Vaticano

Il Papa: "Ho firmato l'accordo con la Cina per superare tanta sofferenza"

Francesco parla sul volo di ritorno dal viaggio nei Paesi baltici. Affronta il tema dei migranti: "Accoglierli con prudenza, affinché si integrino". E la pedofilia: "Un prete che abusa di un bambino è una cosa mostruosa"

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DAL VOLO PAPALE - Dice che è lui il “responsabile dell’accordo con la Cina”. Che ci “sarà un dialogo sui candidati”, ma che “nomina Roma”. E afferma di pregare per chi “non capisce questo accordo”. Sul volo papale che da Tallinn, terza tappa del suo viaggio nei Paesi Baltici, lo riporta a Roma, Papa Francesco apre la conferenza stampa coi giornalisti spiegando le ragioni del recente accordo stipulato dalla Santa Sede con Pechino. Parla anche dei migranti: “Accoglierli nella misura in cui si integrino, con la prudenza dei governi, e che non sia una minaccia contro la propria identità”. Mentre del caso Viganò dice che “gli episcopati del mondo gli hanno scritto” per manifestargli vicinanza, e “insieme due vescovi della Chiesa patriottica e tradizionale”. Questo fatto, dice, è stato “un segnale di Dio”. E, ancora, affronta il tema dello “scandalo dell’industria delle armi” e della legittimità “di difendere i propri confini”, dell’avere “un ragionevole e non aggressivo esercito di difesa”. E, quindi, il tema delle carceri: “Il sovraffollamento è una tortura”, mentre ancora oggi ci sono le “crudeltà” dei tempi del Kgb. E chiosa sugli abusi sessuali: “Un prete che abusa di un bambino o di una bambina è cosa mostruosa perché quell’uomo è stato scelto da Dio per portare il bambino al cielo. La Chiesa deve portare i bambini a Dio e non distruggerli”.
 
Tre giorni fa si è firmato un accordo tra la Santa Sede e il governo della Repubblica cinese. Alcuni cattolici e il cardinale Joseph Zen, emerito di Hong Kong, l’accusano di aver svenduto la Chiesa al governo comunista di Pechino dopo anni di sofferenza. Cosa risponde?
“È un processo che va avanti da anni, un dialogo tra commissione vaticana e commissione cinese per sistemare la nomina dei vescovi. L’équipe vaticana ha lavorato tanto. Vorrei fare alcuni nomi: monsignor Claudio Maria Celli, che con pazienza è andato, ha dialogato, è tornato, per anni. Poi padre Gianfranco Rota Graziosi, un umile curiale di 72 anni che vuole andare in parrocchia, ma che è rimasto in curia per aiutare in questo processo. E poi il segretario di Stato Pietro Parolin che è un uomo molto devoto, ma ha una speciale devozione per la lente. Tutti i documenti li studia, punto, virgola, accenni e questo mi dà una sicurezza molto grande. E questa équipe con queste qualità è andata avanti. Quando si fa un accordo di pace o un negoziato ambedue le parti perdono qualcosa. Questa è la legge. E si va avanti. Si è andati due passi avanti e un passo indietro. Poi i mesi sono passati senza che ci parlassimo. È il tempo di Dio, che assomiglia al tempo cinese: lentamente, questa è saggezza, la saggezza dei cinesi. I vescovi che erano in difficoltà sono stati studiati caso per caso. E sono arrivati i dossier di ciascuno sulla mia scrivania. Sono stato io il responsabile per l’accordo sui vescovi. Le bozze dell’accordo sono tornate sulla mia scrivania, dicevo le mie idee, si discuteva. Penso alla resistenza, ai cattolici che hanno sofferto. È vero. E loro soffriranno. Sempre in un accordo c’è sofferenza, ma loro hanno una grande fede e loro scrivono, fanno arrivare i messaggi che quello che la Santa Sede, che Pietro, dice è quello che dice Gesù. La fede ‘martiriale’ di questa gente va avanti. Sono dei grandi. L’accordo l’ho firmato io. Io sono il responsabile, gli altri hanno lavorato per più di dieci anni. Non è improvvisazione, è un vero cammino. Un aneddoto semplice e un dato storico: quando c’è stato il famoso comunicato di un ex nunzio apostolico - Carlo Maria Viganò, ex nunzio a Washington, ndr - gli episcopati del mondo mi hanno scritto dicendo che si sentivano vicini e che pregavano per me. Dei fedeli cinesi hanno scritto, e la firma di questo scritto era del vescovo della Chiesa, diciamo così, tradizionale cattolica e del vescovo della Chiesa patriottica, insieme tutti e due, per me questo è stato un segnale di Dio. Un altro aneddoto: dimentichiamo che nell’America Latina per 350 anni erano i re del Portogallo e della Spagna a nominare i vescovi e il Papa dava la benedizione. Ricordiamo il caso dell’impero austro ungarico: Maria Teresa si stufò di firmare la nomina dei vescovi e la diede al Vaticano. C’è un dialogo con la Cina sugli eventuali candidati, la cosa si fa in un dialogo, ma nomina Roma, il Papa. Questo è chiaro. E preghiamo per le sofferenze di alcuni che non capiscono o che hanno alle spalle tanti anni di clandestinità”.
 
