Preghiera come droga, il film di Khan

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    Cédric Khan è uno tra i registi francesi più interessanti e stimati della sua generazione, quella degli artisti nati verso la metà degli anni 60 e consacratasi nel corso del decennio 90. Autore di opere spesso imperniate su personaggi marginali o spaesati e alla ricerca di se stessi, ieri sera ha presentato in esclusiva all’Institut Français, nell’ambito di «Rendez-vous Festival del nuovo cinema francese», l’ancora inedito in Italia «La prière», il suo film più recente, che lo scorso anno ha permesso al giovane protagonista Anthony Bajon di essere premiato come miglior attore alla Berlinale 2018.
    «La prière» racconta la storia di Thomas, 22 anni e tossicodipendente, deciso a cambiar vita e per questo pronto a unirsi a una comunità cattolica di ex tossici che vivono isolati in montagna e usano la preghiera come cura. Dopo le iniziali riluttanze, il ragazzo accetta la vita spartana fatta di disciplina e astinenza, lavoro e preghiera, anche se in realtà nella sua testa c’è soltanto Sybille, la figlia di due contadini residenti vicino alla comunità.
    Monsieur Khan, il suo film parla di fede ma anche di dipendenze, con la religione che, nella parabola esistenziale del protagonista, a un certo punto prende il posto della droga.
    «Tutto è nato dal racconto di una signora che conoscevo, la quale stava lavorando a un libro su queste comunità. Decisi subito che, se avesse pubblicato il libro, ne avrei realizzato la trasposizione filmica. Poi, anche se il suo volume non è più uscito, ho deciso di approfondire questa storia e ho visitato una di queste comunità isolate tra le montagne. Il tema mi è subito sembrato forte e complesso, ma è stata proprio la mia esperienza diretta, con le reali testimonianze dei protagonisti, a farmi scegliere di farne un film. In realtà, l’ho fatto proprio per i ragazzi che ho conosciuto in comunità. Il film è per loro».
    «La prière» è molto attuale, in un mondo diviso dai fanatismi.
    «Fin dall’inizio, ho capito che il film avrebbe parlato di molte più cose che semplicemente della droga e della religione. Questi due argomenti mi hanno fornito un contesto, per affrontare temi di particolare attualità, come la dipendenza fanatica da un credo, ma anche la profondità dell’esperienza della preghiera. E, più in generale, anche temi universali come l’amicizia, la dedizione verso il lavoro, il rispetto delle regole. Centrali, in tal senso, sono state le testimonianze di coloro che ho incontrato».
    Per il suo ruolo, Anthony Bajon ha vinto come miglior attore a Berlino 2018.
    «Il rapporto tra regista e attori è sempre molto misterioso e spesso inesplicabile. Nel caso di questo film, però, non sono partito dalla scelta del protagonista, ma da quella dell’intero gruppo. Ho costituito prima il gruppo, cercando di formarlo in modo assolutamente vario dal punto di vista dell’etnia, del ceto e della provenienza dei vari membri. Poi, in modo naturale, dall’interno del gruppo è emerso Anthony, diventando il personaggio principale del film, ma soprattutto una sorta di vettore delle storie di tutti gli altri. Non a caso, nel film lui resta il personaggio più misterioso, mentre degli altri ragazzi vengono raccontate le storie.».
    Lei ha spesso raccontato storie italiane, come nel film tratto da «La noia» di Moravia o in quello sul killer Roberto Succo. Come mai?
    «Non ho radici italiane, ma il vostro Paese mi affascina. Tra l’altro, anche la vera comunità di La prière si trova sul versante italiano delle Alpi».
    Che cosa c’è nel suo futuro?
    «Ho finito da poco di girare il mio nuovo film, che uscirà nei prossimi mesi e s’intitolerà Fête de famille. La protagonista è Catherine Deneuve, calata in una microcrisi familiare che durerà un unico giorno e si svolgerà in un unico luogo».

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