con identica indignazione, ma con ragioni opposte, dalle pagine dell'organo della curia padovana «La Difesa del popolo», Fausto Vallarne con un articolo intitolato La cattedra del vizio: «II verismo di certe scene e la satira di certe altre sono una scuola pornografica e una irrisione delle cose più sacre [...]. Siamo convinti che non si può parlare di arte là dove il verismo striscia nel fango rasentando l'oscenità e il sacrilegio».
Basta! è il titolo di un articolo dell'«Osservatore romano» che così si conclude: «Bisogna, è tempo, che quel basta finalmente gridato dagli spettatori si indirizzi ai pubblici poteri cui compete e la sanità e il rispetto e il buon nome di un popolo civile».
In quei i giorni, nel corso della seduta parlamentare del 17 febbraio 1960 viene presentata alla Camera dai deputati Quintieri, Pennacchini e Negroni una interrogazione della quale il governo riconosce l'urgenza.
Sono convinto che La dolce vita sia un film che produce non solo dei traumi di superficie, percepibili nei titoli (appunto Basta! Sconcia vita, Vita blasfema, La cattedra del vizio), ma anche dei traumi profondi nella critica cinematografica, nel mondo cattolico e in quello laico, non meno profondi dei mutamenti catastrofici su molti paradigmi e assetti narrativi e immaginativi del cinema del periodo che comunque è già tutto in tensione: in qualche modo è un film che segna l'avvio del disgelo, crea fratture all'interno dei fronti contrapposti, mescolando le carte dell'ideologia e dei differenti credo e, se vogliamo avvicinare di più lo sguardo ai modi della critica, si può dire che lo stato confusionale che avvolge e travolge critici cattolici e laici, è scatenato proprio dalla incapacità di capire a fondo quale sia realmente il punto di vista del regista rispetto alla materia trattata, di etichettarlo e di lasciarsi andare al flusso immaginativo felliniano. Senza che mai si avverta, neppure in una sola riga delle centinaia di recensioni sparse, una minima concessione al senso dell'ironia e senza che nessuno riesca a sottrarsi ai giochi di ruolo ideologici che di fatto celebrano sul corpo della Dolce vita i loro ultimi riti e fanno brillare i fuochi epigonici della guerra fredda. Si potrebbe semplicemente partire dall'effetto di spiazzamento delle sequenze dell'ascensione e della traslazione della statua del Cristo e da quello strano abbraccio del corpo e della forma urbis di Roma: in una sorta di immediata babelizzazione delle lingue si parla nelle lettere all'«Osservatore romano» o negli articoli di cattolicesimo putrefatto, di massoneria, di cattolicesimo ateo, di ateismo volgare, di film moralissimo, puritano, cattolicissimo addirittura ortodosso (Fratelli), di coraggiosa e ardita morale cristiana (Alleata).
«Non sempre la materia è decantata - scrive Mario Gromo - appartiene ancora e sovente alla cronaca. Non lievita, non vibra». «Come cinegiornale il film è splendido - scrive malignamente Morando Morandini su 'La Notte' - ma in Fellini e nella sua visione del mondo c'è qualcosa di morbido, di femmineo, di insincero, che da un suono falso» (6 febbraio 1960). «Si avverte - scrive Arturo Lanocita sul 'Corriere della Sera' - lo stato di grazia del regista [...] ma i dialoghi sono soltanto mediocri, altri interpreti tradiscono il dilettantismo e purtroppo l'essenziale si mescola con il superfluo, l'esplicito con l'oscuro, lo spontaneo con il voluto».
Qualche reazione negativa si coglie anche in Francia, ma Rene Cortade su «Arts» così scrive del film nel maggio del 1960: «II cinema più puro, più audace è al servizio di una delle visioni più profonde, più originali del nostro tempo. Raramente le possibilità molteplici di cui dispone il cinema, sono state associate in modo più felice e più completo, utilizzate con maggior forza».
La dolce vita è come una pietra filosofale con effetto contrario a quello ricercato dagli alchimisti: ha una forza d'urto tale che favorisce come una sorta di degrado nella materia intellettuale di molte personalità di valore assoluto.
Il film si situa inoltre come uno spartiacque tra una fase di recupero di figure marginali e di emarginati, di forme di spettacolo subalterno in via di sparizione e una nuova fase di ricerca di nuovi compagni di strada, di nuovi soggetti di racconto, attraverso i quali il regista punta a una esplorazione di diverse realtà, non ultimi i fantasmi e i mostri dell'inconscio. Marcello vive proprio nel punto di rottura: la sua osservazione dei mostri della società che gli sta intorno lo porta insensibilmente a esserne attirato e quasi risucchiato. A partire dalla Dolce vita, con una progressione e una dilatazione sempre più priva di limitazioni, si assiste a un'enorme proliferazione di figure mostruose o, per molti versi, dotate di un aspetto inquietante. In tutta la storia del cinema non c'è forse un altro caso in cui si ritrovi un'eguale materializzazione diffusa del senso di inquietante estraneità (l'Unheimliche), di cui parlava Freud. Il viaggio compiuto dai personaggi felliniani è, in effetti, un viaggio di iniziazione alla vita, di uscita dall'infanzia e di conoscenza, un viaggio che conduce alla «familiarizzazione dei mostri», alla esorcizzazione di ogni paura e alla trasformazione di ogni volto malefico in immagine propizia e benefica.
Proprio come voleva Freud, anche in Fellini l'inquietante estraneità diventa, poco alla volta, familiare. Raggiunta la capacità di dominare e orchestrare tutti i motivi del suo film, giocando tra i due poli in opposizione di caos e ordine, Fellini scriverà e realizzerà le sue opere eseguendole e arricchendone le variazioni attorno ad alcuni temi fondamentali.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Dopo il 1960, come osserva in un capitolo fondamentale del suo studio su Fellini Peter Bondanella, il regista abbandona ogni reale interesse per la rappresentazione mimetica della vita quotidiana e decide di entrare più decisamente nel proprio mondo interiore inserendo degli elementi onirici all'interno di una struttura metacinematografica. Da questo momento uno dei fondamenti della poetica neorealistica, la tendenza a far coincidere il reale con il visibile, viene tranquillamente superato: il visibile si può aprire a dimensioni molto più vaste del reale e la macchina da presa si situa sulla linea di confine della realtà tentando sconfinamenti sempre più regolari.
