Bulgaria. La comunità turcofona divisa tra due patrie

di Armando Donninelli

In Bulgaria, quindi nel contesto UE, vi è un’ampia e spesso dimenticata comunità di lingua turca. Secondo il censimento del 2021, l’ultimo effettuato, all’interno del paese balcanico sono presenti 508.375 persone che si dichiarano di madre lingua turca, ciò corrisponde all’8,4% della popolazione complessiva. Anche se presenti in quasi tutto il paese si concentrano in prevalenza nella zona nord orientale e nella provincia meridionale di Kardzali, al confine con la Grecia.
L’origine della presenza di tale comunità è da ricondurre alla conquista da parte dell’Impero Ottomano del territorio corrispondente all’attuale Bulgaria, ciò alla fine del XIV secolo. Da quel momento, fino agli inizi del secolo successivo, furono inviati dal nuovo stato sovrano un consistente numero di coloni di lingua turca, al fine soprattutto di avere un migliore controllo sul territorio.
Nel 1908 la Bulgaria ottenne ufficialmente l’indipendenza dall’Impero Ottomano. Da quel momento per la comunità turcofona, fino ad allora predominante, iniziò un lungo periodo di discriminazioni e persecuzioni. Ciò causò l’emigrazione verso la Turchia di centinaia di migliaia di turcofoni nel corso delle Guerre Balcaniche (1912-1913), della Prima Guerra Mondiale, oltre allo scambio di popolazioni seguito a tali eventi bellici.
I diritti di tale minoranza, già pesantemente limitati, furono ulteriormente ridotti dall’avvento al potere in Bulgaria del regime comunista, ciò nel periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il governo comunista era particolarmente ostile nei confronti dei turcofoni, sostenendo che fossero Bulgari convertiti all’Islam, e di conseguenza dovevano essere ricondotti alle proprie origini e negati i diritti che consentivano di tutelare la propria identità turca. Venne proibito l’uso in pubblico della lingua turca e furono vietate alcune pratiche religiose relative alla fede islamica, questo solo per citare le violazioni più gravi.
Ovviamente questo clima favoriva l’emigrazione del turcofoni, si calcola che circa 200mila di loro abbandonarono la Bulgaria per andare in Turchia nel periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine degli anni ’70 del secolo scorso.
Il mancato rispetto dei diritti fondamentali dei turcofoni era alla base delle pessime relazioni tra il regime comunista e la Turchia che, anche in virtù della sua connotazione ideologica derivante dall’appartenenza alla NATO, non aveva molti strumenti per negoziare con Sofia per migliorare la loro condizione.
Il governo comunista deteriorò ulteriormente la situazione a partire dal 1984 quando, non pago di quanto già fatto, iniziò una campagna per il cambio forzato dei nomi turchi in bulgari. Vi furono delle violente proteste che provocarono decine di morti.
Nel 1989 il regime comunista, prossimo al crollo, facilitò la concessione dei visti per l’emigrazione in Turchia. Il risultato fu che in pochi mesi circa 320mila turcofoni, esasperati da una situazione di pesante violazione dei propri diritti, abbandonarono il paese in cui erano nati.
Nel dicembre del 1989, crollato il regime comunista, l’ex prigioniero politico Ahmed Dogan fondò il partito che nei decenni successivi rappresenterà prevalentemente gli interessi della comunità turco fona, vale a dire il Movimento per i Diritti e le Libertà (DPS).
Nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, nonostante alcune difficoltà iniziali, i governi democraticamente eletti restituirono ai turcofoni i diritti sottratti nei decenni precedenti. Ciò determinò un notevole miglioramento per i membri di tale comunità, con il conseguente ritorno di circa 50mila suoi membri che precedentemente se ne erano andati.
Certamente positivo per i turcofoni è stato l’ingresso della Bulgaria nella UE, avvenuto nel 2007. Difatti nel corso del procedimento di adesione Sofia ha dovuto adattarsi ai parametri stabiliti dalla UE nei Criteri di Copenaghen e che, tra le altre cose, si occupano del rispetto delle minoranze.
In base a queste indicazioni sono stati fatti dei miglioramenti al sistema educativo, alla presenza nelle istituzioni e agli investimenti di cui beneficia tale comunità. Da non dimenticare, sempre nell’ambito del processo di adesione alla UE, la riforma del sistema giudiziario diretta a fornire una maggiore protezione alle minoranze.
All’inizio del nuovo millennio il DPS, con circa il 10% dei voti, ha assunto un ruolo importante nella vita politica bulgara, anche perché ago della bilancia nella contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra. Ciò ha determinato l’ingresso del DPS in diverse coalizioni di governo che hanno amministrato la Bulgaria da tale momento.
Ciò che è emerso chiaramente dall’azione di tale forza politica è il forte collegamento con gli interessi di Ankara, dalla quale riceve anche supporto materiale. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla forte ostilità dimostrata in passato da questo partito al riconoscimento da parte delle istituzioni bulgare del genocidio armeno.
La Turchia sta cercando di aumentare la sua influenza sulla propria comunità residente in Bulgaria, oltre che tramite il supporto al DPS, anche tramite la realizzazione di opere di vario genere. Di questo aspetto si occupa il Direttorato per gli Affari Religiosi (DIYANET). Tale organismo, direttamente dipendente dalla presidenza del Consiglio turca, da alcuni decenni ha finanziato in modo considerevole la costruzione di moschee, centri culturali, scuole religiose e, contemporaneamente, il restauro di siti realizzati nel periodo del dominio ottomano, siano essi di carattere religioso o laico.
