Governo, da 'contratto alla tedesca' a 'diarchia'. Un dizionario per fare chiarezza

Salvini e Di Maio sondano la base tra richiami storici (alla politica dei due forni) e formule inedite: contratto alla tedesca, astensione benevola, diarchia, terzo uomo, patto della staffetta

Luigi Di Maio e Matteo Salvini (Ansa)

Luigi Di Maio e Matteo Salvini (Ansa)

Roma, 18 maggio 2018 - M5S e Lega sono a un passo dal formare un governo. Manca, di fatto, solo il nome del premier. Sui giornali si leggono diversi termini che riguardano il loro governo, tra richiami storici (politica dei due forni) e parole nuove (contratto alla tedesca). Ecco le principali formule.

Astensione benevola (o "benevolenza critica"). La formula è stata ipotizzata da Forza Italia per prendere le distanze dal governo “gialloverde” Lega-M5S, ma assicurare allo stesso tempo la sua partenza. L’espressione è stata coniata da Giovanni Toti, governatore della Liguria ed esponente di FI ma molto vicino a Salvini e alla Lega. L'affermazione nasce il 9 maggio 2018 grazie a un intervista di Giovanni Toti a Rai Radio 1: "Ho sentito Berlusconi stanotte" - spiega il governatore della Liguria - "Il tema è che Lega e M5S hanno i voti per un accordo di governo, a cui Forza Italia non parteciperà con un appoggio esterno. Il che non vuol dire che non si possa guardare a questa esperienza di un nostro socio strutturale da 20 anni con critica benevolenza, una sorta di astensione benevola". Il governatore ligure, già direttore di Studio Aperto (Mediaset), in realtà, di aggettivi per descrivere la posizione di Forza Italia ne usa due: «Benevola astensione e astensione critica». Berlusconi, dunque, in questo modo non negherebbe il voto di FI al governo Salvini-Di Maio o del loro «terzo uomo», senza rompere l’alleanza «storica» con la Lega. Anche l'astensione benevola ha un suo illustre precedente nella storia repubblicana. «Il segretario del Pri Giovanni Spadolini – scrivono le cronache politiche del 1983, quando la Dc aveva il 32% come l’M5S oggi - ha ricordato che l’astensione critica tenuta dal suo partito nei confronti del governo Fanfani (era un monocolore Dc, ndr.) venne imposta dall’intima contraddizione fra l’originario programma governativo e quello che poi fu concretamente approvato dai quattro partiti della coalizione».  

Rivoluzione fiscale
Rivoluzione fiscale

Comitato di conciliazione. Nel programma di governo, ormai arrivato alla stesura finale, tra Lega e M5s il primo paragrafo è intitolato “Il funzionamento del Governo e dei Gruppi Parlamentari”. Oltre all’impegno di cooperazione tra i due gruppi, di cui Lega e M5Ssi fanno carico, si introduce il concetto del Comitato di conciliazione. La novità viene spiegata così: “Qualora nel corso dell’azione di governo emergano diversità per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione del presente accordo, le parti si impegnano a discuterne con massima sollecitudine e nel rispetto dei principi di buona fede e leale cooperazione. Nel caso in cui le diversità persistano, verrà convocato un Comitato di conciliazione”. Quando ce ne sarà bisogno quindi, anche in caso di problemi che esulano dai punti del programma, le azioni in merito verranno sospese per dieci giorni per dare modo al Comitato di potersi riunire ed esprimere. Il Comitato di conciliazione andrà a deliberare nel momento in cui verrà raggiunta una maggioranza pari ai due terzi dei componenti. Del comitato ne fanno parte: il Presidente del Consiglio dei Ministri; il capo politico del M5S e il Segretario federale della Lega; i Presidenti dei gruppo parlamentare di Camera e Senato delle due forze politiche; il ministro competente per materia. Il Comitato in questione è competente, dopo aver analizzato con attenzione i rapporti tra costi e benefici, anche nell’esprimersi sulle grandi opere pubbliche non menzionate nel programma.