Il suo cinema - più di quello di qualsiasi altro regista italiano - è biologicamente legato alla sua esistenza, ne segue i ritmi e le trasformazioni. La dolce vita e 8½ (1963) ne rappresentano la fase esistenziale e creativa solare e meridiana, mentre, a partire da Toby Dammit (1967), breve episodio tratto da una novella di Edgar Allan Poe, fa la sua prima apparizione la morte, evento casuale, ma possibile, da cominciare a iscrivere nel cerchio narrativo e a ospitare in maniera sempre più ricorrente.
Intanto, a partire dalla Dolce vita e in misura maggiore con 8½, nonostante la critica tenti in vario modo e da varie parti di ridurne il ruolo e di ridimensionarlo, smascherandone la falsità, i limiti culturali e ideologici, ecc., la fama del regista cresce e si consolida in tutto il mondo, dal Giappone all'Australia, dagli Stati Uniti alla Patagonia. Le monografie pubblicate nel mondo su di lui non si contano, eppure la sua opera continua a dar l'impressione di attraversare la storia del cinema contemporaneo come un unidentified object. C'è, nel suo lavoro, un margine di senso che cresce spontaneamente a contatto col pubblico e che nessun altro regista è capace di produrre in maniera analoga. Ciò che resta oscuro non è dunque tanto il senso dei suoi messaggi quanto la produzione del senso nei confronti dei destinatari. Le stesse reazioni della critica sono sempre sottodimensionate, ma sembra quasi impossibile assumere un punto di vista neutro o equidistante. Fellini è un narratore che affida il racconto ai personaggi, eppure non resta mai in ombra: la sua presenza è implicita così come forse altrettanto implicita è la presenza del destinatario, che può riconoscersi e identificarsi in qualsiasi ruolo all'interno del film.
Il lavoro di Fellini, pur così individualistico, ha necessariamente a che fare con fenomeni tuttora non indagati nella memoria collettiva: questa potrebbe essere una linea di ricerca e di indagine possibile delle ragioni del suo successo.
Nell'ultima fase della sua produzione, che inizia alla fine degli anni Sessanta, giunge per lui il tempo dei bilanci, delle sintesi di vita e di una interrogazione nuova sul significato dell'esistenza. Il tema, dai margini del discorso, occupa il centro della scena in Casanova e nella Città delle donne. L'autore e l'eroe e soggetto dell'azione del film, in genere suo alter ego, o suo doppio, tirano le fila e redigono i primi bilanci, a partire dal momento in cui si sentono abbandonare dai flussi vitali.
L'immagine felliniana, negli ultimi decenni, si è venuta incupendo poco alla volta, riempiendosi di paesaggi nebbiosi, notturni, di apparizioni spettrali, di senso di disfacimento di tutte le apparenze del visibile. Il disfacimento osservato nella Dolce vita era, in qualche modo, mascherato da un'apparenza di giovinezza e fisicità ancora integra. Già nel Satyricon il sistema è rovesciato: sotto la maschera dei personaggi, i volti di gesso, il regista rintraccia le zone più oscure e i personaggi si immettono, direttamente e senza possibilità di equivoco, in un mondo in pieno sfacelo, alle soglie dell'apocalisse.
L'opera chiave di tutta questa fase è 8½: Fellini vi definisce una struttura, raggiunge un ritmo e organizza i diversi piani in un perfetto equilibrio reciproco interno, con un procedere progressivo verso il caos e il massimo di entropia e con l'improvvisa e quasi magica capacità di riordinare gli elementi e trovare la chiave per ricongiungere i fili sparsi e incomprensibili del reale e del vissuto.
I moduli, le cifre, la simbologia, le scelte iconografiche generali sono fissati, una volta per sempre, al livello di massima rappresentatività. In questo film, che si colloca rispetto al cinema italiano del dopoguerra in posizione simile alla Cappella Sistina rispetto alla pittura del Rinascimento, l'orizzonte realistico è varcato ma non perso di vista, le coordinate spazio-temporali sono destrutturate e tutto un mondo immaginativo è evocato e convocato in scena simultaneamente e sistemato in un quadro grandioso. Più flussi temporali si accavallano e intrecciano e il tempo interno è il vero ordinatore narrativo. Con 8½ Fellini assume in servizio permanente del proprio immaginario i fantasmi dell'inconscio, ereditando e fondendo, in un magico calderone immaginativo, oltre alle suggestioni di Pirandello, Dante, di Thomas S. Eliot e di Jung quelle di quella vastissima ed eterogenea iconografia popolare già formatasi nell'infanzia. Varcato l'orizzonte del reale tutto un mondo immaginativo è convocato in scena insieme per essere sistemato in un affresco grandioso, che rompe tutti gli argini dei modelli codificati di racconto, lasciandoli di colpo alla deriva, dietro di sé. Se negli anni Cinquanta Fellini aveva travasato le forme di spettacolo popolare rendendole soggetti della narrazione dagli anni Sessanta il suo racconto diventa un enorme contenitore in cui si mescolano insieme forme alte e basse della cultura di massa, che via via si incamminano verso una sorta di destinazione finale televisiva. Non c'è più racconto, le immagini fluiscono in modo tumultuoso, costruiscono il loro senso per accumulazione mantenendo tutta la loro ambiguità e il loro senso epifanico e misterico.
Il passaggio biunivoco dalla dimensione reale a quella onirica è continuo e da un certo momento la soglia di separazione diventa pressoché indistinguibile. 8½ colloca il regista al massimo livello degli autori visionari del cinema, a fianco di Orson Welles e Bunuel, Kurosawa e Bergman. «Il sogno, l'immaginazione, il ricordo, in quanto non essere, finiscono con l'avere il sopravvento sul cosiddetto mondo reale e, in quanto non-essere, diventano un messaggio indicativo del primato dell'autenticità - del mondo interiore rispetto al formalismo e all'automatismo della vita quotidiana».
