Cronaca

Festival del giornalismo, le nuove economie delle mafie e una Rai che fatica a cambiare

Il panel con Nicola Gratteri 
Il comune di Perugia difende il festival, dopo l'attacco a Luxuria e Berizzi. Febbre da podcast: 197 milioni di ascoltatori del 2019
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PERUGIA - Ultimo atto del Festival Internazionale del Giornalismo, dopo la brutta parentesi dell’imbrattatura contro Vladimir Luxuria e il nostro cronista Paolo Berizzi, esposta in un lenzuolino da Forza Nuova e propagata con un post, peraltro zeppo di errori, su Facebook. Lo stesso comune di Perugia, oggi governato dal centrodestra e in piena battaglia elettorale, prende le distanze, attribuendo alla rassegna “un valore straordinario di promozione e confronto civile” ed evitando di dare visibilità a queste forme di contestazione.

Gratteri e la rivoluzione che non arriva

“Dov’è la rivoluzione? Dov’è lo Stato che decide da che parte stare, che finalmente fa la voce grossa con i più forti? Bisogna raggiungere un solo risultato: delinquere non conviene!”. Applaude Perugia, come ha sempre applaudito il procuratore Nicola Gratteri, un beniamino del Festival, ma in tutti c’è la consapevolezza che parleremo ancora molto di barconi e famiglie modello e poco di mafia e corruzione. Quanto sarebbe importante, anche per il ruolo del nostro Paese, avere personaggi come Gratteri e don Ciotti girare l’Europa per una battaglia legislativa, referendaria, spiegare ai tedeschi, danesi, irlandesi che sempre di più somigliano ai vecchi siciliani di un tempo, quelli che dicevano che la mafia non esiste, mentre il crimine organizzato sta corrodendo da dentro tutta l’economia continentale? “Ci abbiamo provato in tutti i modi”, ammette Gratteri, scuotendo la testa.

Ormai non c’è bisogno neanche del pizzo, spiega il suo compagno di panel Antonio Nicaso: 'ndrangheta, camorra e la stessa mafia sono holding finanziare con affari ad ampio spettro. Un esempio: ristoratori che non devono pagare nulla a patto che usino i prodotti di aziende controllate dalla mafia. Forse si dovrebbe cominciare a studiare una D.O.C.T. per i nostri prodotti, denominazione di origine controllata e trasparente.

La presentazione del libro di Carlo Verdelli

“È un libro strano, con la copertina gialla e il passo del racconto, ma fondamentalmente è un libro di giornalismo”. Carlo Verdelli, direttore di Repubblica, introduce così il suo intervento al Festival, sollecitato dalle domande di Alessandra Sardoni. Roma non perdona è una buona occasione per parlare di Rai, la più grande azienda culturale italiana piena di problemi, in primis gestionali.
Carlo Verdelli, direttore di Repubblica 

Un’azienda che si guarda e non guarda, che parla e non ascolta, in un momento stravolgente per il “medio schermo”, quello televisivo, per cui molte trasmissioni si mantengono a galla grazie al fatto che si possono “non vedere” (i tanti talk ad esempio), da ascoltare mentre chatti al cellulare, stai in Facebook, addirittura apri un video, altroché interruzioni pubblicitarie. “Un’azienda concepita per il Novecento - afferma Verdelli, direttore dell’informazione Rai per poco più di un anno e autore di un voluminoso piano di ristrutturazione mai diventato realtà – ma del tutto inadeguata per l’epoca digitale. Quando me ne andai, il 3 gennaio 2017, l’allora presidente Campo Dall’Orto cercò di preservare almeno la parte dedicata alla digitalizzazione e all’informazione on demand, chiamando in causa non lo straniero Verdelli ma l’eroina di casa, Milena Gabanelli. Risultato: siamo entrambi fuori dalla Rai”.

Cosa non perdona Roma? “Semplicemente il fatto di cambiare le cose. Di organizzare in modo più funzionale 25 telegiornali quotidiani (oggi addirittura aumentati di numero), molti dei quali fatti con gli stessi servizi. Il fatto di mantenere tutta l’informazione nella Capitale senza delegare un tg a Milano e un altro a Napoli, dove si paga il canone come a Roma. Il fatto di pensare le tre reti non secondo aree politiche, peraltro ormai confuse, ma secondo target di utenti: la prima rete generalista, la seconda più giovane, la terza local. E mille altre cose ancora”.