Le critiche. L’istituzione del Comitato di conciliazione ha subito sollevato diversi dubbi e tante critiche. Esponenti del M5S si sono subito affrettati a gettare acqua sul fuoco, sottolineando come alla fine si tratti di un organismo molto simile al già esistente Consiglio di gabinetto. La paura maggiore da parte dei critici è che in questo modo venga del tutto svuotata di significato la funzione del Parlamento, che potrebbe essere relegato a un ruolo di mero ratificatore delle decisioni prese dal Comitato. Alcuni hanno parlato anche di un “organismo para-istituzionale” che non avrebbe precedenti nella storia recente del nostro paese, tanto da invocare un intervento del Presidente Sergio Mattarella a cui spetta sempre l’ultima parola sul governo.

Contratto alla tedesca. Un contratto di governo alla tedesca è la proposta che Luigi Di Maio e il M5S hanno proposto alla Lega o al Pd, in modo indifferente (bastava che il primo dei due rispondesse positivamente per siglarlo: alla fine lo ha fatto la Lega mentre il Pd ha rifiutato anche solo di sedersi al tavolo per discuterlo) già dal primo giro di consultazioni con il Capo dello Stato per la formazione di un nuovo governo. Sul blog del Movimento la formula è apparsa, per la prima volta, il 4 aprile scorso in una lettera aperta in cui il candidato premier Di Maio scrive: “Proponiamo un contratto di governo come quello che viene sottoscritto dalle principali forze politiche in Germania dal 1961. È un contratto in cui scriviamo nero su bianco, punto per punto, quello che vogliamo fare, dove si spiega per filo e per segno come si vogliono fare le cose e in quanto tempo. Dentro si inseriscono tutti i dettagli delle cose che si devono fare, si firma davanti agli italiani e poi si realizza. Quello che c'è scritto è ciò che il governo si impegna a fare”. Di Maio, con tale proposta, ha annunciato di voler adottare la formula di governo che ha caratterizzato la carriera politica di Angela Merkel, cancelliera della Germania.

Ma cos'è il contratto alla tedesca? Si tratta di una formula politica che ben si presta all'interno dei sistemi in cui i primi partiti difficilmente hanno i numeri per governare da soli. In Germania è dal 1961 che, all'indomani delle elezioni le forze politiche che ambiscono a governare siglano un “Koaltionsvertrag”, un vero e proprio accordo contrattuale in cui mettono nero su bianco gli obiettivi condivisi e le tempistiche con cui possano essere raggiunti. Sul piano teorico l'adozione di questa formula mira a rafforzare il sistema democratico specificando con chiarezza cosa si voglia fare ed entro quali tempi, mettendo così il cittadino nelle condizioni ideali per comprendere se i decisori abbiano mantenuto la parola data una volta terminato il mandato. In caso negativo questi verranno verosimilmente bocciati dalle urne. Nei fatti, però, i giochi sono molto più complicati. Prendendo in mano tanto l'ultimo Koalitionsvertrag, siglato dalla Cdu-Csu e dalla Spd (partito che, va sottolineato, ha fatto votare i suoi iscritti prima di firmarlo mentre la Cdu non lo ha fatto), dopo sei mesi di trattative per formare il nuovo governo, e guardando alla maggior parte di questo tipo di documenti redatti in Germania negli ultimi 50 anni è evidente come i contenuti siano sempre piuttosto generici. Si tratta di una serie di direttive che i nuovi governanti si danno, senza però specificarne i passaggi esecutivi. Il documento, inoltre, non prevede nessuna forma coercitiva né per i ministri né per i parlamentari. Saranno gli elettori a doverli casomai punire. Nella prassi un Koalitionsvertag è il prodotto delle trattative tra partiti accomunati dall'incapacità numerica di governare da soli. Si tratta dunque di una forma di compromesso, del risultato di una strategia figlia di lunghe trattative che Angela Merkel definisce “del dare e del ricevere”. Va notato che i partiti che meglio si prestano all'adozione di questa formula sono quelli meno permeati dall'ideologia come nel caso della Cdu di Angela Merkel. La lettera di Di Maio ricalca questo approccio: “Vogliamo mettere al centro i temi, cioè le soluzioni per il Paese”. Un'alleanza con Lega o Pd, spiega infine Di Maio, non sarebbe un tradimento bensì qualcosa fatto “esclusivamente nell'interesse della gente”. Ma proprio perché permeato dalle persone che lo siglano il contratto alla tedesca non è neanche lontanamente garanzia di successo e stabilità ma presenta una larga gamma di incognite e di rischi.