L’interventismo turco presso la propria comunità ha cominciato a crescere in maniera esponenziale a partire dal 2002, anno dell’arrivo al potere ad Ankara dell’AKP. Tale forza politica aveva già da allora un progetto di crescente penetrazione nei paesi un tempo dominati dall’Impero Ottomano. La Bulgaria in tale disegno espansionistico ha un ruolo centrale dato che ospita la più grande comunità turca, in termini percentuali rispetto alla popolazione complessiva, di tutta Europa. In particolare è stato Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri dal 2009 al 2014 e successivamente primo ministro fino al 2016, a rafforzare tramite ingenti investimenti la politica di rafforzamento dei legami con la comunità turcofona della Bulgaria.
Va comunque riconosciuto che la crescente presenza della Turchia all’interno della propria comunità residente in Bulgaria ha contribuito in modo decisivo a vanificare i tentativi di diffusione della dottrina wahhabista, originaria della penisola Arabica e che può contare su consistenti finanziamenti provenienti proprio da quell’area.
Recentemente è stato il governo bulgaro a parlare del pericolo derivante dalla diffusione di tale dottrina radicale tra i pomacchi, cioè di madrelingua bulgara ma fede islamica, e tra i rom convertiti all’Islam. Ciò viene confermato da alcuni arresti che sono stati effettuati tra rom musulmani per attività legate all’estremismo religioso. Il problema, a detta delle stesse autorità, non si pone per la minoranza turcofona, del resto tradizionalmente laica e tollerante.
Nonostante tale aspetto rassicurante, le autorità di Sofia sono allarmate dall’attivismo di Ankara in campo religioso, ciò in quanto temono che possa danneggiare il carattere laico dello stato. Nel 2017 il governo nazionalista di Sofia ha annullato un accordo con la Turchia che consentiva a quest’ultima di pagare gli stipendi di 600 imam e una parte delle spese sostenute dalle moschee e da altre istituzioni religiose. Nel medesimo anno un ufficiale della DIYANET operante in Turchia è stato dichiarato persona non grata, ciò in quanto, a detta delle autorità bulgare, stava promuovendo la nascita in Bulgaria di un partito dalle connotazioni religiose collegato a tale potente agenzia governativa.
Da parte delle autorità bulgare vi è stato negli anni recenti un netto irrigidimento sui finanziamenti provenienti dalla Turchia e diretti ad istituzioni religiose. Basti pensare che il 27 marzo del 2019 il ministro degli Esteri turco annunciò l’intenzione di Ankara di condonare il debito di circa 4 milioni di euro dovuto dall’ufficio del Gran Mufti bulgaro e, quasi immediatamente, l’esecutivo bulgaro reagì in modo sdegnato inviando una risentita nota di protesta all’ambasciata di Turchia a Sofia. Anche i discorsi che il presidente della Turchia fa da tempo relativi ad un’unione ideale, anche se non materiale, fra turchi residenti in diversi paesi, vengono accolti con crescente insofferenza dai governanti bulgari.
Va ricordato che la Bulgaria è entrata da alcuni anni in una fase di grande convulsione della scena politica interna, caratterizzata da scandali in materia di corruzione ed abuso di potere, il tutto in un contesto di difficile governabilità interna, come del resto dimostrano le frequenti elezioni anticipate. Secondo alcuni analisti il recente incremento dell’attività del governo turco, diretta a rinsaldare e condizionare la propria comunità è da ricondurre al desiderio di Ankara di sfruttare il varco lasciato aperto dall’instabilità della politica interna bulgara.
L’ostilità di Sofia verso il crescente attivismo della Turchia all’interno della comunità turcofona bulgara è da ricondurre anche alla questione demografica che, in particolare in Bulgaria, è molto grave. Il paese è caratterizzato difatti da un basso livello di natalità e da una forte tendenza all’emigrazione, ciò ha determinato negli ultimi trenta anni un calo di circa il 30% della popolazione complessiva. Tuttavia, avvertono i demografi, il peggio deve ancora arrivare. Il Centro per le Politiche Demografiche ha effettuato una proiezione sulla composizione della popolazione bulgara del 2050 da cui risulta che, in quel periodo, i bulgari saranno solo la terza etnia del paese con 800mila membri, nettamente superati dai 3.500.000 rom e da 1.200.000 turchi. Del resto i bulgari già oggi, pur essendo ancora la principale etnia del paese, sono solo al terzo posto per numero di nascite annuali, dietro a rom e turchi.
In sostanza i politici di Sofia, anche se con diverse sfumature, temono in futuro una modificazione etnica del paese di cui il principale beneficiario sarebbe proprio la confinante Turchia, ciò risveglia anche i ricordi, spesso spiacevoli, del periodo sotto il dominio ottomano.
A dimostrazione di come la questione relativa alla comunità turcofona del Bulgaria sia divenuta un notevole punto di frizione tra i due paesi, si possono ricordare le frequenti polemiche nei periodi elettorali relative al ruolo che avrebbe Ankara nel orientare le scelte di voto dei turcofoni nelle consultazioni.
Nonostante questi problemi a livello di relazioni internazionali la vita dei turcofoni prosegue senza eccessivi scossoni. Si tratta di una comunità ampiamente secolarizzata e che guarda inevitabilmente alla Turchia ma, al tempo stesso, alla UE e ai valori che rappresenta. Da questo punto di vista la cittadinanza Bulgara, con conseguente appartenenza alla UE, costituisce per tali persone un’importante garanzia che si vuole assolutamente preservare.