Oggi ha menzionato il dispiegamento degli armamenti della Russia sui confini. Ci sono molti soldati ai confini per assicurare la sicurezza. Cosa pensa del pericolo di chi vive ai confini?
“La minaccia delle armi, e le spese mondiali sulle armi, sono scandalose. Mi dicevano che con quello che si spende in armi in un mese si potrebbe dare da mangiare a tutti gli affamati del mondo durante un anno. Non so se è vero. È terribile. L’industria e il commercio delle armi, anche il contrabbando, sono una delle corruzioni più grandi. E davanti a questo c’è la logica della difesa. Davide è stato capace di vincere con una fionda e cinque pietre, ma oggi non ci sono i Davide. Credo che per sistemare un Paese si deve avere un ragionevole e non aggressivo esercito di difesa. Ragionevole e non aggressivo. Così la difesa è lecita e anche è un onore difendere la patria così. Il problema c’è quando il difendere diventa aggressivo, non ragionevole e si fanno le guerre di frontiera. Di guerre di frontiera ne abbiamo tanti esempi, non solo in Europa, verso l’Est, ma anche in altri continenti. Si litiga per il potere, per colonizzare un Paese. È scandalosa oggi l’industria delle armi davanti a un mondo affamato. È lecito, ragionevole avere un esercito per difendere le frontiere, perché questo è un onore, come è lecito avere le chiavi della porta della casa”.
 
All’incontro ecumenico a Tallin, Lei ha detto che i giovani di fronte agli scandali sessuali non vedono una condanna netta da parte della Chiesa cattolica. Cosa pensa?
“I giovani si scandalizzano dell’ipocrisia dei grandi. Si scandalizzano delle guerre. Si scandalizzano della incoerenza, della corruzione. Nella corruzione rientrano gli abusi sessuali. È vero che c’è un’accusa alla Chiesa. Tutti conosciamo le statistiche. Ma anche se è stato un solo prete ad abusare di un bambino o di una bambina è cosa mostruosa perché quell’uomo è stato scelto da Dio per portare il bambino al cielo. Capisco che i giovani si scandalizzino di questa corruzione così grave. Sanno che c’è dappertutto, ma nella Chiesa è più scandalosa perché essa deve portare i bambini a Dio e non distruggerli. I giovani cercano di farsi strada con l’esperienza. L’incontro dei giovani oggi era chiaro: chiedono ascolto, non vogliono formule fisse. Non vogliono un accompagnamento che dà direttive”.
 
La Chiesa non fa le cose come deve nel pulire questa corruzione?
“Vediamo l’esempio della Pennsylvania – circa mille sacerdoti accusati di abusi sessuali di trecento minori, ndr –. Vediamo che i primi tempi c’erano tanti preti caduti in questa corruzione. Poi è diminuita, perché la Chiesa si è accorta che doveva lottare in un altro modo. In tempi antichi queste cose si coprivano, si coprivano anche a casa quando lo zio violentava la nipotina, quando il papà violentava il figlio. Si coprivano perché era una vergogna molto grande. Era il modo di pensare dei secoli scorsi. C’è un principio che mi aiuta tanto per interpretare la storia: un fatto storico va interpretato con l’ermeneutica dell’epoca nel quale è accaduto. Non con una ermeneutica di oggi tramandata. L’esempio dell’indigenismo, tante ingiustizie, tante brutalità, non può essere interpretato con l’ermeneutica di oggi che abbiamo un’altra coscienza. Un ultimo esempio: la pena di morte. Il Vaticano quando era Stato pontificio aveva la pena di morte. L’ultimo è stato decapitato intorno al 1870, un criminale, un ragazzo. Ma poi la coscienza morale cresce. È vero che sempre ci sono le scappatoie e ci sono condanne a morte nascoste: tu sei vecchio, dai fastidio non ti dò le medicine… è la condanna a morte sociale di oggi. Negli ultimi tempi ho ricevuto tante condanne fatte dalla dottrina della fede e ho detto: avanti, avanti. Mai ho firmato dopo una condanna una richiesta di grazia. Su questo non si negozia”.
 
In tutti i Paesi baltici lei ha parlato di apertura ai migranti, agli altri. Abbiamo ricevuto il suo messaggio?
“Il discorso sui migranti è abbastanza avanti nei Paesi baltici. Non ci sono forti fuochi populisti. Sia l’Estonia che la Lettonia sono popoli aperti, che hanno voglia di integrare i migranti, ma non massicciamente perché non si può. Accoglierli nella misura in cui si integrino, con la prudenza del governo e che non sia una minaccia contro la propria identità. Con due capi di Stato abbiamo parlato di questo. Nei discorsi dei presidenti lei vedrà che la parola accoglienza, apertura, è frequente. Questo indica una voglia di universalità nella misura in cui si possa dare spazio, lavoro, nella misura in cui si integrino e la misura è che non sia una minaccia contro la propria identità. Sono tre cose che ho capito sulla migrazione dei popoli: apertura, prudente e ben pensata”.
 
