Dopo l’intervista, ricontatto Katharina Miroslawa per verificare con lei alcuni nomi e date. Le chiedo su WhatsApp di confermarmi la sua età. Risponde ironicamente: «Sono del 1962… Meno 13 in stand by, ho 49 anni». Quei 13 anni di “interruzione” sono quelli che ha passato in carcere per l’omicidio, avvenuto nel febbraio 1986, di Carlo Mazza, imprenditore di Parma, all’epoca suo compagno, ucciso con due colpi alla testa. All’epoca Katharina aveva 25 anni e si esibiva in spettacoli sexy nei night. In seguito raccontò che il suo matrimonio con Witold Kielbasinski, padre di suo figlio Nikki, aveva già cominciato a sfaldarsi con l’arrivo a Parma, dove lei e Carlo Mazza si erano conosciuti e innamorati. «Non mi ero messa con un vecchio benestante, mi ero innamorata di un bel cinquantenne», dice Miroslawa. Anche se è appurato che non fu lei a sparare, i giudici la condannarono per concorso morale – accusa rispetto alla quale si è sempre dichiarata innocente – secondo la tesi per cui lei e il marito si sarebbe accordati per spartirsi l’assicurazione sulla vita da un miliardo di lire che Mazza aveva stipulato a suo nome - foto
ALL’EPOCA FECE SCALPORE NELLA BASSA – Le indagini e i processi che seguirono fecero scalpore. Katharina era bellissima, straniera (di origini polacche), faceva la ballerina. E non mancavano i contorni da “storia maledetta”: forse un dramma della gelosia o un patto omicida. Inoltre, la Miroslawa non finì subito in carcere, ma si diede alla latitanza per 8 anni, grazie al sostegno economico del suo nuovo fidanzato, anche lui di Parma, Leonardo Salvioli. Senza contare che erano anche i tempi in cui in Italia andavano “di moda” le cosiddette mantidi: l’anno dopo, nel 1987, infatti, sarebbe scoppiato il caso di Gigliola Guerinoni, in seguito condannata per l’omicidio del suo amante Cesare Brin. Dopo un libro Peccato. Katharina Miroslawa, scritto da lei con il suo agente di allora Rody Mirri, la vicenda viene ricostruita ancora una volta nella docu-serie Morte a Parma – L’ultima danza di Katharina, due puntate andate in onda il 14 e 15 febbraio su Sky Crime e in streaming su Now.
A parlare soprattutto lei che, finita di scontare la pena, dal 2013 vive a Vienna, importa vini dall’Italia, e ha sposato Carl Gustav, 70 anni, di origini svedesi, conosciuto dieci anni fa. E nei weekend, quando può, va a trovare ad Amburgo Nikki, che oggi ha 43 anni, e la nipote sedicenne, Eufemia. «Mia nuora lo ha scelto da un libro dei nomi. Quando me lo ha detto ci sono rimasta, perché il carcere a Venezia dove ero rinchiusa è in via Sant’Eufemia… Chissà, forse, in qualche modo quel nome le era rimasto in mente».
Perché dire di sì a un documentario che dopo tanti anni fa parlare di nuovo del caso? Non è meglio farsi dimenticare? «Qualcuno mi ha detto che potrei rivendicare il diritto all’oblio, far cancellare tutto quello che mi riguarda dalla Rete. Ma ho altre priorità: devo occuparmi dei miei genitori che sono anziani, mia madre ha 80 anni, papà ne compie 85 a marzo, e poi c’è mio figlio… Inoltre, io non mi vergogno del mio passato. Quello che non voglio è che la gente continui a giudicarmi sulla base di vecchi articoli».
Il documentario si apre con Carl, il suo attuale marito, che racconta lo choc che provò quando su internet lesse la sua storia. «È normale, credo. Dopo la condanna, i giornali mi definivano “assassina”, “mostro”. E la mia storia si era gonfiata ancora di più negli anni della latitanza».
Quando vi siete conosciuti? «Nel febbraio del 2014, circa sei mesi dopo il rilascio e il mio ritorno a Vienna. Dopo il nostro incontro, un giorno lo chiamai e parlammo un po’, c’era simpatia reciproca. A un certo punto, però, mi ha chiesto: “Ma hai anche un cognome?». Gliel’ho detto. Per qualche tempo non si è fatto più sentire e io ho pensato: “Non lo dirò mai più”».
E poi? «Credo che avesse bisogno di “digerire” quello che aveva scoperto. Alla fine, ha prevalso l’impressione che gli avevo fatto e voleva capire meglio. Un po’ alla volta gli ho raccontato tutto. Carl non si è fermato alle apparenze, ha voluto approfondire e siamo ancora qui».
Non sarà stata l’unica volta che il suo nome ha spaventato qualcuno. «Una volta è successo con un produttore di vini. La sua segretaria gli disse: “Ma con ti sei messo in affari?”. Da allora non abbiamo più lavorato insieme. Pazienza, ce ne sono tanti altri».
A proposito, perché ha scelto di commerciare in vini? «Carl faceva parte di un club di sommelier a Vienna».
Tornando alla sua storia, quanto ha pesato su suo figlio? «Non è stato facile per lui, ma io l’ho protetto in ogni modo. In Germania, dove ha sempre vissuto fin da piccolo, a nessuno interessava la mia vicenda. Per questo non l’ho mai fatto venire a stare con me durante gli anni dei processi. Avrei potuto perché ero a piede libero, però dovevo firmare in questura. Quando mi raggiungeva nei periodi delle vacanze, facevo il possibile perché non mi vedesse con la Polizia, ma, anche se era un bambino, aveva capito lo stesso. Anni dopo mi ha detto: “Mamma, mi ricordo che giravamo in tondo intorno a un palazzo, lo sapevo già che c’era qualcosa che non andava”. Sapeva anche che a quel punto suo papà e io non stavamo più insieme ma, sempre per proteggerlo, non ho mai cercato di fare di Leonardo un sostituto di suo padre. Gli ho raccontato tutto man mano che cresceva».
Leonardo Salvioli l’ha aiutata durante la latitanza e le è stato vicino per tutti gli anni di carcere. Perché è finita? «Con Leo ci eravamo allontanati un po’ alla volta anche se io a lungo non ho voluto vedere come stavano le cose. Quando, dopo il rilascio, sono venuta a Vienna, gli dicevo: “Ma allora come faremo a vederci?”. Mi è stato vicino fino a quando ho avuto bisogno di lui, ma senza una vita insieme, senza intimità, i rapporti si logorano. Però un giorno mi disse: “Vedrai che entro un anno non sarai più sola”. Parole profetiche».
Quanto l’ha cambiata questa vicenda? «Non mi sento tanto diversa, di carattere sono la stessa. E non penso mai: “Come sarebbe stata la mia vita se non avessi sposato Witold o se non avessi conosciuto Carlo?”. In fondo tutto questo mi ha portato a incontrare Carl. Niente è per caso. Più che nelle coincidenze credo nei piccoli miracoli, messaggini che arrivano da chissà dove».
Enrica Brocardo
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