Per essere cooperanti bisogna saper essere e saper fare
enel con africa

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Partiamo dal “Sapere”; è ciò che lo differenzia dal cooperante anni ’60 spesso motivato da alta idealità (a volte ideologia) e bassa scolarità. Non che la prima sia scomparsa nel terzo millennio ma si è alzata la scolarità. E, quindi, i saperi di base come conoscenze economiche, geografico/antropologiche, giuridiche, politologiche, sociologiche e storiche, con un adeguato supporto linguistico. Insomma, l’internazionalista ha delle competenze e rischia sempre meno l’approccio caritatevole da libro Cuore.

A seguire il “Saper essere”. Purtroppo le Università italiane formano raramente “cooperanti” e, quindi, “ideatori con altri di un sogno/percorso/progetto/ programma per il conseguimento di un fine” in quanto non ha la capacità di trasmettere la “relazione di pari livello”. Ciò è dato anche e soprattutto dalla modalità vertical/frontale di com’è trasmesso il sapere.

Se navighiamo tra i programmi delle “nostre fucine” noteremo che l’asimmetria nord-sud viene inconsciamente rafforzata come abitassimo ancora un tempo coloniale. Torino vuole “alleviare la povertà nel mondo e aiutare i Paesi in via di sviluppo a rafforzare le rispettive istituzioni” (caspita; non ci riesce l’Onu). Firenze, invece, offre “il proprio contributo ai processi di stabilizzazione e democrazia”. Invece Milano aiuta a realizzare una “effettiva solidarietà e giustizia sociale” (ci mancava proprio l’aggettivo “effettiva” che equivale a valutabile, concreta, evidente e non certo “aria fritta”). Mi fermo qui per amor patrio. Comprendiamo che il “saper essere” non s’impara a lezione in quanto “el mundo cambia con tu ejemplo, no con tu opinion” ma il giovane anni ’90 ha maggiori capacità di suo padre di entrare in relazione paritaria. I social e le occasioni di socialità aiutano ad esser socievoli sotto casa ove oramai, in tutti i capoluoghi di provincia italiani, abita la diversità. E sono gli anni ’90 o, addirittura, i millenians che entrano in primis “in relazione” con l’immigrazione e tutti i mondi “ai margini”.

Siamo nel post “superuomo di Nietzsche” e relativa volontà di potenza. Anzi; è l’impotenza, il saper stare al proprio posto nel mondo che lo rende “umile”. Le classifiche, dall’ UNDP a Transparency International, ci allocano ogni anno nel giusto posto al mondo. Ciò fa infuriare l’occidente che occupava o inventava “classifiche auoreferenziali” come il G7 appositamente inventate per posizionare strategicamente l’Italia tra le grandi potenze industriali. Il tutto mentre si avverava la grande fuga dall’Italia delle industrie stesse nei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

Il giovane cooperante italiano sa di essere un peso in Svizzera e/o a Londra. Sa di non avere leader politici in grado di tenere alto il suo status, la sua nomea; e di ciò soffrono soprattutto i ricercatori e i giovani scienziati sparsi tra i diversi continenti. Sa di dover convivere, come il figliol prodigo, con i PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – la parte più povera d’Europa) e non come il fratello maggiore con chi ha “cibo in abbondanza”. Ma il sentirsi “impotente”, venire insultato nei metrò d’oltremanica, lo rende più vicino agli altri cooperanti dei paesi che accolgono i migranti (sempre i PIGS) e più in sintona con il diversi sud del Mediterraneo e le controparti di oltremare in genere.