Lo sdoppiamento di personalità messo in atto in 8½ viene ripreso, così come non si perde il legame col mondo dei personaggi degli anni Cinquanta. Li si catapulta in nuove realtà e li si osserva alla luce del loro mondo onirico. In Giulietta degli spiriti (1965), grazie anche al colore, Fellini libera una quantità ulteriore di istinti immaginativi finora rimasti sotto controllo. Questa esplosione vitalistica di immagini passa anche attraverso Le tentazioni del dottor Antonio, episodio del film Boccaccio '70, in cui Fellini condensa i motivi precedenti e annuncia i seguenti.
Va osservato, sia pure in forma parentetica, che molto spesso, nella misura concentrata del corto o mediometraggio, Fellini riesce a ottenere sintesi di significanti e significati di grande livello. Nella sua filmografia opere come Le tentazioni del dottor Antonio, Toby Dammit, I clowns, Prova d'orchestra, costituiscono vere e proprie svolte, momenti di crisi e di trasformazione.
Quanto a Giulietta degli spiriti, il regista compie, tra tutti i viaggi della memoria, lo sforzo di maggiore recupero di figure e situazioni dell'immaginario cattolico. Questo è anche l'unico film che cerca di esplorare il mondo della controparte femminile e di vederlo animato e coabitato da una folla di presenze uscite direttamente dall'iconografia della religione cattolica e da figure di sacerdotesse del sesso, che invitano alla liberazione del corpo e alla trasgressione dei comandamenti e dei tabù. Dall'inconscio di Giulietta giunge e dilaga una processione interminabile di monache, santi, vergini e martiri, e nello stesso tempo di bambini, maschere, manichini e donne dotate di una fisicità prepotente e peccaminosa. Il film mette in scena riti e comportamenti perduti o in via di sparizione, che interessano il regista in misura del tutto omologa a quella del circo. Il rito collettivo religioso accumulato nel vissuto di Giulietta, che ne condiziona e reprime non pochi desideri, è del tutto in analogia con tutti gli altri spettacoli e riti collettivi del circo, dell'avanspettacolo, della festa, dei concorsi di bellezza, di cui il regista ci aveva già parlato nella sua opera degli anni Cinquanta. Così, mentre la festa, vista come parata del potere, lo porterà in Amarcord a mettere in luce l'aspetto teratologico del rituale, la festa che appartiene al vissuto popolare, sia pure nelle sue varianti di cinema, teatro, circo è sempre un tentativo di scendere alle radici della vitalità collettiva e di integrare il piano autobiografico in quello di un immaginario assai più esteso.
Satyricon (1969), I clowns (1970), Roma (1971), Amarcord (1973) costituiscono un blocco di invenzione figurativa e narrativa che riunisce e celebra, nel modo più fastoso, la morfologia dell'immaginario felliniano. Il regista estrae, come dal cappello di un prestigiatore, una quantità di immagini, di figure, di sensazioni e di emozioni che integrano il suo vissuto personale con quello di una collettività, e gioca con una tavolozza infinita di colori estremamente cangianti, ora densi, corposi, brillanti, vellutati, ora freddi e spettrali.
Satyricon, opera in cui ha più cercato di valorizzare il senso della diversità, della distanza, della disarticolazione degli elementi narrativi, della deformazione, rivela anche lo sforzo maggiore di spingersi oltre i confini di un immaginario legato al proprio vissuto. Le tre opere seguenti segnano, al contrario, una sorta di riappaesamento, di viaggio alla riscoperta o alla scoperta di realtà appena uscite dalla memoria collettiva. I clowns è prodotto per la televisione e dopo il successo della proiezione veneziana si pensa a una distribuzione nelle sale che viene fortemente contestata dagli esercenti. È la prima volta che si verifica questa sorta di rifiuto.
La disposizione del regista in queste opere è, al tempo stesso, quella emotivamente coinvolta del soggetto che ha vissuto e rivive situazioni ed emozioni e del testimone che nel farsi dell'opera scopre e vive, per la prima volta, emozioni inedite, intravede squarci imprevisti oltre i dati delle sue capacità immaginative.
Fondamentale, in questo senso, il viaggio inchiesta dei Clowns, ma soprattutto la sequenza della scoperta della casa romana e degli affreschi che spariscono immediatamente nel corso della visita ai lavori della metropolitana in Roma. In alcuni momenti, come questo, Fellini pare volerti comunicare le proprie capacità e fiducia nella possibilità di dilatazione infinita del suo viaggio nell'immaginario collettivo, e il proprio arrestarsi sulla soglia del quasi conosciuto, con timore che la trasgressione possa produrre danni all'oggetto e alla sua stessa capacità inventiva.
«Era molto tempo - ha scritto Fellini in Fare un film - che avevo in mente di fare un film sul mio paese, il paese dove sono nato. Mi si potrà obiettare che, in fin dei conti, non ho fatto altro: forse è vero; eppure io continuavo a sentirmi così ingombrato da tutta una serie di personaggi e situazioni che avevano a che fare col mio paese e così per liberarmene definitivamente sono stato costretto a sistemarli in un film. Amarcord voleva essere il commiato definitivo da Rimini, da tutto il fatiscente e sempre contagioso teatrino riminese [...] soprattutto voleva essere l'addio a una certa stagione della vita». Con Amarcord il sistema felliniano conosciuto pare ripresentarsi eppure ci si trova di fronte a qualcosa di nuovo e di diverso. Il film non vuole essere tanto l'addio e un taglio definitivo con il passato, quanto il recupero di quella parte di se stesso iscritta nel ventennio fascista che, molto a lungo, si era mostrata solo negli aspetti mostruosi e teratologici.
