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Marchesi: "A 70 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani c'è ancora molta strada da fare"

Il presidente di Amnesty Italia nell'anniversario della carta varata il 10 dicembre 1948

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Antonio Marchesi, giurista, è presidente della sezione italiana di Amnesty International. Come si celebra il settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani?
"Vorremmo che non fosse oggetto delle solite celebrazioni retoriche che poi servono a dimenticare più in fretta, ma che fosse valorizzata per quello che è: un orizzonte di riferimento che può essere calato nella realtà. Vorremmo che fosse fonte di ispirazione, di politiche, di scelte legislative. Se la si dà per scontata la si relega fra gli atti tanto solenni quanto dimenticati. Ci sono norme della Dichiarazione  che non sono rispettate neanche in Italia".

Secondo lei la Dichiarazione è stata tradita, o ha fallito? Non siamo riusciti a trasformare i diritti umani nella religione del nostro tempo, come molti speravano.
"Certo nell'approvarla non ci si aspettava che il mondo da un giorno all'altro, come con una bacchetta magica, sarebbe diventato il posto dove i diritti di tutti sarebbero stati rispettati. La stessa Eleanor Roosevelt parlava di 'standard achievement', un obiettivo da perseguire. Il punto non è che si realizzi immediatamente il rispetto totale, ma che si vada nella direzione giusta e che il godimento dei diritti aumenti e non diminuisca, come sembra accadere in questo periodo".

C'è il pericolo che i diritti umani vengano fraintesi come concetto?
"E' quello che succede se vengono negati a una categoria sempre più ampia di persone, come se non fossero qualcosa che ci appartiene fin dalla nascita, buoni o cattivi che si sia. E poi, chi decide? Chi si arroga il potere di distinguere?".
 
Come avviene questo abuso?
“Il meccanismo è quello dei capri espiatori. Si individua una categoria di persone e le si indica come causa del disagio sociale, esprimendo nei loro confronti ostilità se non odio: chi viene da Paesi stranieri, chi ha una cultura diversa o magari un altro colore della pelle. Il razzismo rinasce quando si comincia di fatto a negare diritti che sono legati alla condizione umana, non all’appartenenza a un gruppo. In Italia si dice: prima gli italiani. Ma se si parla di diritti umani, questo non ha senso. Il diritto di chi sta male a essere curato, la libertà di chi è detenuto ingiustamente il diritto di chi lavora di essere pagato non sono esclusivi: sono di tutti”.
 
Lei vede i diritti umani come un work in progress o l'obiettivo è un mondo dove i diritti di base vengono riconosciuti a tutti?
"Quest'ultima sarebbe un'utopia, ma per un'organizzazione come Amnesty, l'utopia è un progetto. Facciamo piccoli passi e ci avviciniamo a una meta. Siamo pragmatici. Se facciamo la campagna per l'abolizione della pena capitale, magari otteniamo che meno reati siano puniti con la morte, o che i processi riducano il numero di condanne, o che certe categorie siano escluse da queste sentenze: sono piccoli passi".

Lei è stato alla presidenza di Amnesty per dieci anni, pur non consecutivi. Che bilancio farebbe guardandosi indietro? E' fisiologico che si sia sempre insoddisfatti?
"Direi proprio che no, non dobbiamo essere insoddisfatti. Amnesty a volte ha successo, è vista come riferimento o come possibilità di agire quando le cose vanno male, il che vuol dire che c'è sempre chi ha bisogno dell'organizzazione. Anche la sezione italiana negli ultimi anni si è fatta sentire: abbiamo una serie di obiettivi specifici italiani, cerchiamo di essere una spina nel fianco di chi governa, siamo sempre visibili. Ma nel tempo Amnesty si è molto trasformata, se no sarebbe il fantasma di se stessa, una prestigiosa organizzazione del passato. Quando Peter Benenson ha fondato Amnesty il Muro di Berlino non era stato ancora stato costruito. Il mondo è cambiato tantissimo, se non fossimo cambiati molto anche noi, il nostro ruolo si sarebbe esaurito. E' cambiato il nostro modo di agire e anche la nostra visione, un tempo avevamo un cosiddetto mandato limitato, oggi ci occupiamo di più diritti, cerchiamo di raggiungere lo stesso obiettivo con modalità più adatte ai tempi".

In che senso?
"Siamo nati durante la Guerra fredda. Avevamo dei gruppi che si occupavano di prigionieri dell'est, uno dell'ovest, uno del sud. Scrivevamo lettere, a mano, ci mettevamo il francobollo e le andavamo a imbucare nella buca. Oggi non ci occupiamo solo dello scopo originario, liberare i prigionieri di coscienza, ma anche di diritti come quello all'alloggio, alla salute materna, a non subire torture, alla libera espressione, eccetera, ma la gamma dei diritti è più ampia di quella iniziale. Siamo però rimasti un'organizzazione partecipativa, basata sul volontariato, che coinvolge gli associati. Non vogliamo ottenere solo che una persona sia rilasciata, ma che sia cambiata la legge che ne ha determinato la detenzione".

Insomma, il mondo sarebbe stato peggiore senza Amnesty?
"E' una delle poche certezze che ho. Amnesty ha sempre svolto un ruolo positivo, ha contribuito a migliorare il mondo o a non farlo peggiorare oltre quello che è accaduto".