Infine, e arriviamo al “nocciolo della questione” il terzo sapere. Il saper fare…niente. Gli anni ’70 e ’80 erano caratterizzati da orde di artigiani che si fiondavano tutte le estati nelle missioni oltremare per fare, edificare, elettrificare e portare acqua. E’ stata perforata metà Africa; tutto fu bene, sia chiaro. Ma siamo ora nell’ “era della ristrutturazione”, di pensiero oltre che strutturale, e le maestranze capaci e non onerose sono già oltremare. Escono tutte da scuole specializzate. Per cui nessuno insegna più nulla a nessuno. Ci si impara assieme. Servono, quindi, intermediari, pontisti, softwaristi, ottimi facilitatori di processi, fundraisers, contabili ma, dal punto di vista hardware “nullafacenti”. Tutta l’Italia è costruita prevalentemente da immigrati. In alcun modo i cooperanti devono sostituirsi alle imprese edili locali, all’artigianato e/o ai commercianti ivi esistenti. I born anni ’90, che spesso faticano a casa loro a vuotare anche il secchio dello sporco o a lavare due piatti, sono certamente i più adatti a non sostituire le controparti. Non ci pensano nemmeno. E questo, paradossalmente, èe dopo decenni di “faccio tutto io” è un bene.

Altra caratteristica che li rende più adeguati è la fallibilità; anche qui, dopo decenni di fattibilità. Quasi tutti i progetti di cooperazione internazionale sono “falliti” già sulla carta. D’altronde siamo nel campo dell’ “ultra non profit” che, non casualmente, è disertato dal “profit e dal not-for-profit” appunto per la sua alta fallibilità. Ebbene; il giovane, a differenza dell’anziano cooperante che aveva onore, potenza da dimostrare, stima da salvaguardare, tempistica da rispettare, promesse da mantenere e leggi alle quali rispondere non ha tutte queste “pare” e, parimenti la controparte dei sud del mondo, tenta un percorso; sa che può cadere e avrà, probabilmente, maggior capacità di rialzarsi. E’ nato tra start up e incubatori che sono “l’inno alla fallibilità”.

Il giovane è infatti cresciuto condividendo spazi, segreterie e fallimenti. L’insostenibilità è parte del suo essere. E in cooperazione internazionale ancora si valutano i progetti sulla loro sostenibilità. Nulla di più insostenibile. Ho trovato fior fiore di funzionari, nella mia vita di desk (il desk o è un amministrativo puro o è una sorta di “cooperante a riposo” che dopo esser stato per anni nel field lo si trova dietro una scrivania a progettare e rendicontare) che con tanto di laurea magistralis e master in cooperazione internazionale mi spiegano quanto dovesse esser sostenibile il progetto che andavo loro sottoponendo. Un ospedale o una scuola, dopo tre anni, “devono camminare con le proprie gambe” come se la nostra sanità e la nostra educazione, iperforaggiata da secoli, non avessero bisogno di enormi contributi pubblici per raggiungere la sufficienza.

Inutile. “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca 17,7-10). Sull’inutilità ho scritto molto ma sono stato intervistato da un solo docente (Stefano Pollini). Ho relazionato in alcune Università sulla “fallibilità” ma mai sull’ “inutilità” e qui dovrebbero venirmi in aiuto, forse, la psicanalisi da un lato e dall’altro l’economia (in quanto anche i corsi universitari sono un business).  Nell’abitare questa inutilità credo che il giovane cooperante, anni ’90, abbia maggiori capacità del “salvatore” anni ’60. In un mondo ove si bypassano gli step della telefonia fissa e mobile passando direttamente a quella on line. Dove la luce arriva dal pannello solare di ultima generazione e non via cavo e dove l’informazione dal digitale terrestre scavalca a piè pari l’analogico capita che ogni progetto “strutturale” fatto oggi rischia l’inutilità domani. Per cui v’è un ritorno, anche in cooperazione internazionale, alla socialità, alle modalità per abbassare il conflitto, al tentativo di relazione paritaria, all’ideazione collettiva. Anche se non convincono molto i donatori perchè sul bla-bla-bla c’è chi ha speculato.

Insomma, un ritorno alla cooperazione più genuina dalla quale, a volte, nascono progettualità di successo perchè, in cooperazione, 1 + 1 fa ancora 3. A me sembra che i millenians, a riguardo, siano più portati di noi ad “abitare questa terra”. A lavorare per essere inutili. Ed è una buona notizia.

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