Shahram Khosravi
Io sono confine (elèuthera, 2019)

Ci sono libri la cui forza si misura già nel titolo. Io sono confine dell’antropologo iraniano svedese Sharham Koshravi, pubblicato nel 2010 e ora finalmente in edizione italiana grazie all’editore elèuthera, è uno di questi. Il suo non è uno studio accademico sugli uomini che si fanno migranti e dunque illegali. È un’analisi approfondita delle migrazioni a partire dalla propria esperienza personale, da quando nel febbraio del 1987 decise di attraversare, da clandestino, il confine tra Iran, il suo Paese, e l’Afghanistan. 
«”Un solo passo”, penso, “E sarò dall’altra parte. Quando il mio piede toccherà il suolo al di là della frontiera, non sarò più lo stesso. Se faccio questo passo, sarò una persona illegale e il mondo per me non sarà più lo stesso”. Quella notte ho compiuto il passo e così è iniziata la mia odissea nell’illegalità». Un passo che, come lui, hanno fatto milioni di persone, infrangendo muri e convenzioni. 
Shahram Koshravi sarà domenica 26 maggio alle 17.30 in piazza San Bartolomeo a Pistoia, in occasione della decima edizione di Pistoia – Dialoghi sull’uomo, festival di antopologia del contemporaneo, che si svolge nella città toscana dal 24 al 26 maggio. L’antropologo svedese di origine iraniana parteciperà all’incontro dal titolo “Ancora un passo e sarò altrove. Riflessioni di un antropologo migrante illegale”.
Pubblichiamo qui, per gentile concessione di elèuthera, l’introduzione del libro.
Fabio Poletti

Questo libro parla di confini e di coloro che li violano. L’immagine paradigmatica del mondo odierno è senza dubbio quella dei clandestini stipati insieme al carico merci di un container. La foto è stata scattata con una videocamera a raggi x sul confine tra due Stati-nazione. Rende visibili gli invisibili, le persone senza documenti sul lato sbagliato di una frontiera. L’immagine a raggi x mostra soltanto sagome lattiginose stagliate su uno sfondo nero – sono esseri umani ridotti a fantasmi. Anche metaforicamente quei corpi sono stati spogliati della loro individualità, privati dei loro diritti politici. L’immagine documenta un corpo depoliticizzato, l’homo sacer, per citare Giorgio Agamben (1998), che incarna la «nuda vita», ben diversa dalla forma di esistenza politicizzata rappresentata in modo esplicito dal concetto di cittadinanza. L’immagine a raggi x testimonia la topografia egemonica dei confini.

Viviamo in un’epoca di trionfo dei confini, l’era del loro feticismo. I confini determinano l’aspetto del mondo. Le mappe rappresentano il mondo come un mosaico di unità, di nazioni, con profili precisi e aree distinte per colore. Le frontiere hanno lo scopo di designare differenze. Le odierne cartine politiche ricordano, nelle parole di Ernest Gellner, lo stile pittorico di Modigliani: «Superfici piatte e distinte, separate le une dalle altre da contorni che rendono evidente il punto in cui una finisce e l’altra comincia, con poche o nessuna ambiguità o sovrapposizione» (1990:139-140). Non c’e soluzione di continuità tra confini. Sembrano inviolabili ed eterni. Vengono tracciati in corrispondenza delle barriere naturali, come i fiumi, le montagne e i deserti, cosi da apparire a loro volta naturali. In questo modo vengono presentati come primordiali, senza tempo, parte integrante della natura.

I confini sono il simbolo degli Stati sovrani. Uno Stato-nazione è immaginabile (Anderson 1983) solo attraverso i suoi confini. Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale (Agamben 2000:42). Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini «nativo» e «nazione» hanno la stessa radice latina di «nascere». I confini degli Stati-nazione sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana (Malkki 1995a:5). Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato: «I confini plasmano la nostra percezione del mondo […]. Il pensiero dei confini e un elemento fondamentale della nostra consapevolezza del mondo» (Rumford 2006:166). I confini sono il punto di riferimento essenziale del nostro senso di comunanza, di identità. Non sono soltanto realtà esterne ma seguono le
«linee del colore», situate ovunque e in nessun luogo (Balibar 2002:78).