Fellini, in realtà, ha voluto fare i conti col subconscio non ancora risolto di alcune generazioni di italiani che hanno seppellito per sempre dentro di sé il passato in camicia nera. La modestia alla portata dei sogni collettivi di un paese che di lì a poco parte per andare alla conquista del mondo è raccontata attraversando sempre intrecci di sentimenti contraddittori e componendo forse il più armonico e grandioso affresco e concentrato di sogni, ricordi, emozioni, speranze, riti individuali e collettivi sulla vita italiana tra le due guerre che sia stato realizzato.
Amarcord è il punto di confluenza tra i ricordi autobiografici e l'ingrandimento dei sogni e desideri dell'italiano popolare che viaggia attraverso il fascismo cercando di difendere un proprio nucleo autentico di personalità, vivendo il momento più grottesco e vestendo le maschere più tragiche di tutta la storia più recente.
Ma al di là delle parate, dei riti più ridicoli, al di là dei travestimenti imposti dal regime, il regista riesce a rappresentare, anche negli aspetti positivi, il senso della festa collettiva, vuole far giungere fino a noi le radiazioni di calore umano che si sprigionano dalla miriade di forme di vita associativa della provincia, al bar, al cinema, al circo, in piazza, in un teatro in cui piccole compagnie di guitti mettono in scena uno spettacolo.
Nel teatrino della memoria ogni personaggio recita la sua parte ed è indispensabile alla riuscita dell'architettura complessiva. Per la prima volta si sollecita dallo spettatore un coinvolgimento diretto e un riconoscimento di proprietà comune di quel patrimonio di immagini. «La provincia di Amarcord è quella dove tutti siamo riconoscibili, autore in testa nell'ignoranza che ci confondeva [...]. Non si può combattere il fascismo senza identificarlo con la nostra parte stupida, meschina, velleitaria, una parte che non ha partito politico... questa parte sta dentro ciascuno di noi e a essa già una volta il fascismo ha dato voce, autorità, credito».
Con questo grande film Fellini ci ha insegnato a non avere paura delle presenze inquietanti nella nostra storia collettiva, ma ad avvicinarle, a esplorarle proprio in quanto parte di noi stessi. Abituarci a guardare meglio nel nostro passato significa imparare a guardare più a fondo nel nostro presente, nonostante sarebbe più facile ignorare l'esistenza di questi conti, andare avanti troncando ogni legame con gli aspetti più scomodi della storia nazionale.
Se è vero che i film successivi alla Dolce vita e a 8½ sono varianti di un'unica storia, si potrà vedere il viaggio dei personaggi felliniani fino al Casanova e alla Città delle donne come un percorso quasi obbligato che si svolge al di fuori di coordinate spazio-temporali. Dalla Roma odierna, grazie a un semplice mutamento a vista, si potrà così passare alla dolce vita della società neroniana, allo stesso modo come il seduttore Giacomo Casanova altro non sarà che un antenato del Guido di 8½. Con ogni probabilità la prima idea di realizzare un film sul grande seduttore gli viene da Giovanni Comisso, che gli aveva mandato una sceneggiatura su Casanova alla fine degli anni Cinquanta.
Come il regista, anche l'avventuriero del Settecento è un produttore di spettacolo che investe le proprie energie in un lavoro capace di produrre il godimento altrui. In maniera più tragicamente alienata, rispetto al protagonista di 8½, e posto sotto uno sguardo che ne isola l'esistenza su un unico piano biologico, Casanova è un cottimista, un maratoneta dell'eros, che si esibisce per il piacere altrui.
L'uccello meccanico che porta con sé e accompagna le sue prestazioni non è solo l'evidente simbolizzazione dell'automatismo schizofrenico delle prestazioni stesse, ma è anche il timer che scandisce il senso di perfezionamento del lavoro artigianale e di ascesa sociale in rapporto a questo perfezionamento successivo.
Ciò che segna una svolta nell'immaginario del regista, che ci fa capire come ormai l'orizzonte che si apre sia carico di presentimenti e sensazioni di morte, che lo investono in prima persona, è dato dallo scorrere di tutte le immagini entro un'atmosfera costante e gelida di morte. Chi gode non è mai soggetto dell'azione. Casanova sente, più ancora del suo discendente contemporaneo, l'espropriazione da parte della società.
In Casanova lo sforzo di metaforizzazione dell'esistenza, il tentativo di rompere il diaframma che separa l'apparenza dalla realtà, il conscio dall'inconscio, il presente dal passato, è raggiunto nel finale, in sede di bilancio globale della vita del protagonista.
Il viaggio felliniano porta i protagonisti a prendere atto dello spreco, del vuoto riempito da finte e surrogatone impressioni di gioia, piacere e comunicazione con gli altri.
Il senso di morte dell'ultimo Fellini è dato anche dal fatto che, mentre per il passato, fino ai Clowns e in parte in Amarcord, gli ambienti facevano respirare sensazioni legate a esperienze «a misura d'uomo», in Roma, nel Satyricon e La città delle donne, prevale una specie di gigantismo, una messa in scena di un enorme museo vivente, un album di figure animate dalle proporzioni abnormi. Si tratta di un museo costruito come un grandioso parco delle meraviglie, in cui la macchina da presa si muove e fa muovere i personaggi, come sulle montagne russe, dando sensazioni alterne di grande esaltazione e vuoto improvviso. Pensando anche a Prova d'orchestra, opera chiave nella carriera dell'ultimo Fellini, si ha l'impressione che il regista senta ancora pulsare la vita dei suoi personaggi di una potenza autonoma rispetto alla capacità di dominarli e iscriverli prevedibilmente nel proprio progetto. Il caos raggiunge in questo film un climax parossistico, forse senza eguali nelle opere precedenti del regista. Alla fine, però, egli riafferma come sempre il suo dominio, il suo potere di controllo e coordinamento.
