L’ex boss condannato all’ergastolo: “Sai che uscirai dalla cella solo quando sarai morto”

Finiranno di scontare la propria pena l’anno 9.999. Mai. Carmelo Musumeci a Cosenza si racconta definendo le carceri italiane una fabbrica di criminalità

 

COSENZA – “Ho fatto delle scelte devianti e criminali, mi piacevano i soldi facili. Non ho mai collaborato con la giustizia, mi sono sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Per 25 anni ho vissuto in carcere sapendo che ne sarei uscito solo da morto”. Sono oltre 1.600 gli ‘uomini ombra’ in Italia. Un esercito di invisibili. Condannati a morte da vivi. A dar loro voce è l’ex boss della Versilia Carmelo Musumeci oggi in libertà condizionale dopo aver scontato 25 anni di carcere. Il clan che portava il suo nome era un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico, rapine, estorsioni e bische clandestine. In visita a Cosenza, invitato dall’associazione Yairaiha presieduta da Sandra Berardi, ha presentato il suo ultimo libro Nato Colpevole nel corso di due partecipati incontri tenutisi la scorsa settimana all’Unical e al Teatro dell’Acquario, raccontando il dramma del ‘fine pena mai’. “Con la famiglia – ha spiegato ipnotizzando il pubblico – non ci si confida per non farla soffrire. E’ inutile dire a moglie e figli che si è stati pestati o che si stanno subendo vessazioni. Non possono farci nulla se non stare ancora peggio”.

 

Carmelo Musumeci

“In carcere con una condanna all’ergastolo, più che vivere, si tenta di sopravvivere. Sai che uscirai dalla cella solo quando sarai morto. Il tuo corpo – ribadisce Musumeci – lascerà il penitenziario da cadavere, si vive quindi di passato e di presente. Con l’incessante desiderio di suicidarsi. Di fatto viene impedito al detenuto di sognare, si sperare, di fare progetti, pensare al futuro perché la pena finirà nell’anno 9.999. Una volta nel certificato di detenzione scrivevano in rosso ‘fine pena mai’. Probabilmente si vergognavano di questa frase e hanno cambiato definizione, ma non la sostanza. Io sono l’eccezione che conferma la regola. Il mio ergastolo ostativo è stato trasformato in ergastolo ‘normale’ in cui si può usufruire di permessi premio, semilibertà o libertà condizionale a cui oggi sono sottoposto ristretto in una comunità per disabili. Per la famiglia l’ergastolo è una tragedia. I figli diventano orfani di genitori vivi e le compagne vedove di mariti in vita. Non hanno alcuna speranza. Neanche io, che ho studiato con passione il diritto laureandomi in Giurisprudenza durante la detenzione, ho mai creduto fosse possibile tornare a vivere fuori da una cella.

 

Alcuni dei libri scritti da Carmelo Musumeci

Per 25 anni non ho potuto dare un bacio a mia moglie, essere presente nei giorni più importanti della vita dei miei figli, vederli crescere. I colloqui sono qualcosa di terribile: alla gioia di incontrarli segue l’enorme amarezza di vederli andare via. Se il carcere ti fa venir fuori il senso di colpa determinati reati non finirai mai di scontarli. Nel mio ultimo libro ‘Nato Colpevole’ descrivo la mia vita. Racconto dell’ambiente sociale in cui sono cresciuto. Una famiglia siciliana molto povera in cui l’illegalità era ‘legale’. Ciò mi ha condizionato perché quando cresci nel male e conosci solo quello è difficile non cadere nei tentacoli del crimine. Sono entrato la prima volta nel carcere minorile all’età di 15 anni. Un’esperienza terribile dove ho conosciuto il letto di contenzione a cui sono stato legato per una settimana.

