Esteri

Gli affari cinesi del figlio che imbarazzano il candidato alla presidenza Usa, Joe Biden

Hunter Biden, il secondogenito dell'ex vice presidente, sarebbe tra gli investitori di una startup di riconoscimento facciale che lavora con il governo comunista alla sorveglianza della minoranza musulmana nello Xinjiang

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PECHINO - Tra gli investitori in Face++, una startup cinese di riconoscimento facciale che lavora con il governo comunista alla sorveglianza della minoranza musulmana nello Xinjiang, ci sarebbe anche Hunter Biden, il secondo figlio dell'ex vice presidente Joe, candidato dei democratici per le presidenziali del 2020. La rivelazione è del sito di giornalismo investigativo The Intercept e finora non è stata smentita dai diretti interessati.

Un affare imbarazzante, visto che le violazioni dei diritti umani in Xinjiang da parte del Grande Fratello cinese sono state condannate da diverse organizzazioni internazionali, Nazioni Unite comprese. E che qualche giorno fa in un comizio in Iowa Joe Biden ha difeso Pechino dagli attacchi di Donald Trump con parole sorprendentemente nette: "Non sono cattivi ragazzi. Non sono concorrenti per noi", ha detto, attirandosi critiche fuori e dentro al Partito democratico, schierato su posizioni anche più anti-cinesi di quelle del presidente.

L'investimento in Face++ di Hunter Biden, avvocato 49enne figlio della prima moglie del politico, morta insieme alla figlia in un tragico incidente stradale, sarebbe avvenuto attraverso un veicolo finanziario chiamato "Bohai Harvest RST", che The Intercept definisce "la sua società di investimento in Cina". Fondata nel 2013 da Biden e altri rampolli con ottime connessioni a Washington, come il figlio adottivo dell'ex segretario di Stato Jonh Kerry, avrebbe acquisito partecipazioni in diverse aziende cinesi, da produttori di automobili a miniere, a startup innovative come Didi (rivale locale di Uber) e Face++.

L'operazione è del 2017, quando ancora la questione dello Xinjiang non era in primo piano. Ma al di là della singola discussa operazione, dall'attività di Bohai Harvest RST sembrano emergere legami molto forti con esponenti del capitalismo di regime cinese. Secondo The Intercept il fondo avrebbe raccolto denaro da una serie di operatori statali e avrebbe una partnership con il tentacolare gruppo HNA. Accordi chiusi mentre suo padre dialogava con Xi Jinping in qualità di vice presidente degli Stati Uniti.

Quella con la Cina non è l'unica connessione d'affari problematica di Hunter Biden. Qualche giorno fa il New York Times ha ricordato che nel 2014 il figlio del candidato democratico alla presidenza era stato nominato nel consiglio di amministrazione di una società energetica ucraina di nome Burisma Holdings. Nel frattempo, dopo l'intervento militare russo, il padre si occupava in prima persona del dossier ucraino come vice di Obama.

Il team della campagna elettorale ha replicato che Joe Biden ha sempre agito nell'interesse degli Stati Uniti, mai discusso il dossier con il figlio e appreso del suo ruolo in Burisma dai media. Versione che non scaccia del tutto i sospetti di conflitto di interessi.

Ma visti i tempi di scontro tra superpotenze, è la "connection" cinese di Hunter che, se non chiarita a dovere, rischia di penalizzare davvero Joe Biden. Il politico ha da sempre una posizione da "colomba" verso Pechino. In questo clima di ostilità anticinese bipartisan rischia di essere difficile da difendere. Ancora di più con il sospetto che abbia in qualche modo favorito gli affari del figlio.