Qualcuno vi ha voluto vedere una metafora della situazione politica e sociale dell'Italia. Piace pensare che il regista, in realtà, abbia ancora una volta voluto parlare di sé. Facendoci capire, in modo meno spettacolare che altrove, come in una fase di visibile e sensibile perdita di energia, egli non consideri affatto chiusi i conti né con il cinema, né con la vita. E se la morte è ormai un'ospite fissa nella sua ultima produzione, essa non ha più nulla di inquietante: la si può far rientrare tra i personaggi familiari, che continuano a muoversi e a tenersi per mano in un carosello che è anche una morsa, un inghiottitoio con cui si deve imparare a convivere.
Le figure nella scena si dilatano e deformano: ovunque prevale una specie di gigantismo, quasi il gusto di costruire un museo di freaks, organizzato come un grandioso parco delle meraviglie, dove la macchina da presa si muove e fa muovere i personaggi come sulle montagne russe dando sensazioni alterne di grande euforia e di vuoto improvviso.
Si ha l'impressione, osservando Prova d'orchestra o La città delle donne o E la nave va o La voce della luna; che il regista riesca ancora a sentir pulsare la vita dei suoi personaggi di una potenza autonoma rispetto alle sue capacità di dominarli, ma che anche loro, nonostante la loro vitalità incontenibile, siano destinati a finire in un inghiottitoio mostruoso e ben più terrorizzante dato dall'avvento dell'era televisiva. Un respiro più ampio e ambizioni più esplicite sono riscontrabili in E la nave va, opera in cui l'intreccio tra vita e spettacolo si trova a dover fare i conti con la storia e il peso incombente di un collasso mondiale. E la nave va prospetta l'approssimarsi dell'incubo nucleare e suggerisce, con due soli elementi sopravvissuti, l'uomo il rinoceronte, la versione minimale dell'arca di Noè. Il velo funebre che poco a poco si stende su Fellini nasce anche dal procedere sincronico, di catastrofe in catastrofe, verso dimensioni apocalittiche. Come se tutti avessimo capito che la fine del mondo è il nostro habitat naturale, e non potessimo più immaginarci un modo di vivere diverso.
La fine del mondo che Italo Calvino ha posto tra i temi più ricorrenti dell'ultimo Fellini.
Lo sguardo all'in dietro non impedisce di sentirci sull'orlo del vulcano, proprio come i protagonisti del film. Chi, da questo momento, cerca di mantenere un rapporto di equidistanza rispetto ai suoi personaggi è proprio il regista. Il tocco deformante si è fatto più leggero e in molte scene si accosta ai suoi attori quasi in punta dei piedi, godendosi il piacere di vederli recitare.
Questo avviene con Giulietta Masina e Mastroianni in Ginger e Fred e con Paolo Villaggio e Roberto Benigni nella Voce della luna. Eppure mai come in questi ultimi film si ha l'impressione che Fellini possieda una tale forza demiurgica da riuscire a dirigere perfino le minime variazioni di pulviscolo atmosferico sulla scena.
La morte, che nelle opere in costume o in Amarcord si era presentata con un volto familiare, con E la nave va assume il carattere metaforico dell'incubo nucleare prossimo venturo. Però anche in questo film si apre una doppia linea di fuga: quella della finzione nella finzione e quella della possibilità di qualcuno di sopravvivere alla catastrofe ricreando, con due sole unità, un nucleo ideale di esseri da salvare.
Un pericolo che non è certo esorcizzabile con un piccolo teatrino di figure cinematografiche. Molto più concreto e vicino quello costituito dalla televisione e il genocidio effettuato nei confronti della specie dell'uomo cinematografico. Pur prendendo atto della durezza dell'assedio e dell'inevitabilità della sconfitta Fellini, trincerato tra le mura amiche e ben protetto dallo spazio placentare di Cinecittà, non rinuncia a sparare le ultime cartucce (nell'Intervista, in Ginger e Fred e nella Voce della luna).
Al risveglio dai vari incubi che agitano gli ultimi attimi di questo millennio morente Fellini sceglie di rinchiudere la propria immaginazione in dimensioni minimali e ci vuoi probabilmente dire, rispetto a Pasolini, che il mondo dei suoi personaggi, benché racchiuso in spazi più modesti, non sparirà del tutto. Quando un autore come lui riesce ancora a realizzare, in un film che ha sconcertato felliniani e fellinologi, una sequenza come quella del valzer di Paolo Villaggio nella Voce della luna diventa legittimo sperare ancora nel futuro del cinema. Potrà continuare a vivere, come ha detto nell'Intervista, nella misura in cui a tutti i registi cinematografici - condannati ormai a vivere in una sorta di riserva indiana - sarà concesso di far funzionare la macchina da presa e saranno ancora in grado di far muovere la folla dei personaggi all'interno del proprio bunker sempre più indifeso e di trovare un punto di fuga attraverso cui riuscire a mettersi in salvo o riuscire a far naufragare dolcemente la propria follia immaginativa.
Cassandra mediatica, Fellini ha avuto la capacità di continuare a sperare nella sua possibilità di fare film, anche accettando umilmente - per pure ragioni di sopravvivenza - di girare alcuni spot pubblicitari per il Banco di Roma nella realizzazione dei quali riesce comunque a dare la sensazione della potenza, della creazione da zero del Mondo, della fusione e reincarnazione del mago Merlino, di Prospero della Tempesta di Shakespeare, di un Crotone dei Giganti della montagna di Pirandello, di un demiurgo che, anche per pochissimi secondi, quando la macchina da presa inizia a girare sa far rivivere ancora una volta la magia del suo mondo.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Dieci anni fa, esattamente il 10 dicembre del 1976, Il Casanova di Federico Fellini (tale il suo titolo completo) iniziava il suo cammino nelle sale cinematografiche italiane. Il successo di pubblico non risultò pari alle attese (così più tardi in Europa e soprattutto in America) e la critica si divise ovunque nelle valutazioni. Fu una delle opere più controverse di Fellini, ma in genere i dissensi sopravanzarono gli entusiasmi. A noi personalmente li Casanova piacque allora e continua a piacere anche oggi. Vale forse la pena di ripresentarlo ai lettori come se fosse una novità.