Quando ha parlato a Vilnius dell’anima lituana diceva che dobbiamo essere ponte tra Est e Ovest, ma non è facile essere un ponte. Sei sempre attraversato dagli altri. Però per lei cosa significa essere un ponte?
“La Lituania fa parte oggi politicamente dell’Occidente, della Ue, e avete fatto tanto per entrare nella Ue. Dopo l’indipendenza subito avete fatto tutti i compiti e non sono stati facili. Siete riusciti a entrare nell’appartenenza all’Occidente e anche a entrare in rapporti con la Nato. Anche voi appartenete alla Nato. Se guardate all’Oriente c’è la vostra storia, dura. Parte della storia tragica è venuta dall’Occidente, dai tedeschi, dai polacchi, ma soprattutto dal nazismo. Dall’Oriente invece dall’impero russo. Fare ponti suppone, esige, fortezza non solo di appartenenza che è quello che dà fortezza ma anche di identità. Sono consapevole che la situazione dei tre Paesi baltici è sempre in pericolo. La paura dell’invasione c’è perché è la storia stessa che ricorda questo. Non è facile, ma è una partita che si gioca ogni giorno, con la cultura, col dialogo. L’obbligo di tutti noi è di aiutarvi in questo, esservi vicini”.
 
Cosa ha provato visitando il Museo dei prigionieri del Kgb?
“Ho visitato il Museo a Vilnius – Museo è una parola che fa pensare a Louvre – mentre questo Museo è un carcere, il carcere dove i detenuti erano portati per ragioni politiche o religiose. Ho visto celle della misura di questo sedile, dove soltanto in piedi si poteva stare, celle di tortura. Ho visto posti di tortura dove col freddo portavano i prigionieri nudi e gli buttavano acqua e lì rimanevano per ore e ore, per rompere la loro resistenza. E poi sono entrato nell’aula, nel salone grande delle esecuzioni. Li portavano lì con la forza i prigionieri e semplicemente con un colpo alla nuca li uccidevano, poi li facevano uscire su uno scivolo meccanico verso un camion e li buttavano nelle foreste. Ne ammazzavano quaranta al giorno. Alla fine sono stati circa 15mila gli ammazzati. Questo fa parte della storia della Lituania e anche degli altri Paesi. Poi sono andato al grande Ghetto, dove sono stati uccisi migliaia di ebrei. Poi nello stesso pomeriggio sono andato al monumento della memoria dei condannati ammazzati, torturati, deportati. Quel giorno, vi dico la verità, sono rimasto distrutto. Ho pensato molto alla crudeltà. Con l’informazione che abbiamo oggi la crudeltà non è finita. La stessa oggi si trova in tanti posti di detenzione. Oggi in tante carceri c’è anche il sovraffollamento. È un modo di tortura, di non vivere con dignità. Un carcere oggi che è sistemato senza dare al detenuto la possibilità della speranza già è una tortura. Poi abbiamo visto in televisione le crudeltà dei terroristi dell’Isis, quel pilota giordano bruciato vivo, i copti sgozzati e tanti altri. Oggi la crudeltà non è finita, in tutti il mondo. Questo messaggio vorrei darlo a voi come giornalisti. Questo è uno scandalo, un grave scandalo della nostra cultura, della nostra società. Un’altra cosa che ho visto è l’odio verso la religione. Ho visto un vescovo gesuita che è stato deportato in Siberia dieci anni, poi in un altro campo di concentramento, adesso è anziano. Tanti uomini e donne per difendere la propria fede che era la loro identità sono stati torturati e deportati in Siberia, non sono tornati. La fede di questi tre Paesi è grande, è una fede che nasce proprio dal martirio. Poi ho visto una vita ecumenica come non c’è in altri paesi, generalizzata. C’è un vero ecumenismo fra luterani, battisti, anglicani, ortodossi. Fratelli, vicini, una sola Chiesa. L’ecumenismo ha le sue radici qui. Poi c’è un altro fenomeno che è importante da studiare: il fenomeno della trasmissione della cultura, dell’identità, della fede. Al solito la trasmissione è stata fatta dai nonni, perché i papà lavoravano, dovevano lavorare ed essere sindacalizzati nel partito, in quello sovietico, o sotto la linea del nazismo. Hanno anche educato atei, ma i nonni hanno saputo trasmettere la fede e la cultura in tempi in cui in Lituania era vietato l’uso della lingua lituana. Una generazione ha imparato la lingua madre dai nonni. Sarebbe bello qualche servizio sulla trasmissione nella cultura della lingua, dell’arte, della fede in momenti di dittature e persecuzioni. Non si poteva pensare ad altro perché tutti i mezzi di comunicazione erano presi dallo Stato. Quando un governo vuole diventare dittatura la prima cosa che fa è prendere in mano i mezzi di comunicazione”.