Diarchia. Se ne parla oggi in merito alla forza che i due leader di M5S (Di Maio) e Salvini (Lega) hanno rispetto ai loro due partiti e alla possibilità che nasca un nuovo governo perché anche un premier terzo non potrebbe non tenerne conto. L’utilizzo del termine, però, risale agli anni Ottanta per indicare l’indiscussa supremazia che esercitavano Dc e Psi attraverso i due storici leader Ciriaco De Mita e Bettino Craxi. Fu Achille Occhetto, allora segretario del Pci, a sdoganare la parola diarchia, nel 1988, o meglio fu il quotidiano La Repubblica ad attribuire a Occhetto. Il virgolettato preciso di Occhetto era questo: «Se si va avanti così si rischia di logorare la democrazia sulla quale già si poggia la cappa opprimente di un nuovo doroteismo, di un patto consociativo e di potere fra Dc e Psi». Repubblica ne fa l’esegesi: «Parlando di patto consociativo, Occhetto si riferisce, non al puro e semplice accordo di governo fra Dc e Psi, ma a quel consolato, a quella Diarchia di cui si comincia a parlare con evidente malessere nelle segreterie dei partiti». Siamo nel dicembre del 1988, poco meno di un anno prima che ufficialmente la diarchia De Mita-Craxi - piena di «improvvisi e reiterati assalti, l’un contro l’altro, dei due segretari» - abbia fine con la duplice caduta del leader irpino, a febbraio 1989, da segretario della Dc (gli subentrerà Arnaldo Forlani) e poi a luglio da presidente del Consiglio (farà strada a Giulio Andreotti). Ma l’inizio sostanziale della diarchia tra Dc e Psi va fatto risalire ai primi anni Ottanta quando, nel maggio del 1982, Ciriaco De Mita viene eletto segretario della Dc e nell’agosto del 1983 nasce il governo Craxi, considerato figlio del cosiddetto patto dell’alternanza che avrebbe contemplato una staffetta fra i due leader a metà legislatura.  Ma nel 1986 Craxi, che in pubblico non aveva mai ammesso l'esistenza di un accordo, nel corso di una intervista con Giovanni Minoli, nega l’ipotesi di un avvicendamento. È l’inizio della fine: De Mita fa cadere il governo nella primavera del 1987. Si va ad elezioni anticipate e, dopo un brevissimo incarico a Giovanni Goria,è il leader irpino a conquistare Palazzo Chigi. Non senza tensioni perché Craxi continuerà la guerra spalleggiato dai due avversari interni di De Mita, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, nel segno del Caf, patto tra Craxi (C) Andreotti (A) e Forlani (F). 

