Esteri

I diseredati dell'Honduras, la carovana che fugge dai narcotrafficanti

Il racconto. La rotta dei disperati e il ruolo degli Usa. Uccidere o essere uccisi: non hanno alternative. Sono partiti lo scorso ottobre, poi la nuova marcia. È il più grande esodo dal narcotraffico dell'umanità
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La carovana di migranti partita l’ottobre scorso dall’Honduras è stata la più grande fuga dal narcotraffico nella storia dell’umanità. Nonostante il fenomeno delle carovane centroamericane non sia nuovo, non era mai successo che migliaia di persone decidessero di fuggire così in massa dalle organizzazioni criminali. I migranti sono partiti da San Pedro Sula, città non lontana dal confine con il Guatemala, la seconda più popolosa dell’Honduras e suo centro economico. Circa 160 persone si erano date appuntamento il 12 ottobre alla stazione degli autobus, ma al momento della partenza erano già un migliaio.

Si sceglie di partire insieme per farsi da scudo, per proteggersi l'un l'altro, perché spesso durante il viaggio si viene derubati anche di quel poco che si ha. L'alternativa è affidarsi ai trafficanti, i coyotes, che chiedono circa 7-8mila dollari per arrivare negli Usa, a volte anche di più. Una cifra che si può raccogliere in decenni di lavoro e per cui spesso ci si indebita con delinquenti a cui si dovranno soldi a vita.
Dal 2011 al 2014 San Pedro Sula è stata la città più violenta del mondo, finché Caracas nel 2015 le ha tolto il primato. Le organizzazioni criminali hanno ridotto da parecchi anni il Paese a uno stato di guerra senza che ufficialmente venga annoverato come tale. Nel 2012, l'Honduras era il Paese con il tasso più alto di omicidi pro capite: 90 persone uccise ogni 100 mila abitanti, ma a San Pedro Sula si arrivò a 169 omicidi ogni 100 mila abitanti. L'Honduras è il luogo in cui sono state girate molte edizioni internazionali de L'isola dei famosi; per anni è stato, nell'immaginario occidentale, solo un paradiso naturale di spiagge bianche, popolato di pesci e palme da cocco generose, dove il fastidio più grande è dato dalle zanzare. Ma la storia è ben altra. Il World Economic Forum, nel suo Global Competitiveness Report annuale, stila la classifica dei Paesi in cui la criminalità organizzata ha il maggiore impatto sulla società: nel report pubblicato alla fine del 2017, l'Honduras si piazza al secondo posto, preceduto solo da El Salvador; nel report del 2018, il Salvador continua a guidare la classifica, mentre l'Honduras scende al quinto posto. Insieme a El Salvador e al Guatemala, l'Honduras forma il cosiddetto "Triangolo del Nord del Centro America", una delle aree non in guerra più pericolose del pianeta.

Il motivo che rende queste terre un vero e proprio inferno in terra è il fatto che si trovano geograficamente tra chi produce cocaina - la Colombia, il Perù e la Bolivia - e chi la vende - il Messico. La carovana di migranti segue esattamente la rotta via terra della cocaina che ogni giorno entra negli Stati Uniti, i maggiori consumatori mondiali di questa droga.

Già nel '75, l'Honduras era utilizzato come scalo dal Cartello di Cali dei Rodríguez Orejuela (i rivali di Pablo Escobar). Dopo il loro arresto, rivelarono alle autorità che la cocaina partiva dalla Colombia in aereo e atterrava proprio a San Pedro Sula, poi da lì ripartiva alla volta di Miami. In realtà, fino agli anni '80, per trasportare la coca negli Stati Uniti i cartelli colombiani utilizzavano principalmente il mare, passando per i Caraibi e sbarcando in Florida, ma quando l'antidroga Usa intensificò i controlli in quel tratto di mare e iniziò a sequestrare sempre più carichi di droga, la rotta via terra che dal Centro America, attraverso il Messico, raggiungeva gli Stati Uniti sembrò una valida alternativa. E questa rotta divenne sempre più battuta quando le guerre civili in El Salvador e in Guatemala finirono (rispettivamente nel '92 e nel '96). Ma la fine di quei conflitti diede anche un'altra opportunità ai cartelli. Durante le guerre civili, infatti, le madri, per salvare i propri figli dal diventare o guerriglieri del Fronte Farabundo Martí o soldati dell'esercito regolare mandati al massacro, li spedirono negli Stati Uniti; abbandonati al loro destino a Los Angeles, emarginati dalla società, questi ragazzi crearono le famose maras, cioè bande di strada formate da giovani immigrati centroamericani per difendersi dalle gang afroamericane, asiatiche e messicane che già imperversavano nella città californiana. Nacquero così gruppi violentissimi, molto coesi, come la Mara Salvatrucha (MS13) o la Mara 18.

Il governo statunitense non vedeva l'ora di sbarazzarsi di questo problema e, quando finirono le guerre civili in Centro America, rivomitò letteralmente nelle loro terre d'origine migliaia di giovani, partiti ragazzini e tornati mareros, i quali videro nel narcotraffico un'opportunità, e i cartelli la videro in loro. Nel frattempo, l'Honduras, l'unico Paese dell'area a rimanere estraneo alla guerra civile, oltre ad essere sfruttato come piattaforma del contrabbando dalle organizzazioni criminali, era stato usato dagli Stati Uniti come base per fornire supporto ai Contras, i paramilitari che lottavano contro il governo socialista del Nicaragua: ecco, quindi, che dall'Honduras passava di tutto, dalla droga alle armi.

Nel 2010 gli Stati Uniti per la prima volta hanno definito l'Honduras uno dei principali Paesi di transito della droga.

