Esteri

Via della Seta, quello che c'è da sapere

Che cosa riguarda, chi ci guadagna, quali sono i rischi del percorso avviato a suo tempo dal governo Gentiloni

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PECHINO - Secondo alcuni è il più grande progetto di diplomazia economica dai tempi del Piano Marshall. Secondo altri è lo strumento di un nuovo espansionismo cinese. Le opinioni sulla Via della seta sono molto diverse. Nel momento in cui l’Italia dibatte se aderirvi o meno, con interessati e decisi interventi di Washington, Bruxelles e Pechino, proviamo a capire di che cosa si tratta.
 
Che cosa è la Nuova Via della seta?
Yi dai yi lu, One Belt One Road, una cintura e una strada, è un piano di investimenti globali in infrastrutture lanciato da Xi Jinping nel 2013. I contorni del progetto sono volutamente vaghi, secondo la Cina al momento hanno formalmente aderito 67 Paesi, firmando il Memorandum di intesa che anche l’Italia sta discutendo. Le stime di investimento variano tra i mille e gli 8mila miliardi di dollari, il Paese maggiormente coinvolto è il Pakistan, con cantieri per 60 miliardi. 
 
Che cosa si costruisce lungo la Via della seta?
Strade, ferrovie, porti, centrali energetiche, tra le altre cose. La Via della seta ha due direttrici principali da Est a Ovest, entrambe arrivano in Europa: una terrestre che passa attraverso l’Asia centrale e una marittima che attraversa l’Oceano Indiano fino all’Africa, per poi piegare verso Nord. L’Italia sarebbe un approdo naturale di questa rotta, si ipotizza un investimento cinese nel porto di Trieste.
 
Che cosa dice la Cina?
La Cina lo descrive come un progetto pacifico di rilancio della globalizzazione e dei liberi commerci, basato sulla logica del “win-win”, dei mutui benefici con i Paesi partner. Molti osservatori riconoscono che un progetto di diplomazia economica di questa portata non si vedeva dai tempi del Piano Marshall americano. Altri contestano la sua natura pacifica: secondo loro la Via della seta è una proiezione della potenza cinese fuori dal suo territorio.
 
Chi ci guadagna?
I benefici reciproci ci sono, ma non sono ripartiti così equamente come Pechino vorrebbe. Paesi a corto di capitali riescono grazie ai prestiti cinesi a costruire infrastrutture che altrimenti non potrebbero finanziare. La Via della Seta però è prima di tutto un progetto con cui la Cina cerca di dare sfogo alla sua sovraccapacità produttiva interna. Vari studi hanno mostrato che oltre il 90% dei lavori viene affidato ad aziende cinesi, per lo più colossi di Stato. Non solo: i prestiti cinesi si devono ripagare con gli interessi. 
 
Che cosa è la “trappola del debito”?
Vari Paesi coinvolti nella Via della seta hanno contratto livelli di debito insostenibili, finendo per doverle concedere alla Cina lo sfruttamento delle proprie infrastrutture e di parti del proprio territorio. E’ il caso per esempio dello Sri Lanka con il suo principale porto. Di recente i governi di Maldive, Pakistan e Malesia hanno chiesto a Pechino di rinegoziare gli accordi, in modo che siano meno gravosi, più trasparenti e più legati alle effettive esigenze delle loro economie.
 
L’Italia rischia di finire in questa trappola?
No. Le finanze pubbliche italiane, nonostante il livello del nostro debito, hanno ben altra solidità. Non sono certo un paio di cantieri che possono spostare gli equilibri dei nostri conti pubblici. Il Memorandum di intesa inoltre non è un contratto vincolante, ma solo una piattaforma di cooperazione, che andrebbe poi “sostanziata” con degli effettivi progetti congiunti firmati tra le aziende dei due Paesi.
 
Da quando Roma pensa alla Via della seta?
È stato il precedente governo ad avviare la trattativa: nel maggio 2017 Paolo Gentiloni ha partecipato al primo Belt & Road Forum, unico capo di governo del G7. Con l’esecutivo gialloverde però il negoziato ha improvvisamente accelerato.
 
Che cosa guadagna l’Italia se firma?
Secondo il governo l’adesione alla Via della seta sarebbe una specie di scorciatoia per intensificare i rapporti con la Cina, attrarre maggiori investimenti e intensificare l’export, oggi in grave ritardo rispetto a Francia o Germania. Il risultato però è dubbio: se è vero che la Cina ha un occhio di riguardo per chi firma il Memorandum, non è detto che merci o progetti di un partner abbiano un vantaggio sostanziale rispetto a quelli di chi non aderisce. La Germania fa eccellenti affari in Cina senza aver firmato nulla.
 
Che cosa rischia l’Italia?
Secondo il governo nulla, visto che il Memorandum non è un documento tecnico e non vincolante. Politicamente però ha un enorme valore, visto che un Paese fondatore dell’Europa, la sua terza economia, aderirebbe a un progetto infrastrutturale concepito, scritto e diretto da Pechino. Questo proprio mentre l’Europa sta cercando di contrastare la penetrazione cinese nel Continente e gli Stati Uniti di “contenere” l’ascesa dell’avversario globale.
 
Il Memorandum si può negoziare?
Il governo italiano sostiene di sì, che all’interno possono essere inserite delle clausole di reciprocità e trasparenza. Altri dicono invece che la Cina invia un Pdf non modificabile, prendere o lasciare. Inoltre, se Pechino modificasse le condizioni per l’Italia, chi ha già firmato pretenderebbe parità di trattamento. Non è detto neppure che il testo sia pubblico.
 
Il governo dice che altri Paesi europei hanno già firmato, è vero?
Vero, sono Ungheria (nel 2015), Grecia e Portogallo (entrambi nel 2018). Si tratta però di Paesi che appartengono alla cosiddetta “periferia” dell’Unione, guidati da governi autoritari e antieuropeisti, come Budapest, oppure in gravi difficoltà economiche come Atene, che ha ceduto ai cinesi il controllo del Pireo. L’Italia, almeno sulla carta, ha un peso diverso nell’Unione.
 
Cosa chiede la Cina ai suoi alleati?
Pechino sostiene di non immischiarsi negli affari interni dei Paesi partner, in realtà sa sfruttare molto bene la propria influenza. Nel 2017 per esempio la Grecia ha bloccato una risoluzione europea alle Nazioni Unite critica nei confronti dei diritti umani in Cina. Due giorni fa l’Italia si è astenuta, unica insieme al Regno Unito, dal voto finale sul nuovo meccanismo europeo per il monitoraggio degli investimenti esteri. Con il precedente governo eravamo stai tra i promotori dell’iniziativa.