I film troppo chiacchierati dall'autore rischiano sovente di apparire diversi allo spettatore. A Fellini piace sempre scherzare e bisogna stare attenti a non prenderlo in parola. In questo caso egli ha voluto accreditare l'immagine di un Casanova che visceralmente e moralmente gli ripugnasse, di un uomo provvisto di tutti i vizi e i difetti dell'italiano medio qualunquista e cialtrone, di uno scrittore noioso, millantatore e illeggibile.
Bene, è venuta fuori un'altra cosa o, meglio, due cose: un personaggio inserito nel suo tempo storico più di quanto fosse lecito attendersi dall'artefice di un film come il Satyricon, e insieme un personaggio proiettato emblematicamente nell'oggi, come dal racconto che cercheremo di fare delle sue avventure cinematografiche, sarà forse possibile arguire.
Tra questi due aspetti c'è probabilmente più contrasto che saldatura; e come sempre accade di fronte a un film di Fellini affetto da gigantismo, può darsi che lo spettatore ne esca più sbalordito che illuminato, più frastornato anche in senso ammirativo, che convinto. In ogni caso l'antipatia conclamata e la presunta insofferenza si sono trasformate, sullo schermo, in comprensione e in plastica resa, tanto che Donald Sutherland nei panni dell'eroe è ben lontano dall'esibizione, tutto sommato monocorde, che aveva dato del fascista in Novecento di Bertolucci; e bisogna pur dire che se il Casanova non è autobiografico come altri film di Fellini, poco ci manca, perché non soltanto vi si ritrovano molti dei suoi motivi (e come sarebbe possibile altrimenti?), ma si ha perfino una sorta di identificazione, necessaria al suo stesso stile, sulla quale tenteremo di gettare qualche luce. Ma intanto crediamo sia utile sapere con precisione che cosa racconta questo Casanova e anche, almeno nei limiti del possibile, «come» lo racconta.
Mai come in quest'opera tra le sue più costose, un regista quale Fellini ne ha stravolto la rutilante impalcatura miliardaria in una «visionarietà stralunata» (la definizione è di suo pugno, e questa volta corrisponde al vero), la quale si trasfigura in una serie virulenta e delirante di quadri eccessivi, quale più e quale meno riuscito, legati da un filo tenuissimo, ma che tutti insieme conducono a una sublimazione magari anche sgangherata, eppure quasi sempre potente e spesso geniale, del personaggio e della sua cornice, intendendo per questa e per quello non soltanto il Settecento, che è evidentemente una metafora, ma i tempi nostri e un archetipo nostrano.
Un rituale carnevalesco apre la spettacolosa mascherata. Su un Canal Grande di fantasia, tra fuochi artificiali, formule sacramentali e interiezioni sboccate, tra il tripudio e gli esorcismi del popolino e delle autorità, una polena, ossia la testa che guidava un naviglio chissà quando affondato, emerge di poco. È un feticcione femmineo dagli occhi bene aperti, forse una mediterranea dèa della vita, incredibilmente preservata dalle acque marce dei fondali. Già Fellini vorrebbe avanzare una chiave allegorica, un grimaldello corale per aprire il forziere ideologico del film. Ma gli argani e le funi, le strutture che gli uomini manovrano non reggono: il simbolo non può nascere e risprofonda nella notte muschiosa della laguna tra un vociare turbinoso di delusione e lamenti. Anche le intenzioni del regista, per un eccesso frastornante di spettacolo, vanno a farsi benedire. Qui prevale l'arsenale tecnologico e questo non vale la candela.
Non vale, cioè, la candela solitaria di Casanova che, su una laguna plumbea e in tempesta, in camicione bianco attende una monaca che gli ha dato appuntamento. Qui l'erotismo, sfrenato con la giusta dose di ribalderia e di simpatia, è semplicemente delizioso. Tra affreschi osceni la monachella ammiccante, orientaleggiante come una sacerdotessa del tutto atea, guida il gentiluomo, sicurissimo di sé, a fare il suo dovere. Compare per la prima volta il magnifico gioiello, una specie di uccellone meccanico e semovente tra il colombo e il gufo, che Casanova imita aprendo come lui le ali e accogliendo sotto il camicione la compiacente e allegrissima vittima.
Il gioco, che ha aspetti acrobatici, da trapezio e da circo, è per i due atleti del sesso tanto più piccante, in quanto sanno di non esser soli dietro l'occhio di un pescione sbalzato su una parete, c'è infatti un guardone di alto lignaggio, l'ambasciatore di Francia, che osserva e si complimenta col cavaliere. Ma come per incanto si dilegua dal suo foro privilegiato appena costui, sudante, sbuffante e grugnente nella sua esibizione olimpionica, gli elenca le proprie smisurate capacità anche in altri campi, dall'ingegneria alla cabala, dalla letteratura alla politica, dall'economia all'alchimia.
Di ritorno sullo stesso mare nemico, Casanova sente le voci &I tribunale dell'Inquisizione che, con l'accusa di eresia e di magia nera, di cui egli si proclama innocente, gli commina il castigo di essere «passato sotto i Piombi». Ed è durante la prigionia, cui è stato introdotto dal malizioso ma sgrammaticato s'accomodà di un guardiano, che il signor Giacomo comincia a rimpiangere la vita libera d'un tempo, quando sostava azzimato e ironico, fatuo e disincantato, tra le cucitrici parlottanti in cerchio attorno a un'enorme tovaglia, o si appartava con un'avida cliente in un salotto riservato per una colazione erotica a base di ostriche e un cerimoniale tra il sadomasochistico fasullo e il carnascialesco.
Ma la perla del ricordo è una cucitrice esile, silenziosa e diafana, che sovente sviene e, curata dai salassi di un vecchio medico come Casanova da bambino, accentua la sua tendenza a cadere stecchita. Eccola, in un quadretto che è un portento di colori (il direttore della fotografia è Rotunno), sostare tra la verzura e, con un fil di voce, annunziare che è li per “un fiatin de arietta de mar prima che vègna le zanzare a beccar”. E un momento di comicità lirica rara. La cura naturalmente è un'altra, il gran seduttore è qui per questo, per far rifiorire la rosa sovra i gigli di pria.