L'Honduras e il Centro America hanno pagato un prezzo altissimo per le politiche degli Stati Uniti, ma Trump si limita a sfruttare l'effetto della tragedia. Tipico del populismo è non ragionare mai sulle cause, ma dare una lettura superficiale e opportunistica dei fenomeni: ecco quindi che il Presidente parla di "invasori", di "freddi e spietati criminali" che arriverebbero per occupare e depredare. Nulla di tutto questo.
Oggi in Centro America le maras sono i più efficienti centri per l'impiego per giovani disoccupati: secondo un report dell'Unodc, nel 2012 in Honduras si contavano 12mila membri (ma un report dello stesso anno della US Agency for International Development ne stimava 35mila). Queste gang controllano il territorio in modo capillare e proteggono il narcotraffico dei grandi cartelli.

Le attività commerciali vengono sottoposte a estorsione, le strade delle città diventano teatro degli scontri tra bande rivali che si contendono le piazze di spaccio, nella jungla vengono disegnate piste clandestine per aerei carichi di coca che vanno e vengono. I ragazzi, sempre più giovani, vengono reclutati dalle maras come soldati del narcotraffico, e rifiutarsi di entrare nel gruppo può essere fatale. Chi critica il sistema e cerca di cambiarlo viene eliminato. Dal 2010 al 2016 più di 120 attivisti per l'ambiente e diritti umani sono stati uccisi. Dal 2001 circa 70 giornalisti sono stati ammazzati, e oltre il 90% di questi omicidi è rimasto impunito. È da questa situazione che si fugge, da un panorama che sembra non offrire alcun futuro se non uccidere o essere uccisi.

Da San Pedro Sula a Tijuana, al confine con gli Usa, ci sono oltre 4mila chilometri, e chilometro dopo chilometro la carovana si è ingrossata fino a contare circa 10mila persone. Da metà novembre, a ridosso della frontiera si sono creati grandi campi profughi con migliaia di persone ammassate in tende, in attesa che la loro richiesta di asilo fosse vagliata. Di fronte alla prospettiva di rimanere settimane, forse mesi, in quel limbo di insicurezza e precarietà, alcuni di loro hanno tentato di attraversare illegalmente il confine, altri hanno chiesto asilo in Messico, altri ancora hanno desistito e sono tornati indietro. A metà gennaio centinaia di migranti ancora premevano al confine. Nella carovana c'erano anche madri e padri partiti per far curare i loro figli disabili negli Stati Uniti, come Juan Alberto Matheu, che ha percorso oltre 4000 chilometri con sua figlia Lesley, in carrozzina dopo un ictus avuto all'età di due anni.

Durante le tappe del percorso, Juan Alberto cercava dei catini per poter fare il bagno alla bambina. Dopo aver trascorso 3 settimane in un campo profughi a Tijuana, Juan è finalmente riuscito ad entrare negli Stati Uniti e, dopo 4 giorni in custodia, è stato rilasciato ed ha potuto finalmente far visitare sua figlia in un ospedale americano. Jakelin Caal Maquin, 7 anni, era sana, invece, quando è partita con suo padre Nery Gilberto da Raxruhá, in Guatemala, 3200 chilometri dagli Usa. La sera del 6 dicembre vennero entrambi arrestati da una pattuglia di frontiera in New Mexico, dopo avere attraversato illegalmente il confine. Poche ore dopo, mentre era sotto la custodia degli agenti americani, Jakelin cominciò ad avere febbre alta e convulsioni: morì il giorno dopo in ospedale per setticemia e disidratazione. Sono questi i pericolosi criminali di cui parla Trump?

Sono queste le persone violente contro cui ha autorizzato i soldati a usare la forza letale se necessario? Nonostante le sue numerose dichiarazioni, non ci sono prove della presenza di criminali o di narcotrafficanti al seguito della carovana. I giornalisti che l'hanno seguita hanno sempre testimoniato la presenza di persone comuni, disperati che non sono criminali ma che, anzi, dai criminali scappano. Far passare queste persone come pericolose, arrivare a dire che la carovana sarebbe infiltrata da "ignoti mediorientali", però, a Trump serve, perché in questo modo potrà utilizzare qualsiasi provvedimento emergenziale per impedir loro di entrare o rimanere negli Stati Uniti; ma soprattutto alimenta quel clima di terrore e di diffidenza verso l'altro su cui Trump ha costruito campagne e sancito successi elettorali. Se convince gli americani che al confine Sud esiste un'emergenza, sarà più facile anche convincerli che serve un muro con il Messico.

Non ottenere quel muro, che è stato il mantra della sua campagna presidenziale, significherebbe deludere il suo elettorato e mostrarsi debole, significherebbe far vincere i democratici, e non solo su questo punto: sul muro Trump si sta giocando la sua rielezione. Per questo non appena ha saputo della partenza di una nuova carovana dall'Honduras, il 15 gennaio ne ha approfittato per twittare che per fermare i migranti non basteranno le politiche messe in atto dai democratici, ma solo il muro funzionerà.

Eppure, nonostante la politica di chiusura messa in atto dal governo statunitense negli ultimi mesi, nonostante i tweet minacciosi di Trump, nonostante le centinaia di centroamericani ancora fermi in Messico in attesa di trovare asilo, nonostante gli arresti per chi ha scavalcato illegalmente il confine e i rimpatri di migliaia di persone, il dato di fatto è che una nuova carovana di disperati è partita. Si sono messi in viaggio pur sapendo che, dopo settimane di cammino, entrare negli Stati Uniti non sarebbe stato un epilogo scontato. La politica di Trump non può fare nulla per fermare la loro fuga per la vita.

L’articolo sulla "New York Review of Books" L’articolo di Roberto Saviano pubblicato in questa pagina è uscito in una versione più lunga sulla rivista "New York Review of Books"