"Forni" o politica "dei due forni". La politica "dei due forni" di cui molto, in questi giorni, ha parlato il leader dei 5Stelle, Luigi Di Maio, riferendosi alla possibilità di fare un accordo politico e di governo o con la Lega o con il Pd indifferentemente, cioè a seconda di chi ci sta, è un espressione impropria, in riferimento alla situazione politica attuale e non è, ovviamente, farina del sacco di Di Maio. Si tratta, infatti, un'espressione tipica della Prima Repubblica, diventata famosa perché coniata dal leader della Dc Giulio Andreotti, più volte ministro e, per ben sette volte, presidente del Consiglio nella Prima Repubblica. La "teoria dei due forni" così sarà spiegata da Giulio Andreotti nella "Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi" di Bruno Vespa: «Dopo le elezioni dell’87 ci fu un braccio di ferro molto forte tra noi (la Dc, ndr.) e i socialisti. Fu allora che inventai la “teoria dei due forni” (il forno socialista e quello comunista, con la Dc che sceglieva dove comprare il pane). I socialisti, da una parte, volevano stare al governo con noi, dall’altra lavoravano per fare una maggioranza con il Pci e mandarci all’opposizione. Forse avremmo dovuto incoraggiarli a imboccare questa seconda strada, ma allora non mi piaceva l’idea che Bettino Craxi stesse con noi in attesa di andarsene con gli altri. Anche sul piano internazionale perseguiva un disegno equivoco. Craxi sperava di poter ottenere lui l’ammissione del Pci all'Internazionale socialista, ma poi i comunisti entrarono come osservatori senza bisogno del suo consenso». In realtà Andreotti mise in pratica la “teoria dei due forni”, ma senza dirlo, nella fase storico-politica degli anni Sessanta, caratterizzata dalla centralità della Dc nel sistema politico. In quel momento il suo partito, la Dc, "per acquistare il pane" (cioè per fare la politica più congeniale ai propri interessi alleandosi con altre forze), poteva servirsi di uno dei due forni che aveva a disposizione, a seconda delle opportunità: il forno di sinistra (socialisti) o il forno di destra (liberali, eventualmente anche i missini).  

Gialloverde (governo). In Italia, per antica prassi giornalistica e politologica, i governi vengono spesso ‘colorati’ in base ai simboli dei partiti che li compongono. Il colore della Dc era il bianco, il colore del Pci il rosso, quello del Pri il verde e così via. Nella Seconda Repubblica il colore di Forza Italia è l’azzurro, quello di An il nero, quello della Lega il verde, quello del Pds-Ds sempre il rosso, quello del Pd il bianco-verde. Quando i governi erano formati dalla sola Dc si parlava, però, di “monocolore” nel senso che c’era solo il bianco. Dato che il colore del M5S è il giallo e quello della Lega il verde, si parla ora – in vista di un governo bicolore (M5S-Lega) di governo ‘giallo-verde’, in similitudine, peraltro, con diversi governi europei detti ‘sovranisti’ (Ungheria, Polonia, Austria) dove prevalgono tali colori.