Il libro offre spaccati di potere romano (un pinguino piccolo piccolo, verrebbe da dire, ricorrendo all’immagine di copertina che Verdelli usa per ironizzare sulla sua condizione di animale ibrido, in precario equilibrio sul ghiaccio), come l’incontro con l’allora premier Renzi - “mai visto un uomo così felice di essere se stesso”, scrive Verdelli - o come le Commissioni bicamerali di vigilanza, all’epoca presiedute da Roberto Fico, dove gli sgambetti venivano dal centrosicnistra, disorientato dalle sconfitte di Roma e Torino, soprattutto dagli esiti referendari.

Febbre da podcast

Un piccolo ma significativo incontro è stato quello sui podcast, una delle nuove frontiere per i network di news. Presenti Stefano Chiarazzo di Social radio lab, Tonia Maffeo di Voxnest, Tommaso Pellizzari del Corriere della Sera e Laura Pertici di Repubblica. Si è parlato del caso dell’anno, Veleno, la serie che ha segnato un prima e un dopo nella storia del podcast italiano, della propensione all’intervento autorevole, approfondito e firmato da parte del Corriere e di una decisa impennata di consenso da parte del pubblico internazionale, soprattutto quello under 50, peraltro incoraggiata dai grandi player della distribuzione, sempre più interessati ad avere nel proprio carnet prodotti di alta qualità.

Si è passati da 22 milioni di utenti nel 2006 ai 197 milioni del 2019. Emerge il pubblico under 50 e soprattutto negli Usa il podcast interessa sempre più donne emancipate, in buona parte afroamericane.

Aboubakar non va più a piedi

“Sarai sempre a piedi!”. Un grido lanciato dall’auto, uno sberleffo vigliacco rivolto a un uomo dalla pelle scura, di ritorno dal campo di lavoro, sul bordo della strada, preoccupato di procedere radente al fosso per non farsi investire. Era Aboubakar Soumahoro, sindacalista di base oggi in tutte le librerie con la sua prima fatica Umanità in rivolta (Feltrinelli, 2019). Soumahoro continua ad andare a piedi ma fuori della Sala dei Notari ha spinto a stare in piedi migliaia di cittadini, una delle code più lunghe del Festival, avvolta tutt’intorno alla Fontana Maggiore e fino a corso Vannucci. Impossibile per i familiari di Aboubakar e per lui stesso trattenere la commozione al momento di prendere la parola, presentato dal direttore dell’Espresso, Marco Damilano.

Ascoltarlo significa andare all’origine della funzione sindacale ed è un bagno purificatore benefico, anche se lui stesso tiene a ringraziare i suoi maestri sindacalisti e i tanti che, anziché sbeffeggiarlo, lo hanno accolto come uno di famiglia. Aboubakar, ormai più noto col suo nome che con il cognome, è italo-ivoriano, laureato in Sociologia all'Università di Napoli, è segue da anni i lavoratori agricoli sopraffatti dal caporalato.

Impossibile non risalire alla figura di Di Vittorio, un idolo per lui. La sua visione ampia delle problematiche, il suo ruolo di Presidente della Federazione sindacale mondiale, la capacità di dare risposte complete e con una visione futura. E sapersi porsi le domande giuste: quel lavoratore, pure pagato, riesce a pagare l’affitto? O il mutuo di casa? Riesce a far studiare i figli? Aboubakar parla delle periferie e di tutti quegli ultimi, bianchi e neri, che sciagurate politiche urbanistiche hanno scalciato via dal centro, mandandoli ai margini della città. E delle battute di caccia dei politici che al momento delle elezioni arrivano nel deserto con le truppe cammellate per scomparire poco dopo.

Aboubakar parla ancora della brutalità che non riusciamo più a vedere nel rider che consegna le pizze sotto la pioggia o nel giovane cronista a tre euro il pezzo. Ne sentiremo parlare ancora. Intanto è