«Il mio ciclo alla guida del PD si è chiuso»

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-03-12

Matteo Renzi annuncia al Corriere della Sera la sua intenzione di non ricandidarsi alle primarie. Ma chiude anche all’ipotesi di un suo partito, per ora

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«Il mio ciclo alla guida del Pd si è chiuso. Lascio, sul mio successore deciderà l’assemblea. No a governi istituzionali, nessuna collaborazione possibile con i 5 Stelle o con le destre»: in un’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, Matteo Renzi conferma che non si ripresenterà ad eventuali primarie del Partito Democratico come aveva anticipato Ettore Rosato ma non rinuncia a tracciare la strategia parlamentare del partito in occasione delle consultazioni del Quirinale.

«Il mio ciclo alla guida del PD si è chiuso»

«La sconfitta impone di voltare pagina. Tocca ad altri. Io darò una mano: noi non siamo quelli che non scendono dal carro,semplicemente perché il carro lo hanno sempre spinto. Continuerò a farlo con il sorriso: non ho rimpianti, non ho rancori», dice ancora Renzi quando Cazzullo gli chiede se si ricandiderà alle primarie. Sostiene che il suo partito non sia stato “né carne né pesce” e che è apparso agli elettori come rinunciatario. Ma promette: «Cinque anni fa Pd e 5 Stelle finirono 25 pari. Alle Europee è finita 40-20 per noi. Adesso 32-18 per loro. La ruota gira, la rivincita verrà prima del previsto». E ripete che se si fosse votato nel 2017 le cose sarebbero andate meglio per il PD, anche se stavolta rinuncia ad accusare chi l’ha fermato (Gentiloni e Mattarella).

matteo renzi bunker

Conferma che non sarà alle consultazioni per il nuovo governo e ribadisce che grillini e leghisti hanno lo stesso programma mentre traccia per il PD un destino di opposizione sia al M5S che alle destre, chiudendo anche all’ipotesi di astenersi per far partire un governo di centrodestra senza Salvini premier.

Il partito di Renzi? Per ora no

Sulle elezioni anticipate è netto: «Secondo me nessuno dei due schieramenti vincenti vuole tornare a votare. Prenderebbero la metà dei parlamentari che hanno adesso. Leghisti e grillini sono i più convinti che questa legislatura debba durare 5 anni. Umanamente comprensibile, sia chiaro». E ribadisce che ha intenzione di fare soltanto il senatore.

matteo renzi renziani
La conta dei renziani e dei non-più renziani (Il Messaggero, 12 marzo 2018)

Assicura anche che non ha intenzione di fondare un nuovo partito: «Di partiti in Italia ce ne sono anche troppi. Io sto nel Pd in mezzo alla mia gente. Me ne vado dalla segreteria, non dal partito». Finché durerà.

La conta dei renziani

Intanto già è partita la conta dei renziani: gli ortodossi in partenza sarebbero 214 componenti della direzione, pari al 56 per cento del totale. Sono questi i numeri del “parlamentino” Dem, che i sostenitori del segretario dimissionario confermano alla vigilia dell’appuntamento di domani. Ma secondo gli oppositori interni dell’ex leader, tanto di maggioranza quanto di minoranza, così non è più: se si andasse alla conta, Renzi non avrebbe più i numeri. Nella composizione degli organismi dirigenti seguita al congresso che nel 2017 ha incoronato Renzi segretario con il 70%, la direzione contava 162 membri della maggioranza renziana (120 ‘ortodossi’, più i seguaci di Franceschini, di Orfini e di Martina), 28 dell’area Orlando (di cui 23 “orlandiani” doc e e 5 vicini a Cuperlo), 16 dell’area Emiliano. Oggi, secondo i renziani, i pesi restano invariati: il segretario dimissionario da solo ha la maggioranza della direzione. Ma i suoi avversari assicurano che gli equilibri sono già variati e continueranno a cambiare: la ‘reggenza’ di Maurizio Martina, dicono ad esempio, farà crescere la sua area perché nella storia del partito è sempre stato così. Nessuno si spinge dunque in questo momento a incasellare le correnti dentro numeri certi, ma fonti di maggioranza “non renziana” riferiscono di nuovi equilibri nella direzione.

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Sarebbero 88 gli esponenti non più in linea con l’ex segretario, se si sommano i componenti delle minoranze (Orlando, Emiliano, Cuperlo) a quelli che fanno riferimento a Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Marco Minniti. A costoro si dovrebbero sommare una parte dei venti Millennials (quindici, secondo questo calcolo) delusi dall’esclusione dalle candidature. E i singoli rimasti esclusi dalle liste o non eletti. Vengono tenuti fuori dai conti gli esponenti vicini a un renziano indipendente come Graziano Delrio. Ma se si aggiungono ‘casi’ come quello dei siciliani (se ne conterebbero cinque o sei), che già durante le elezioni hanno espresso forte dissenso (Antonello Cracolici votò contro le liste), la maggioranza non sarebbe così blindata. Se si sposta il conteggio ai gruppi parlamentari, si registra poi la stessa ‘guerra’ di numeri. Al Senato con 57 eletti, dei quali 45 iscritti al Pd, i renziani accreditano la presenza di 38 senatori vicini al segretario uscente mentre secondo altre fonti sarebbero solo 19, più 3 orfiniani. Alla Camera il conteggio si fa più complicato: secondo i renziani sarebbero 79 i deputati d’area mentre secondo la minoranza i renziani di stretta osservanza sarebbero non più di una cinquantina.

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