Governo del cambiamento. Il “governo del cambiamento” il leader dell’M5S Luigi Di Maio lo ha presentato in questi termini sulla sua pagina di Facebook: “Un governo del cambiamento - Movimento 5 Stelle e Lega - basato su un contratto che prevede tre cose su cui non potevamo e non volevamo arretrare: reddito di cittadinanza, abolizione della legge Fornero e una legge anticorruzione. Ovviamente insieme a tanti altri temi importanti come il taglio delle tasse”. La stessa formula era stata offerta al Pd solo qualche settimana prima, ma il Pd la ha rifiutato senza neppure volersi sedere al tavolo con M5S. Ma l’espressione “governo del cambiamento” ha un padre assai diverso da Di Maio. Infatti, il primo a usarla è l’allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, durante le primarie del 2013 che lo vedono contrapposto, e vincente, sul suo concorrente più insidioso, l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi. Bersani ha appena sconfitto Renzi quando, il 2 dicembre 2012, dice – durante il comizio della vittoria – che “E’ stata una bellissima avventura (quella delle primarie, ndr.). La prossima avventura è il governo, il governo del cambiamento”. Bersani si presenta alle elezioni del 24-25 febbraio 2014 a capo di una coalizione di centrosinistra, “Italia Bene Comune” (Pd+Sel+Cd), ma non ottiene la maggioranza assoluta dei seggi nelle Camere, o meglio la ottiene solo alla Camera dei Deputati – grazie al premio di maggioranza assegnato dalla legge elettorale allora in vigore, il Porcellum – ma non al Senato. Iniziano allora le consultazioni per formare un nuovo governo, gestite dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla scadenza del suo primo mandato. A Bersani viene assegnato, da Napolitano, un pre-incarico, non un incarico pieno, e Bersani tiene le sue consultazioni, ma non riesce a convincere i 5Stelle, allora guidati ancora da Beppe Grillo, che – in diretta streaming – gli negano i loro voti, decisivi per far superare al governo la fiducia. Bersani e i suoi parlano di “200 schede dettagliatissime” che conterrebbero le linee guida del “governo del cambiamento”, ma anche queste non bastano a convincerli. Sempre Bersani, a un mese dalle elezioni politiche, rilascia un’intervista a Repubblica, il I aprile 2013, in cui rispolvera la formula per partire all’assalto dei parlamentari grillini nella speranza di convincerne almeno una parte a sostenere il suo governo parlando si “sette o otto punti da offrire a chi ci sta”. Grillo e i suoi, però, non ci stanno. Grillo definisce Bersani, sul suo blog, “un morto che parla” e Bersani si rifiuta di dare vita a un governo di “larghe intese” con FI (“Con Berlusconi mai”, dice), ma la forza endogena di un “governissimo” si fa largo dentro il suo stesso partito. Il governo del cambiamento diventa presto un concetto di alternativa mancata o di occasione bruciata, per il Pd. A quel punto, però, interviene una novità istituzionale: il mandato di Napolitano è scaduto e bisogna votare per eleggere un nuovo Capo dello Stato. Le candidature, avanzate sempre da Bersani, prima di Franco Marini e poi di Romano Prodi, vengono bruciate, nel voto segreto, dallo stesso Pd (il famoso “complotto dei 101” contro Prodi) mentre la candidatura dei 5Stelle, che chiedono al Pd di votare per il giurista Stefano Rodotà, viene esclusa. Così, alla fine, un Parlamento che non riesce a trovare un nome non può che pregare Napolitano di restare al suo posto. Napolitano, che ha già ‘congelato’ l’incarico a Bersani, prende in mano la situazione e forma il governo Letta, governo di larghe intese sostenuto, oltre che da Fi, dal Pd.    

