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Addio a Okwui Enwezor, primo curatore africano della Biennale

Guidò la rassegna nel 2015, riportando al centro la politica e Il Capitale di Marx

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Okwui Enwezor, scomparso a 55 anni dopo una lunga malattia, passerà alla storia dell'arte almeno per due motivi. Uno: è stato il primo curatore di origine africana della Biennale di Venezia. Due: proprio nella sua edizione, la numero 56, nel 2015, un gruppo di performer leggeva senza interruzione per sei mesi Il Capitale di Karl Marx. "Perché Il Capitale non è solo un libro, è un monumento - spiegava - . Nulla come quest'opera ha anticipato il dramma della contemporaneità".
 
Nato in Nigeria nel 1963, è diventato presto cittadino del mondo. A New York arriva nel 1982, non ancora ventenne. Nel 1994 fonda la rivista N-KA, un punto di riferimento per l'arte africana contemporanea. Pubblica il saggio Contemporary African Art Since 1980, che traccia la strada per il recupero dell'arte africana dell'ultimo tratto del Novecento, sottovalutata dai grandi musei e dal mercato. L'impegno politico è una costante del suo lavoro di curatore. Illuminare l'intelligenza artistica degli outsider e delle minoranze diventa una missione. Le sue mostre raccontano i movimenti di liberazione e di indipendenza africani (The Short Century: Indipendence and Liberation Movements in Africa 1945-1994 fa il giro del mondo), l'apartheid, lo sguardo dei fotografi sulle società nere oppresse.
 
La carriera nel firmamento artistico è fulminante: nel 2002 dirige Documenta 11 a Kassel. Anche qui un record: è il primo non europeo a guidare la rassegna tedesca. Con la Germania intreccia un rapporto privilegiato: dal 2011 è il direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera, che rinnova e rilancia. Lo scorso giugno lascia il suo posto per ragioni di salute. Ma la sua ultima mostra, la retrospettiva dell'artista ghanese El Anatsui è aperta, proprio lì, dall'8 marzo.
 
La Biennale d'Arte del 2015 All The World's Futures resterà il suo testamento: "Oggi una Biennale d'arte non può ignorare quello che accade in Siria, Iraq, Palestina. Questo pianeta, cento anni dopo il primo colpo che portò alla Grande guerra, è di nuovo in disordine", diceva. Oggi il presidente della Biennale Paolo Baratta lo ricorda: "La sua grande apertura verso gli artisti del mondo, il suo grande senso di responsabilità da curatore e il suo coraggio nel proporre e difendere le ragioni dell'Arte, sono stati sempre elementi ispiratori del suo lavoro, che è stato svolto in ogni occasione con grande onestà intellettuale e una raffinata capacità di analisi e di scelta".
 
Con Enwezor l'arte contemporanea è tornata a essere testimonianza politica e strumento di riscatto. Senza slogan, senza tweet. Semplicemente con la ricerca e la necessità di lavorare per tutti i futuri del mondo.