 

Una tortura assecondata dalle Istituzioni. Una scuola di crimine. Il carcere purtroppo è uno Stato a sé che danneggia i giovani che vi sono ristretti condannandoli a farvi ritorno una volta usciti. Ovviamente se esiste un pericolo la persona va fermata, ma per i ragazzi sarebbe meglio usare altri strumenti, come l’affidamento a comunità, non la detenzione che li costringe a seguire il crimine. Per sconfiggere mafia, camorra e ‘ndrangheta – afferma l’ex boss – basterebbe salvare i giovani con l’istruzione, levando così l’acqua ai pescecani”. Una teoria che l’avvocato penalista di Cosenza Giuseppe Lanzino presentando Musumeci sintetizza citando Victor Hugo: “Nel momento in cui si apre la porta di una scuola, in quel preciso istante stiamo chiudendo la porta di un carcere. Dobbiamo fare in modo che tra i nostri quartieri non vi siano altri nati colpevoli altrimenti tra mezzo secolo saremo sempre allo stesso punto”.

 

LO STUDIO E LA RINASCITA

Carmelo si racconta con una violenza commuovente. Descrive il prete in collegio che picchiava i bambini, il parroco pedofilo punito con una madonna frantumatagli sulla fronte nella notte, la ‘spaccata’ che non deve durare più di 30 secondi, ma anche la solitudine, la necessità di diventare cattivo per non essere schiacciato. “Per non impazzire e non essere risucchiato dalla depressione – ricorda Carmelo Musumeci – mi sono buttato sui libri e dalla licenza elementare sono arrivato ad avere due lauree. Studiavo anche 13/14 ore al giorno, poi crollavo dal sonno. Un giorno ho letto un libro di un detenuto nei lager nazisti che scriveva ‘io sono qui e nessuno lo saprà mai’.  Ho quindi deciso di raccontare l’inferno delle patrie galere e dell’ergastolo. Avevo solo la quinta elementare dovevo quindi imparare a scrivere e avere una cultura. La povera gente rimane nei gradini più bassi della società solo perché non ha istruzione. Ero al 41bis all’Asinara e non entrava nulla, non potevo confrontarmi con un insegnante o con dei volontari, ma una docente in pensione che mi scriveva ha iniziato a strappare dei foglie di libri e mandarmeli dentro delle lettere.

Musumeci festeggia una delle sue tre lauree

Alcuni venivano bloccati dalla censura, altri arrivavano. Non è stato facile studiare da autodidatta, in ergastolo sottoposto alla pena accessoria dell’isolamento. È stata però la mia salvezza insieme all’amore della mia compagna e dei miei figli che non mi hanno mai abbandonato. Attraverso le relazioni che ho costruito con le persone che ho conosciuto in questi anni di carcere, come gli attivisti della associazione Yairaiha gli unici che insieme ai detenuti credo siano deputati a parlare delle condizioni carcerarie, ho scoperto che la società non è tutta cattiva. È un percorso difficilissimo a cui si arriva solo se si incontrano le persone giuste. Tutti vogliono cambiare, ma in carcere significa perdere quella corazza, quell’aggressività necessaria a sopravvivere in un penitenziario. Bisogna avere la forza di mettersi in discussione e chi non ce l’ha non può essere colpevolizzato. E’ come Don Abbondio che dice ‘io non ho coraggio, non è colpa mia. Sono nato così’”.

 

L’ATTEGGIAMENTO DEI DETENUTI MERIDIONALI

“L’approccio dei detenuti del Sud – chiarisce Musumeci – è diverso. Sono di origini siciliane, ma sin da bambino sono emigrato al Nord quindi anche se ho fatto delle scelte devianti e criminali l’ho fatte senza avere vincoli culturali. Al Sud invece chi fa queste scelte, spesso, diventa carne da cannone di organizzazioni criminali di grosso spessore. Si inizia quindi ad obbedire a certi schemi. I detenuti del Sud entrano in carcere già istituzionalizzati con un senso di adattamento, evitando di scontrarsi con gli organi carcerari che in quel momento sono più forti di loro. Io pur essendo stato condannato per associazione di stampo mafioso, nasco come ribelle sociale: ho conosciuto il collegio, il carcere minorile e poi i penitenziari in regime di ergastolo. Mi sono sempre opposto a qualsiasi potere sia legale che illegale. La mafia fa comodo a tutti, soprattutto a chi la legge la fa infrangere agli altri e va tranquillamente a messa alla domenica. È un sistema che porta voti ai politici, con i quali vincendo le elezioni si ha la possibilità di controllare ulteriormente l’economia del territorio”.