"Staffetta" (patto della).  Oggi se ne parla perché i leader dei due partiti che stanno per formare un governo, Di Maio (M5S) e Salvini (Lega) potrebbero alternarsi alla sua guida, stabilendo prima la premiership per l’uno e, dopo un periodo di tempo ancora da stabilire, per l’altro. Ma il termine ha origini antiche. Viene chiamato così il patto politico siglato tra l’allora leader del Psi, Bettino Craxi, e il leader della Dc, Ciriaco De Mita, che tra il 1983 e il 1987 avrebbero dovuto alternarsi al governo, all’interno dei governi di pentapartito (governi di centro-sinistra). Il patto naufraga per l’ostilità dell’uno verso l’altro. Oggi se ne parla in merito a un possibile patto tra Salvini, leader della Lega, e Di Maio, leader dei 5Stelle, che dovrebbero (o vorrebbero) alternarsi alla guida del governo, come premier, all'interno di un accordo tra centrodestra e M5S. La decisione di governi di dare vita a governi di pentapartito è del 1981. La Dc riconosceva pari dignità ai cosiddetti partiti laici della coalizione di governo: Psi, Psdi, Pli e Pri, garantendo loro l’alternanza di governola possibilità a esponenti non democristiani di presiedere il governo. Il primo governo a guida non democristiana della storia repubblicana viene affidato a Giovanni Spadolini, leader del Pri, che con due governi consecutivi (1981-1983), apre la stagione dei governi di pentapartito. L’entrata a pieno regime della coalizione si verifica, però, solamente con l’ascesa a Palazzo Chigi di un altro leader non democristiano: il segretario del Psi Bettino Craxi. L’obiettivo di Craxi era la permanenza al governo e la voglia di accrescere sempre di più l’importanza del Psi, allora oscillante tra il 12-15% dei consensi (la Dc si attestava a più del doppio, nelle elezioni del 1983 il 34%). Secondo la ricostruzione del Corriere della Sera Ciriaco De Mita, allora segretario della Democrazia Cristiana, avva tenuto un incontro segreto tra lui e il segretario Psi nel 1983, all’alba del primo governo Craxi, in un convento di suore sulla via Appia Antica. “A nessuno l’ho mai detto, ma è allora che nacque la celebre staffetta”, cioè il cambio della guardia a Palazzo Chigi tra Psi e Dc di cui si parlò apertamente, però, solo qualche anno dopo, nel 1986. Gli obiettivi erano divergenti: secondo la visione craxiana il patto avrebbe dovuto portare, durante la sua permanenza al governo, l’accrescimento dei consensi verso il suo partito; secondo De Mita doveva invece servire a varare importanti riforme istituzionali che, sempre per De Mita, Craxi farà di tutto per affossare (la Commissione bicamerale Bozzi). Il patto nasce dunque da un’idea di De Mita – dietro la regia dell’allora ministro degli Esteri, Giulio Andreotti – che propone a Craxi di prendere le redini del governo. Il leader del Psi, stupito, risponde che avrebbe accondisceso a dimettersi a metà mandato in favore di un uomo della Dc per mantenere saldo il patto. Nell’estate del 1986 si registra una crisi di governo che porta al reincarico, da parte del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, di Craxi, vincolato però al "patto della staffetta". Craxi si prende l'impegno formale di avvicendarsi con un esponente democristiano alla guida dell’esecutivo dopo un anno, per portare a termine la legislatura fino alla sua naturale scadenza. Si crea però subito una spaccatura che fa saltare tutti i piani, patto della staffetta compreso: Craxi viene sbalzato da Palazzo Chigi al culmine del suo successo e reagiva, ogniqualvolta gli venisse ricordato il “patto”, con sonori mugugni e criptiche alzate di spalle. Un tasso di oscura ambiguità recava in sé, dunque, quella strana intesa che prese il nome di “staffetta”. Ma mentre i democristiani la innalzarono a rango di patto, i socialisti cercavano di affossarla. La stagione del patto della staffetta si conclude con una famosa intervista di Craxi nel programma Mixer, condotto da Giovanni Minoli, in cui, con rabbioso sollievo, il leader del Psi sconfessa qualsiasi ipotesi di staffetta, mandando su tutte le furie De Mita: “E così abbiamo liquidato la Staffetta” dirà dopo a Minoli. La sfida viene subito raccolta dal segretario Dc e, dopo aver qualificato come “inaffidabile” Craxi in un congresso, in aprile De Mita apre lacrisi di governo facendo dimettere Craxi e porta, con il traghettatore Amintore Fanfani, il Paese alle urne già nel giugno del 1987. Da quel momento in poi la Dc non si sente più disponibile a dare fiducia a un nuovo governo Craxi, preferendogli membri del proprio partito come Giovanni Goria prima, poi lo stesso De Mita. Poco tempo dopo la corrente dei Dorotei, di cui faceva parte il duo Forlani-Andreotti, toglie di mezzo De Mita, prima catapultandolo al governo dopo la parentesi Goria e poi sottraendogli sia Palazzo Chigi sia la segreteria Dc che finisce in mano a Forlani e Andreotti, in accordo con Craxi. Nasce il famoso "CAF" (Craxi-Andreotti-Forlani).    Terzo uomo. Se ne parla anche nel corso di questa crisi politica perché potrebbe essere una personalità politica o istituzionale o fuori dai giochi dei partiti (il presidente della Consulta Lattanzi, il presidente dell’Authority della Anti-corruzione Cantone, l’ex giudice della Consulta Flick e via elencando) a essere chiamato dal Capo dello Stato a guidare un governo di tutti o di responsabilità o di scopo o a termine (vedi alle varie voci citate), ma solo dopo che tutte le altre opzioni politiche venissero scartate. Se ne è tornato a parlare, però, anche nell'ambito della formazione di un governo politico tra Lega e M5S in quanto, non riuscendo i leader dei due partiti, Salvini e Di Maio, a mettersi d'accordo sul nome di uno dei due per ricoprire la figura di premier, potrebbero accordarsi su un "terzo nome" (un politico o  un tecnico) come presidente del Consiglio del governo 'gialloverde' che sembra che stia per nascere.