L'evasione dai Piombi attraverso il tetto, che permette a Casanova di guardar Venezia dall'alto si da stentare a riconoscerla (come del resto noi), introduce l'esilio parigino, nel salotto della marchesa d'Urfè tra damazze turrite, maghi e veggenti d'ogni risma, e una nipotina decenne che disserta illuministicamente di teologia, mentre c'è chi sostiene che la donna abbia un numero di anime inferiore a quello dell'uomo, redarguito prontamente dall'ospite italiano per cui di anima ne basta una sola alla vera donna, purché si confonda con quella di un vero uomo nell'unione corporale.
E proprio quando cerca la matura d'Urfé, col suo sorrisetto demente convinta che il famoso cavaliere de-tenga il segreto della pietra filosofale, e possa rovesciare il re di Francia in qualunque momento («non mi permetterei mai», si schermisce galantemente Giacomo), essa si accorda con lui per un congresso carnale al profumo di Venere, che dovrebbe portarla a un'altra vita mentre porta Casanova a una bella cassa di zecchini d'oro. Anche se questa volta, ritmato dal solito simbolo alato, il suo sforzo di condurre a buon fine l'impresa sopra l'agonizzante marchesa, e sotto un'incredibile corona regale sormontata da candele accese, richiede, li accanto, la presenza scodinzolante di una procace Marcolina, scritturata per l'occasione.
Ma non ha mai, Casanova, amato col cuore? Si, una volta, quando incontrò Enrichetta, la fanciulla ideale che suonava il violoncello con tanta perfezione e grazia, da strappare al sensibile amante qualche lacrima gentile tra le siepi ben curate del giardino di Parma di cui era ospite. Ma la parentesi sentimentale sarebbe in sé deboluccia, se non fosse irrobustita da una cena all'aperto in cui un conte francese gobbo, dai confini amorosi incerti come i confini del ducato, si produce in un'operina graziosissima dove, tra le voci bianche di una coppia di castrati e un tenorile efebo danzante, egli in vesti di nero pavone intona Ogni maschio è tentator, saettando bizzarramente la lingua. Anche qui il nostro avventuriero tenta invano di difendere i valori della donna, ma è più convincente l'autodifesa ironica di Fellini che, nel mezzo del balletto che scandalizza una dama spagnola, fa piovere come per caso la frase «tutto è metaforico, vous voyez», e fa esprimere a
Casanova i complimenti per la forma dello spettacolo «ma dissenso, assoluto dissenso per l'idea che è alla base...».
Quale idea sia alla base del Casanova-film si vedrà forse meglio dopo la partenza di Enrichetta, sottratta da un potente, che conclude il primo tempo.
Dalle quali si scuote per partecipare, in un palazzo di Roma, a un'orgia che accomuna patrizi e plebei, in un coacervo belluino che riporta la città del Santo Padre - si scandalizza il narratore che ha appena ricevuto dal vecchio papa affettuosi buffetti tra una schiera di rossi cardinali - ai tempi di Trimalcione descritti nel Satyricon. E dove il clou della festa è un certame che, da homo sapiens e buon duellante esperto in fluidi, contorsioni e flessioni, Casanova non può esimersi dal vincere, sia pure contro un cocchiere che, avendo una principessa da cavalcare, sarà un selvaggio alla Rousseau, ma ha la buona grazia di chiedere con permesso. Invece la modella popolana su cui si esercita il gentiluomo è l'unica veramente avvilita, mentre gli astanti seguono i prodigiosi sviluppi della tenzone, urlando come allo stadio. Tetramente in disparte, col bicchiere e col cane, sta il principe (forse il marito della principessa, certamente l'amante della modella) che ha affittato la casa all'ambasciatore inglese «compresi i prosciutti».
Dopo questa gara tirata allo spasimo, c'è ben bisogno di ripoto, e il trionfatore lo ottiene a Berna, dove le figlie di un vecchio entomologo praticano l'agopuntura, su di lui che ha avuto un mancamento con gli spilloni con cui infilzano le farfalle. Il sorriso di Isabella, sua illuminata salvatrice, gli risveglia il fuoco, ma con lei non c'è niente da fare: per spegnerlo deve recarsi a Dresda, alla locanda dei Mori (davvero, a quei tempi, i veneziani erano dappertutto), in cui, con una intera compagnia di cantatrici grasse e magre, dritte e storte, avviene la più infame e spassosa ammucchiata che si possa immaginare, in una specie di casotto scricchiolante, sul quale l'ombra dell'Uccellone meccanico sovranamente aleggia, e dove la splendida musica di Nino Rota tien dietro al ritmo collettivo, spegnendosi a un certo punto nella spossatezza, e riprendendo subito dopo col ritorno della iena, mentre il casotto, ormai, addirittura cammina.
Questa seconda orgia, più scatenata della prima, e in cui il talento di Fellini si disfrena in arabeschi geniali (a guardare i muri, come nella successiva sequenza a corte si può pensare a Dreyer), «dissolve» sul palcoscenico granducale, dove gli attori cantano a squarciagola. Poi il magnifico teatro si svuota, i lampadari accesi vengono calati quasi al suolo, spenti e rialzati da una squadra di servizio che si allontana a passo cadenzato, e una sola persona rimane in un palco: è la vecchia madre di Casanova, che il figlio si prende in spalla e accompagna alla carrozza, salutandola per sempre come l'immagine stessa della morte.
E ora nel Wurttemberg, nello staterello tedesco che aveva a quei tempi, si dice, la corte più brillante d'Europa, se per brillante s'intende qualcosa di estremamente brutale, demoniaco e prenazista. Tra fuoco, birra e cannoni, infuria un baccanale liturgico e pagano, in un turbinio di gente che sale a metà muro per suonare gli organi colà disposti (scene e costumi di Danilo Donati, su ideazione scenografica di Fellini), intona canti di guerra misti a romanze, fuma la pipa o ascolta una conchiglia, insomma fa di tutto meno che ascoltare il povero Casanova il quale, dopo aver offerto alla regina che fuma e non parla una tabacchiera che è pregiata soltanto per lui, invano si sgola, in quella infernale indifferenza, per illustrare certi suoi disegni di fortificazioni. Ed è qui che la violenza, sparsa lungo il corso dei film, si sublima in ferocia: una ferocia che esprime una società, in cui perfino l'intellettuale servile è ormai messo al bando.
