La febbre del sabato sera appena uscì nel 1977 ebbe un successo straordinario, trainato dalla colonna sonora dei Bee Gees che schizzò immediatamente in vetta alle classifiche. Resta uno dei film musicali col più alto incasso di sempre. Ma soprattutto, in virtù anche d’un titolo elettrizzante, indovinatissimo, divenne un dilagante fenomeno di costume, recepito come una specie di cronaca in presa diretta sulla gioventù dell’epoca, di cui rispecchiava stili di vita e aspirazioni, intercettando e ovviamente rilanciando la moda della disco music.
A dirigerlo inizialmente doveva essere John G. Avildsen, fresco del premio Oscar di Rocky, che lasciò per divergenze artistiche, così il film finì nelle mani del giovane John Badham. Ma il progetto era soprattutto una creatura del suo produttore, l’impresario musicale Robert Stigwood, che era rimasto affascinato da un lungo articolo del New York Magazine del 1976 del giornalista britannico Nick Cohn, Tribal Rites of the New Saturday Night, che raccontava la storia di Vincent, il miglior ballerino di Brooklyn, e i rituali delle nuove “tribù metropolitane” newyorkesi. La cosa bizzarra è che, molti anni dopo, Cohn confessò di essersi inventato quasi tutto. Eppure, a guardarlo ancora oggi, il film che ne ricavò lo sceneggiatore Norman Wexler mantiene un sapore di veridicità travolgente, descrivendo il mondo giovanile con accuratezza quasi sociologica.
Restano convincenti, inventati o meno, i presupposti da cui partiva Cohn nell’articolo, quando diceva che i giovani dei tardi anni Settanta “non riescono a ricordare chi fosse Bob Dylan, per non parlare di Ken Kesey o Timothy Leary. Haight Ashbury, Woodstock, Altamont – su tutti la memoria fa cilecca. Invece, le vere radici di questa generazione risiedono più indietro, negli anni Cinquanta, nell’età dell’oro del sabato sera”. È quel fenomeno che poi sarebbe stato etichettato negli anni Ottanta come “riflusso”, cioè l’abbandono delle passioni (tristi) civili e l’emersione d’una voglia di leggerezza e divertimento, che fa sua la nostalgia, soprattutto nell’immaginario statunitense, per i “mitici” anni Cinquanta, naturalmente reinterpretandoli alla luce di bisogni e costumi della nuova epoca.
Tutto questo La febbre del sabato sera lo racconta in maniera seducente attraverso il suo protagonista, John Travolta. Il prologo è indimenticabile, rivedetelo qui sotto. Poche inquadrature aeree e silenziose sulla città che ritagliano il microcosmo del racconto, il ponte di Verrazzano, Brooklyn, il quartiere di Bay Ridge. Poi irrompe Stayin’ Alive dei Bee Gees: “Beh, puoi dire dal modo in cui cammino / che sono un donnaiolo, non ho tempo per parlare”. In perfetta sincronia, compare Tony Manero (John Travolta), prima le scarpe dal tacco alto, il passo bilanciato e sinuoso, la camicia aperta sul petto e infine il volto attraente e simpatico, del giovane americano che guarda sicuro il mondo davanti a sé, pronto a conquistarlo. Sta semplicemente camminando: ma è come se stesse già danzando su quell’enorme pista da ballo che è il palcoscenico della città.
È impossibile scindere La febbre del sabato sera da John Travolta, che ottenne una nomination all’Oscar come migliore attore. Morando Morandini scrisse che “è lui il tramite attraverso cui passa la credibilità e l’energia, l’autenticità del film [che] prende il ritmo del suo corpo, si muove alla stessa cadenza del suo passo morbido, elastico, sensuale”.
Il corpo, la sensualità, sono elementi che La febbre del sabato sera pone al centro del racconto, a partire dai dettagli feticisti sull’abbigliamento che Tony Manero sceglie così accuratamente preparandosi per la serata in discoteca. Sono gli stessi gesti che, tre d’anni dopo, compierà Richard Gere in American Gigolo di Paul Schrader – che in maniera drammatica svela la connessione che c’è tra il mostrarsi, l’esibirsi e la prostituzione di sé –, a dimostrazione di quanto il film di John Badham abbia saputo cogliere lo spirito del tempo, consegnando al cinema americano degli anni Ottanta uno dei suoi temi principali, appunto il corpo (e la sua mercificazione).
Nel passaggio dalla strada alla discoteca, la celebre piattaforma luminosa dell’Odissea 2001, il palcoscenico su cui Tony Manero si muove come un piccolo sovrano, il film svela il suo autentico significato. “Nel modo in cui La febbre del sabato sera è stato diretto e girato – scrisse Pauline Kael, la più influente critica cinematografica dell’epoca – sentiamo la languida attrazione della discoteca. Queste sono tra le scene di danza pop più ipnoticamente belle mai girate […]. La febbre del sabato sera arriva a qualcosa di profondamente romantico: la necessità di muoversi, di ballare e il bisogno di essere chi ti piacerebbe essere. Il Nirvana è il ballo; quando la musica si ferma, ritorni a essere ordinario”.
Da un lato il fascino del film è indiscutibilmente connesso alla sua capacità di tradurre in maniera credibile sensazioni ed emozioni impalpabili e seducenti, che prima de La febbre del sabato sera nessuno era riuscito a raccontare al cinema così felicemente. Dall’altro, il film possiede un’insospettabile autenticità: sotto la vistosità del fenomeno di costume, i balli e i vestiti sgargianti (l’iconico completo bianco indossato da John Travolta) c’è un film piuttosto realista, persino brutale. La descrizione del milieu italo-americano è una sorta di versione diluita dei coevi film di Scorsese. Gli ambienti, i colori, le luci sono quelli che si potevano trovare, certo non con gli stessi accenti di allucinato iperrealismo, in Mean Streets o Taxi Driver. Come sottolineò Claudio G. Fava: “Girato quasi tutto in autentici esterni newyorkesi, il film piglia d’incanto quel colorito smorto e violento, febbrile e aggressivo, che è proprio della segnaletica urbana degli Stati Uniti”.
Il film infatti uscì vietato ai minori e subì molti tagli, per il linguaggio crudo, il sesso consumato in modo esplicito, le risse, i tentativi di stupro, temi come l’aborto e il suicidio. Non si confonda perciò La febbre del sabato sera con i film musicali successivi, da Grease a Flashdance, da Footloose a Dirty Dancing, tutti ampiamente favolosi e favolistici.
Il film di John Badham si pone invece come una sorta di spartiacque tra anni Settanta e Ottanta. Da un lato risente del cinema problematico e realistico della New Hollywood (lo stesso che si può trovare in un film come Rocky, che racconta sì una vicenda fiabesca, ma l’ambienta in un mondo dimesso e quotidiano). Dall’altro racconta i personaggi con una certa superficialità – lo scavo psicologico è il limite principale del film – e una voglia di disimpegno che appartiene già al decennio successivo. E questa ambivalenza si coglie anche sul piano formale: perché alle inquadrature sporche degli ambienti urbani fanno da contraltare i primi piani della protagonista, Karen Lynn Gorney, con effetti di luce da star system hollywoodiano, che esaltano il volto e i capelli contornati da un’aura morbida e irrealistica.
Ma tutti questi aspetti restano quasi impercettibili a noi spettatori, rapiti da John Travolta che, come scriveva ancora la Kael, “arriva così al cuore del ruolo da sembrare incapace di una nota falsa”. E le note de La febbre del sabato sera suonano, ancora oggi, magnificamente.