 

CARCERE FABBRICA DI CRIMINALITA’

“In carcere – sottolinea l’ex boss Musumeci – non ci sono ‘colletti bianchi’. Trovi solo persone con un basso livello di cultura. È più facile incontrare nelle celle un ladro di biciclette che uno che ha truffato un milione di euro di fondi pubblici. Quest’ultimi possono infatti permettersi i migliori avvocati sul mercato, ottenere in poche settimane gli arresti domiciliari e non sono mai considerati dei delinquenti. Per carità il carcere non lo auguro a nessuno, neanche a loro. In questi anni è ormai diventato una discarica sociale ci trovi tossicodipendenti, barboni, migranti. I penitenziari italiani sono una fabbrica di criminalità. Lo dicono le statistiche che riportano l’alto tasso di recidiva: il 70% ci ritorna. Il carcere vuol dire che non è la medicina, ma piuttosto la malattia. Un carcere ‘cattivo’ però peggiora sia chi lo sconta che la società perché chi ne esce è più aggressivo e indotto a delinquere rispetto a quando è entrato.

 

Eppure costa molto ai cittadini che pagano le tasse, di fatto, per produrre criminalità a partire dai carceri minorili o quelli per adulti. Chi esce dopo 10/20/30 anni ritorna a delinquere perché non ha alcuna possibilità lavorativa, chi non è riuscito a farsi una famiglia prima di essere arrestato si ritrova vecchio, solo e vittima di pregiudizi senza ormai nulla da perdere. Nel Nord Europa dove la recidiva è del 15% quando si ‘esce’ danno un prestito che poi andrà ad essere restituito. Denaro con il quale iniziare una nuova vita fittando casa e cercando un’occupazione. Un’idea banale, ma che è alla base dell’illegalità per chi si trova senza soldi a dover ricostruire la propria esistenza. Ciò che viene negato in galera è l’affettività, l’amore, mentre si alimenta odio e rabbia. La galera che fa male, fa male a tutti”.

 

L’USCITA DAL CARCERE DOPO 25 ANNI

“Sono uscito dal carcere di Padova e ho trovato una società più arrabbiata e povera di ideali. Ho trovato un mondo diverso, – osserva Carmelo Musumeci – differente sia a livello tecnologico sia a livello morale rispetto a quello che avevo lasciato 25 anni prima. Gli operai non scioperano più, gli studenti non protestano più occupando le piazze per dissentire sulla guerra in Siria come succedeva ai tempi della guerra in Vietnam. Ho notato che certi valori come la solidarietà stanno scomparendo. Questa è stata una delusione. Che l’Italia si fosse incattivita me ne ero accorto un po’ anche da dentro il carcere che poi in fondo rappresenta lo specchio della società. Alcuni principi di solidarietà però resistono dietro le sbarre. Se qualcuno ha bisogno di zucchero o altro può chiedere a chi è nella cella a fianco e si trova il modo per farlo avere al detenuto che ne ha bisogno. Fuori vedo cinismo, gente che va di fretta, indaffarata, non si guarda intorno sono tutti attaccati al telefonino. Le persone però non sono cattive, è che non sanno, non vengono sensibilizzate abbastanza. A tutti va data una speranza. Molti giovani ergastolani, entrati in carcere a 18/19 anni e che dovranno restarvi fino alla loro morte, potrebbero essere salvati. Bisognerebbe dar loro una possibilità di riscatto per uscire dalle dinamiche criminali. Se sanno che moriranno in carcere non potranno mai cambiare mentalità. Finché avrò voce continuerò ad urlare che ognuno deve avere un inizio e un fine pena”.

 

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