Vincitori (i due). L'espressione, oggi usata frequentemente, durante questa crisi di governo, per indicare i due vincitori delle elezioni politiche del 4 marzo 2014, Salvini (Lega) e Di Maio (M5S), ha una origine antica e  nobile. Fu, nel 1976, Aldo Moro a parlare dei “due vincitori” per descrivere l’esito elettorale che aveva premiato sia la Dc che il Pci - i due partiti impegnati allora in un confronto che avrebbe dovuto condurre a un’intesa anche di governo - nelle elezioni politiche appena concluse. Lo statista della Dc coniò la formula in un discorso pronunciato il 28 febbraio 1978 davanti ai gruppi parlamentari della Dc mentre era impegnato nella ricerca della faticosa costruzione del consenso attorno all'idea di una apertura dell'area di governo al Pci. Ecco la frase: "Perciò abbiamo avuto una vittoria, ma non siamo stati soli. Anche altri hanno avuto una vittoria; siamo in due vincitori, e due vincitori in una sola battaglia creano certamente dei problemi. E questo io credo debba essere oggetto di rispetto da parte nostra; l’ho detto più volte e lo ripeto, perché credo che non sia giusto e non sia utile dare un cattivo significato polemico, un significato di ritorsione, al fatto che siamo rimasti in certo modo soli". Conviene anche contestualizzare quel discorso. Quello che è poi diventato il suo testamento politico (dopo poche settimane, il 18 marzo, Moro verrà rapito dalle Brigate Rosse e, dopo due mesi di prigionia, ucciso) viene pronunciato in un'occasione straordinaria: l'assemblea di deputati e senatori della Dc convocata per decidere se inserire i comunisti nel governo o escluderli, pretendere nuove elezioni anticipate, le terze in pochi anni. Moro pronuncia un lungo e complesso discorso di mediazione, tipico di uno stile da molti considerato bizantino e oscuro, ma dietro quel discorso si nascondeva una posizione netta: sarebbe stato sbagliato andare alle elezioni e si dovevano accogliere, almeno in parte, le richieste comuniste, facendo entrare il Pci nella maggioranza. Dopo le disastrose elezioni regionali del 1975, nelle politiche del 20 giugno 1976 quello ottenuto dalla Dc era stato un «successo insperato» (che, nel discorso pubblico, si trasforma in una più nobile «vittoria» prodotta da un «soprassalto di consapevolezza» degli elettori), cui però aveva fatto da pesante contrappeso «un progresso allarmante» del Pci, da qui i «due vincitori». La conseguenza era che i due partiti maggiori potevano ora «paralizzarsi» a vicenda: si trattava di una situazione da cui non si sarebbe usciti con nuove elezioni e che, anzi, avrebbero prodotto un ulteriore «logoramento». Secondo Moro, non si trattava solo di una scelta politica obbligata: era anche quella moralmente più valida. Per la prima volta dal 1947, infatti, la Dc non era più in condizione di formare una maggioranza politica organica (almeno «al momento», corresse nell'ultima stesura): il tramonto della centralità democristiana - su cui Moro avrebbe insistito anche negli scritti della prigionia da parte delle Br - più che dai successi comunisti dipendeva però dai socialisti. Moro intuisce che questi speravano di intercettare i movimenti della società italiana formando, insieme a nuove forze emergenti, un forte polo laico e comprende che si stava preparando una profonda trasformazione del panorama politico italiano.