Ciancio, per Dda di Catania lavorava per sè e per Cosa Nostra
Un duro atto di accusa contro l'editore Mario Ciancio Sanfilippo è stato pronunciato davanti a tv e giornalisti dalla Dda catanese, con i carabinieri che hanno svolto le indagini, che ha spiegato i particolari della confisca di 150 milioni di euro che ha colpito uno degli imprenditori più importanti della Sicilia, ma anche un mea culpa sull'azione della magistratura alla fine degli anno '90, quando la mafia era all'apice, con responsabilità nel non aver agito a fondo per debellare il rapporto tra cosche e imprenditoria. Il procuratore catanese Carmelo Zuccaro ha detto che "indubbiamente la giustizia non ha voluto e potuto essere all'altezza dei suoi doveri istituzionali", indicando "responsabilità della magistratura di Catania". Su Ciancio Sanfilippo è stata "accertata la pericolosità sociale fondata sulla verifica del fatto che vi é stato un apporto costante e di rilievo nei confronti di Cosa nostra". Secondo il procuratore, l'imprenditore ha intrattenuto "rapporti sinallagmatici con gli esponenti di vertice della famiglia catanese di Cosa Nostra sin da quando la stessa era diretta da Giuseppe Calderone, poi proseguiti ed anzi ulteriormente intensificati con l'avvento al potere di Benedetto Santapaola alla fine degli anni Settanta del secolo scorso ed al ruolo di canale di comunicazione svolto dallo stesso Ciancio per consentire ai vertici della predetta famiglia mafiosa di venire a contatto con esponenti anche autorevoli delle istituzioni". "Il Tribunale - ha detto il procuratore - letti i documenti e ascoltate le argomentazioni del pm e della difesa, ha ritenuto che Mario Ciancio Sanfilippo sin dall'avvio della sua attività, nei primi anni '70, e fino al 2013 abbia agito, imprenditorialmente, nell'interesse proprio e nell'interesse di Cosa nostra e che in ragione di ciò il suo patrimonio si sia implementato illecitamente, giovandosi anche di finanziamenti occulti e che anche il predetto sodalizio mafioso si sia rafforzato grazie ai fortunati investimenti realizzati per il tramite del Ciancio". Ma la stoccata più pesante dei pm è su Ciancio nel ruolo di direttore de La Sicilia che avrebbe imposto "la linea editoriale della testata giornalistica con più lettori in Sicilia Orientale improntata alla finalità di mantenere nell'ombra i rapporti tra la famiglia mafiosa e le imprese direttamente o per interposta persona controllate dalla medesima". Secondo la Dda catanese, l'editore-direttore non voleva "porre all'attenzione dell'opinione pubblica gli esponenti mafiosi non ancora pubblicamente coinvolti dalle indagini giudiziarie e soprattutto l'ampia rete di connivenze e collusioni sulle quali questo sodalizio mafioso poteva contare per mantenere la propria influenza nella provincia catanese". E Zuccaro ricorda quando il boss Giuseppe Ercolano entrava in redazione e accompagnato dall'editore voleva conto e ragione del perchè fosse stato definito ''noto boss mafioso''. I pm avevano anche chiesto il sequestro di immobili intestati a Ciancio ma i giudici della misure di prevenzione non hanno accolto la tesi sequestrando però azioni sociali dei figli. Rigettata anche la richiesta di misura di prevezione personale perchè manca il presupposto ''dell'attualità''. Zuccaro dice che la situazione economica del quotidiano La Sicilia, ''é veramente molto pesante''. Così come quella della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari e delle emittenti televisive di Ciancio e quindi è ovvio che ''è nostra preoccupazione la salvaguardia dell'occupazione di persone che sono altamente qualificate".
GLI AFFARI INQUINATI DA INTERESSI MAFIOSI
Sono cinque le vicende imprenditoriali nelle quali i giudici di Catania hanno individuato l'esistenza di rapporti tra l'editore Mario Ciancio Sanfilippo e ambienti di mafia, dice la Dda catanese. Il caso più rilevante è quello del centro commerciale Porte di Catania, un complesso che ospita 150 negozi. Nell'affare della costruzione del centro Ciancio era socio, sostengono i giudici, di Giovanni Vizzini e Tommaso Mercadante, vicini a personaggi coinvolti in vicende di mafia. La realizzazione dell'opera venne poi affidata all'imprenditore Vincenzo Basilotta anche se vi era l'intenzione di coinvolgere Mariano Incarbone. Sia Basilotta che Incarbone sono indicati come vicini a Cosa nostra. Basilotta è morto mentre veniva giudicato per associazione mafiosa, Incarbone sarebbe legato al clan Santapola. Da intercettazioni emerge che "l'affare era infiltrato da Cosa nostra" e che Basilotta aveva "lucrato 600mila euro". Li aveva poi consegnati all'ex presidente della Regione Raffaele Lombardo: sarebbe stato il compenso dell'interessamento di Lombardo al progetto al quale partecipava Mario Ciancio. Tra gli altri affari imprenditoriali contestati all'editore, c'è anche il parco commerciale Sicily outlet di Dittaino, in provincia di Enna. Oltre a essere proprietario dei terreni, Ciancio era socio della Dittaino Development che avrebbe affidato parte dei lavori a Basilotta e Incarobone. Nel provvedimento dei giudici si fa riferimento ancora a tre progetti non realizzati: Stella polare; un insediamento residenziale a supporto della base di Sigonella; la costruzione del polo commerciale Mito. In tutti e tre i casi Ciancio era proprietari dei terreni. A Stella polare era interessato Incarbone come general contractor. Le residenze di Sigonella dovevano essere costruite da Basilotta. Al polo Mito con Ciancio erano interessate "altre persone in rapporti con Cosa nostra palermitana e messinese"