Spesso l’ordine nazionale delle cose viene spacciato per il loro ordine normale, o naturale. Si dà per scontato che le nazioni «reali» siano collocate nello spazio e contrassegnate dai loro confini (Malkki 1992:26). Secondo Malkki, la naturalizzazione del regime delle frontiere conduce a una visione del superamento dei confini come patologia (1992:32). La condizione di profugo – o, nel gergo botanico dell’ordine nazionale delle cose, lo sradicamento – viene presentata come la conseguenza di un modo di essere
«innaturale». I trasgressori di confini spezzano il legame tra «natività» e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione. In base a questa visione, la violazione del regime delle frontiere costituisce una violazione di norme etiche ed estetiche. Nel sistema dello Stato-nazione i richiedenti asilo non identificati e i migranti senza documenti rappresentano un «elemento inquietante soprattutto perché, spezzando l’identità tra uomo e cittadino, tra natività e nazionalità, mettono in crisi la finzione originaria della sovranità» (Agamben 1995). Non sorprende dunque che siano visti come una minaccia politica e simbolica alla sovranità e purezza nazionali. In Purezza e pericolo (1966), Mary Douglas esamina la distinzione tra puro e impuro come meccanismo per preservare la struttura sociale e determinare ciò che e moralmente accettabile. I migranti senza documenti e i clandestini che violano i confini sono contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili (Malkki 1995a; 1995b). Sono «transizionali e dunque particolarmente inquinanti, poiché non sono né una cosa ne l’altra, o forse sono entrambe; non sono né qui né là […] e quindi come minimo si collocano in una “via di mezzo” tra tutti i punti fissi riconosciuti nello spazio-tempo della classificazione culturale» (Turner 1967:97). Attraverso il discorso e la normativa politico-giuridica, questo sistema crea un essere umano politicizzato (il cittadino di uno Stato-nazione), ma anche un sotto-prodotto, un «residuo» politicamente non identificabile, un «essere non più umano» (Schutz 2000:121).

Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate (Rajaram e Grundy-Warr 2004). Il moderno Stato-nazione si è arrogato il diritto di presiedere alla distinzione tra vite produttive (legittime) e vite da scartare (illegittime) (Bauman 2004:33). Queste vite di scarto sono l’homo sacer del presente. Agamben (1998) desume l’espressione homo sacer dal diritto romano, usandola per descrivere un’esistenza e condizione che definisce «nuda vita».

L’homo sacer è stato privato della sua appartenenza alla società e pertanto dei suoi diritti. Il diritto romano non considerava
«omicidio» l’uccisione degli homines sacri. Da individuo politico, l’homo sacer viene ridotto a un semplice corpo biologico o naturale, spogliato di tutti i diritti. Secondo Agamben, il sistema degli Stati-nazione distingue tra nuda vita (depoliticizzata), zoé, e una forma di vita politica, o bios. L’homo sacer è un corpo completamente depoliticizzato, diverso dalle forme di vita politicizzate incarnate nel cittadino (Rajaram e Grundy-Warr 2004). In quanto homines sacri, i migranti irregolari sono esposti non soltanto alla violenza dello Stato (esercitata dalle normative, dagli accordi politici, dalle leggi, dalle priorità e dalle forze dell’ordine) ma anche a quella dei privati cittadini; sono totalmente inermi (Rajaram e Grundy-Warr 2004:57).

Il superamento «illegale» dei confini viola l’aspetto sacramentale dei rituali e dei simboli di frontiera, ed è configurato come reato perseguibile per legge. Il sistema dei confini è governato dalla criminalizzazione: nella formulazione di Simon (2007), la «governance mediante criminalizzazione» fa del delitto e del castigo il contesto istituzionale che definisce come criminale un segmento della popolazione (per esempio i poveri, i migranti
«clandestini», i richiedenti asilo e i «terroristi») e lo esclude (vedi anche Rose 1999:259). Il governo mediante criminalizzazione si auto-giustifica sostenendo la necessita di proteggere i cittadini dalla minaccia degli anti-cittadini (vedi Inda 2006). Trasgressori di confini, poveri, senzatetto, clandestini e richiedenti asilo non identificati sono tutti visti come una minaccia al benessere del corpo sociale.

La penalizzazione dell’immigrazione «costituisce e impone confini, sorveglia i non-cittadini, li bolla come pericolosi, malati, disonesti o diseredati, li espelle o nega loro l’accesso» (Pratt 2005:1). Stabilita l’«indesiderabilità» dei non-cittadini, la «governance mediante criminalizzazione» la implementa con controlli più severi sui confini esterni e interni, con la detenzione e la deportazione forzata. Lo Stato imprime il confine sui corpi stessi dei migranti (Wilson e Weber 2008). Per alcuni gruppi di persone – ogni tipo di migrante e chi vive nelle zone di frontiera – il superamento dei confini e un aspetto inevitabile della vita, un modo di essere nel mondo (Willen 2007). Basati su una modalità di pensiero razzista, i confini regolano gli spostamenti degli individui. Mentre una categoria ristretta di persone gode diritti di mobilità assoluta, la stragrande maggioranza è prigioniera dei confini. La regolamentazione della mobilità opera attraverso una selezione sociale improntata alla discriminazione sessuale e di genere, razziale e di classe. La selezione sociale dei viaggiatori comincia molto prima che arrivino alla frontiera (Wilson e Weber 2008). Coloro che provengono da nazioni «sospette» sono sottoposti a un alto grado di controllo attraverso un processo stringente di concessione o negazione dei visti.

Tuttavia, i confini sono anche spazi di opposizione e resistenza. Il superamento «illegale» dei confini e il confine stesso si definiscono in relazione reciproca: è l’esistenza di un confine a costituire la base di queste forme di mobilità (Donnan e Wilson 1999:101). Anche migrazione e confini si definiscono in rapporto reciproco. Laddove esiste un confine ne esisterà anche il superamento, legale o illegale.