E che ne è del grande amatore? Eccitato dalla bellezza di una bambola meccanica, opera di un artefice non meno degno di colui che costruì il giocatore di scacchi di Norimberga, il più famoso gaudente del secolo parla e danza con lei, e finisce col portarsela a letto e farsene possedere. Ma inutilmente, dopo averlo accontentato, la bambola si dispone a ricever da lui analogo omaggio. Casanova si guarda allo specchio, si cosparge il volto di cipria, ma sta per diventare anch'egli irrimediabilmente vecchio.
Bibliotecario in un castello boemo, crede di ottenere fama dal suo Cosameron piuttosto che dalle sue Memorie, si adonta perché non gli servono i «macaroni», e gli imbrattano il ritratto nelle latrine, si offende perché i giovani ridono quando recita la pazzia d'Orlando dell'Ariosto: “In tanta rabbia e in tanto furor venne”. Sale ansimando le scale della sua stanzetta, dove il simbolo fallico giace tra i libri come in un tempietto. E sogna di Venezia, delle sue donne che appaiono e dispaiono come fantasmi, di una silenziosa carrozza dorata, da cui il papa ridente e rimbambito fa segno come per dire: ne hai fatte, eh? Però i suoi occhi rossi e vecchi, in primissimo piano contemplano infine un se stesso giovane e danzante, ma che danza con la bambola meccanica al suono di un carillon.
Non sarebbe facile, e Fellini col suo sceneggiatore Bernardino Zapponi è stato giustamente lontano dal farlo, dare un giudizio immediato e lapidario sulla figura storica di Casanova. Potremmo dire che viaggiò più lui in diligenza che il signor Henry Kissinger in aereo e che, più di questi, fu a diretto contatto con le corti e i plenipotenziari dell'epoca sua, che amò più donne e forse in modo più fantasioso e che non fece della sua laurea in diritto canonico e romano un'arte di vita, né delle sue pubblicazioni scientifiche dei best seller per dimostrare come va amministrato il mondo. Fu di un vitalismo incomparabile, di una curiosità mai sazia, e di risorse mentali bene agguerrite per sopravvivere con uno spazio personale entro quel costume settecentesco e cortigiano che faceva tutt'uno con la storia coronata d'Europa. Un'Europa paludata a giganteschi ricami, che giocava a moscacieca per esorcizzare le proprie paure, una sopra tutte e tremenda:
la paura dell'illuminismo, come semina teorica della rivoluzione. Casanova non fece in tempo a vederla, forse non ne sarebbe stato neppure entusiasta, ma il fatto che non sia vissuto abbastanza, che sia giunto soltanto alla soglia dell'evento come talvolta gli accadde'di arrivare soltanto alla soglia del tempio d'amore, questo fatto rimane in fondo - per i suoi posteri che ne conoscono lo spirito di osservazione, e per Fellini che fisiologicamente lo condivide - almeno un'occasione di rimpianto.
È la prima volta nella sua lunga professione di regista, che Fellini fuoriesce dal proprio terreno peninsulare, per siglare col suo umore fantastico non una Roma di questa o quella decadenza, una Rimini patita o sognata, ma addirittura un continente, una civiltà che, oggi, si definisce occidentale. Sarebbe irriverente vedere in questa espertissima guida che fu Giacomo Casanova veneziano - per comodo, s'intende - un certo tipo di «uomo MEC" (Mercato Comune Europeo) dei giorni nostri?
Attraverso i suoi mirabolanti trascorsi, ma soprattutto attraverso la vera fuga per le capitali di tutta Europa, inseguito dai fantasmi della sua parlata e della sua gente, attraverso le sue velleità infinite come uomo di sapere, i suoi insaziabili appetiti, le pignolerie da capitano di bordo con cui narrò la sua traversata, Fellini vede in Casanova qualcuno che, suo malgrado, nella sua sprovveduta schiettezza, rivela pure che il suo personaggio era quello che il secolo gli imponeva di necessità per arrivare a contatto coi dignitari «che contano». Nel film non c'e un solo accenno all'illuminismo, una sola volta è fatto il nome di Voltaire accanto a quello di Racine e del cardinal Mazarino, e si passa con naturalezza dai salotti della società-bene, con quelle dame ingioiellate fino alla cima dei capelli (e già sappiamo quanto fossero alti), alla suburra più disperata e più fosca, dove schiere di omuncoli entrano nella pancia della balena, come Giona, per ricevere lezioni di sesso come nel buio di un cinematografo.
Nei rituali, nelle feste, nelle orge, gli aristocratici si uniscono al sottoproletariato e impediscono, semplicemente impediscono alla nascente borghesia di metter fuori la testa. La rivoluzione, che non è lontana, si riassorbe dunque stilisticamente proprio nella profusione di segnali lugubri che annunciano, fin dall'apertura, lo sprofondamento di un universo di gesso, di maschere. di tecnologie che rimpiazzano l'uomo in tutto, anche nell'esercizio del sesso, salvo che in quello della violenza.
In questo universo Casanova, come già Sade per Pasolini, è nostro contemporaneo; e nell'assenza di un qualsivoglia disegno preconcetto, nell'abbandono all'espressione come all'unico veicolo di pensiero, nella dispersione volutamente sgangherata che, trasformando il personaggio Casanova nel «continente» Casanova, lo recupera alla nostra piena comprensione con la rabbia dell'umorismo, della trasgressione e del dolore, in questa febbre incessante di respingere tutto e di tutto accettare, il letterato del Settecento e il cineasta d'oggi si riconoscono e si ritrovano amici. E Fellini potrebbe ben dire: anche Giacomo Casanova veneziano c'est moi!
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006